QUANDO FA FLOP LO SPOT ABOVE THE LINE [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo 1]

DI WALTER GALASSO

Ernesto, imprenditore commerciale novello, contempla il suo neonato bar, oggi chiuso per turno settimanale di riposo. Fisicamente allietato da un’amena dolcezza del clima, con il Sole che gli regala la sua ombra alta, l’uomo accarezza con gli occhi quel caro locale, quasi una sua seconda proiezione. Più lo guarda e più vuole rivederlo. Non è un’opera d’arte, ma nelle sue emozioni è comunque tanta roba, perché è un’opera sua, soltanto sua.

A un tratto compare un gabbiano metropolitano, bello e bullo, petto in fuori come un gasato imperatore, e testa alta -così tanto da fare invidia a Dwayne Johnson The Rock nel film ‘Walking Tall’-. Della serie: “sono il ras del territorio”. Ha il becco sporco di sangue. Forse ha aggredito un povero piccione, animale molto carino, soprattutto per la simpatica oscillazione della testa, come Totò Pinocchio, la performance marionettistica in ‘Totò a colori’. Un seagull che, di fronte a una tale creatura, non solo non aggiunge un posto a tavola e la invita a pranzo, ma se la mangia viva, suscita profonda compassione per la vittima. Nell’Urbe vengono impiegati falchi, in molti hotel e pure nella protezione di siti archeologici, per contrastare pericolosi simili del meraviglioso Jonathan Livingston, meno filosofi di lui. La dura legge della giungla, il karma insito nel ‘Chi la fa, l’aspetti!’. Ern, pur essendo al corrente di questo SOS lanciato ai rapaci, quando guarda en passant l’animale, e si ricorda della brutta fine che un suo collega fece fare a un tenero colombo, prova per un attimo un turbamento. Sgradevole, nitido, ma meno intenso della larvata violenza interiore che albeggia nel suo animo, durando qualche secondo, quando l’acqua d’una fontana, all’arrivo d’un dardo, emana un riflesso e lui, in un flashback involontario, si ricorda del momento in cui, da adolescente, fece con uno specchietto la gibigiana sugli occhi del coetaneo Giorgio. Il quale, siccome la vendetta, anche quella scherzosa, è un piatto che si serve e si assapora a bassa temperatura, solo dopo molto tempo rese la pariglia, e con gli interessi, facendo bau bau per farlo trasalire in tachicardia. Quel ragazzo, una simpatica peste, era per lui come un fratello, sembrava che nessuno potesse dividerli. Se si fossero smarriti nell’area più pericolosa del pianeta, in piena notte, zero astri in cielo, buio assoluto, col rischio di tagliatori di teste e bestie killer e sabbie mobili e cannibali non gandhiani e trappole per pitoni reticolati, sparpagliate qua e là, sarebbero stati commoventi: tenendosi per mano avrebbero esorcizzato il terrore con il calore dell’amicizia e, ambedue pregando nella mente, ognuno avrebbe pensato ‘SalvaCi’. Una chiave e il materozzolo non si tradiscono, mai. Invece Giò, dopo qualche anno, è sparito nel nulla: peccato. L’imprenditore ha nostalgia dell’ex amico. Talvolta ne minaccia il fantasma, giurando che se diventerà un qualcuno, e quello si farà vivo -“Ciao, ti ricordi di me? Sono Giorgio”-, lo tratterà malissimo -“Giorgio? Giorgio chi?”-, però, sotto sotto, prova ancora un pizzico di affetto per questo compagno di cazzeggio, un simbolo di quell’epoca spensierata. Parlavano spesso del loro futuro, e Giò gli ha più volte confidato di voler diventare un astronauta. Aveva la fissa per questa meta. In un martedì grasso indossò, come EMU, una tuta in poliestere, acquistata in un negozio specializzato in costumi per carnevale: siccome non vi trovò il casco, optò per un surrogato passabile, mettendosi in testa un’enorme boccia ampolla per pesci. Bei tempi. Lui, invece, nel duo era il fanfarone che volava meno alto con la fantasia. Si limitava a bramare una gloria non cosmica, dichiarando di aspirare a essere, da grande, il capo d’una sontuosa industria, tipo la FIAT. Pure la sua megalomania, quindi, non scherzava, ma almeno aveva i piedi per terra.

Il sogno dell’altro è improbabile che si sia avverato, il suo è sicuramente esploso -una stranissima deflagrazione, lenta, graduale, in un ossimoro vagamente malinconico- e con i pezzi del boom, riciclati con la disincantata pazienza di rimboccarsi le maniche, ha creato, dopo alterne vicende lavorative, il locale che adesso sta coccolando con sguardo paterno. Non può, con una bacchetta magica, farlo diventare, ‘in un fiat’, una multinazionale, però, nel suo piccolo, quella caffetteria gli dà una bella soddisfazione, perché è il suo regno, lì dentro non si muove foglia che lui non voglia. Una sensazione di potente autonomia è forse, su un piano psicologico, il miglior piacere ch’egli prova in questa avventura professionale. Ed è anche la molla che lo ha spinto, fino a questo momento, a decidere tutto lui, ragionando sempre con la propria testa nel plasmarla a sua immagine. Una forma di ‘autarchia’ che può essere fraintesa, apparendo tanto improduttiva quanto presuntuosa.
Ernesto ha creato il suo esercizio commerciale seguendo un fai da te che molti guru, detrattori dei dilettanti allo sbaraglio, reputano un metodo passato da un pezzo, sterile, fallimentare. Oggigiorno se, in qualsiasi branca professionale, una persona agisca a modo suo, non affidandosi alla guida di qualificati esperti, rischia che qualcuno le si avvicini ed esclami “Ofelè fa el to mesté!”. In un’epoca fondata sulla specializzazione, articolata intorno a una scientifica suddivisione dei ruoli, un tipo così può apparire uno stolto e prometeico bauscia. Giova, però, precisare che l’overdose di autonomia nel suo modus operandi, legata alla suddetta sua voglia d’essere una poliedrica sintesi di tutta un’équipe, è derivata da ingenuità più che da autostima patologica. Nella sua mentalità, d’antan, ha pensato di potersela cavare senza chiedere un prestito a intelligenza altrui, ma ha peccato in buona fede, non volendo mancare di rispetto a chi ne sa di più. Piuttosto ha danneggiato se stesso, nel senso che il suo casereccio do-it-yourself lo ha lasciato alla mercé della sua indecisione e contestualmente ne ha penalizzato i risultati.
Per comprendere questo autolesionistico processo basti fare un focus, veloce veloce, sulla punta del metaforico iceberg: la vetrina. Fenomeno trasparente e semplicissimo d’una quintessenza alquanto incasinata. Impiantata dopo settimane di riflessioni. Tu la vedi e la fai semplice, non sapendo il caos mentale dietro le quinte. Per giorni e giorni sempre una fumata nera quando le migliori parti della mente del titolare si sono riunite per decidere la forma da dare al ‘biglietto da visita’. Ogni volta un wrestling fra criteri. Solo un esempio. L’uomo è arrivato ad attingere dal pianeta moda un possibile principio di efficacia, ovviamente mutando, nell’audace e creativa analogia, quel che va mutato: il vedo non vedo. Uhm, non male l’idea di un vetro parzialmente opacizzato e fumé, così da fuori intravedono solo una porzione dell’interno -è opportuno che se ne facciano un po’ un’idea- ma non sanno come sia la restante -e, si sa, il mistero d’una porta chiusa a chiave, off limits e intrigante, tira più di duecento buoi-. ‘Vedo non vedo’ uno… ‘vedo non vedo’ due… e ti pareva! A un passo dalla trionfale fine dell’asta il maniaco ci ha ripensato. Meglio l’omogeneità. O vetro trasparente al cento per cento o il contrario. E meno male che ha scartato questa seconda ipotesi, intuendo l’ovvia superiorità della prima, altrimenti avrebbe potuto indulgere a una variazione sul dubbio amletico e rincitrullire, chiedendosi ‘Vedo, o non vedo: questo è il problema’ così a lungo da ritrovarsi sul lettino d’uno strizzacervelli.
La ‘copertina’ della sua creatura è stata scelta con minuziosa cura, dopo aver sentito il parere di un migliaio di dubbi, ma il risultato è apparso alquanto banale. Tutto qui? Se il direttore d’una rivista demandasse a un suo dipendente, caro cugino di Ernesto, un servizio sulla qualità estetica dei locali di questo rione, e l’inviato, giunto davanti al bar del parente, ne contemplasse la window con un animo incline a lodarla, il suo cervello, siccome spesso chi racconta una bugia inizia a farla viaggiare un attimo dopo aver confidato a se stesso la verità, di primo acchito penserebbe ‘dozzinale’. Essa somiglia a quella di un miliardo di altri esercizi, difetta palesemente di originalità. Tanto caos per nulla, la montagna ha dato alla luce una pantegana. Dir ch’è un déjà-vu è dir poco.
D’altronde nella prima fase del suo lavoro il locale non ha spiccato il volo, e non si è celebrata un’idilliaca luna di miele con la clientela, nella misura in cui hanno lasciato a desiderare tutti i suoi aspetti. Quelli relativi all’‘hardware’ -mi si passi la terminologia informatica-, come l’arredamento, e quelli inerenti al ‘software’, per certi versi ancora più lacunosi dei primi. Se, infatti, su un’ideale pagella questo imprenditore -uno scolaro che s’impegna, ma può fare di più- nel primo periodo ha preso 6 in ‘Vetrina’ e 5 in ‘Banco bar mescita’, si è buscato un 4 tondo tondo in ‘Comunicazione & Propaganda’, come possiamo definire, nel suo mestiere, l’arte di acchiappare avventori. In ogni settore dell’economia la eco (dei servizi e della merce in vendita) vale tanto oro quanto pesa tutto l’immobile in cui si svolge l’attività. Passi la gioiosa illusione di reputare il proprio locale l’ombelico della Galassia, un’esaltazione carina, non priva di toccanti sfumature liriche, però bisogna coniugarla con la realistica capacità di farsi conoscere nel resto della Via Lattea. A un certo punto, rendendosi conto che in una settimana il pavimento del locale era stato calpestato da diciotto piedi di clienti, due persone in meno, dunque, d’una squadra di calcio, Ern ha iniziato, buon per lui, a preoccuparsi. Ha dovuto chiedersi ‘Che fare?’, e per fortuna la sua mente, nel porre questa domanda, non la collega né al romanzo di Černyševskij -nell’associazione gli verrebbe un mal di pancia- né al saggio di Lenin -un’immediata ulcera-.
Da un think tank di amici che la sanno lunga gli è giunta una dritta, simile alle istruzioni pubblicate sul bugiardino di un farmaco: advertising, e crepi l’avarizia. Giddap!, dimostra d’essere un cavallo di razza, col nitrito più à la page del Nuovo Mondo, sgancia banconote e acquista una tale risonanza, non pensare che la spesa non valga l’impresa, che quei soldi siano non un asso ma un collasso nella manica. Far da te è un’austerity tafazzista. Recita ogni giorno lavorativo, prima di alzare la saracinesca del locale, il mantra ‘O réclame, raccomandami ai potenziali clienti, e fa che l’aggettivo scompaia’. Per regalarle poesia di serie B, possiamo pensare che essa simboleggi la fiaccola del sesto, anzi settimo senso, la marcia in più del tipo sveglio, l’usbergo che protegge dalla Crisi. Fondamento della faccenda: do [quattrini]. Gli ingenui e/o gli sparagnini si fermano qui, e pensano che non convenga, gli scafati volponi, invece, vedono oltre, sanno che c’è dopo ‘ut des’, che il committente di pubblicità ha qualcosa in cambio, un premio finale che eccede, almeno si spera, la spesa iniziale. L’osso duro, il dritto che la sfiga non riesce a fare fesso, capisce, con redditizio insight, il paradosso. Questa, in sintetica versione bignami, la lectio magistralis tenuta da un informale consulente a Ernesto. ‘Do you understand o sei di coccio?’.
Lui, il solito zuccone, tanto per non cambiare è stato, sigh, di coccio, e ha traccheggiato. Certo, vedersi in TV o sui giornali è già un quarto d’ora di celebrità, e il locale ne beneficia a prescindere, risultando glamour, però, ha pensato lo spilorcio, può essere una vittoria di Pirro. Non sapeva che pesci prendere col termine ‘pubblicità’, acefala Ninfa Egeria che dà consigli alla clientela. Migliaia di sapienti, in un’accreditata task force che insegna come si sta al mondo, la presentano come conditio sine qua non per attingere ricchezza. Uno la esclude dalle proprie tattiche e strategie? Apriti cielo! Un fan di ‘Bepi & The Prismas’ direbbe ‘Gnurant’. Bando a questa miopia! L’avaro è reputato un uomo meno intelligente di quanto lo fossero i dinosauri, uno che non capisce un ette, un burino senza fiuto per gli affari, analfabeta del linguaggio finanziario, ottuso che crede di poter risparmiare e invece pecca esattamente come lo stolto che, fermando le lancette dell’orologio mentre segnano le 6 e 20, pensa che dopo nove ore siano sempre le 6 e 20. Insomma, una gragnola di critiche gli è piovuta addosso quando ha fatto un pensierino a non ricorrere a spot, réclame, letterature apologetiche dedicate, su qualche magazine o cartellone stradale, a intessere un peana del suo locale. Il personaggio ha tentato di resistere, ma un interrogativo incendiava il suo cuore: posso rosicare (una ghiotta pagnotta) non risicando? In certi momenti ha desiderato il potere di spoilerare il suo destino scritto nei fati, per sapere magicamente l’esito di un eventuale contratto pubblicitario. Inutile dire che, alla fine, impaziente di bazza, stando ai materassi nella prospettiva di sfidare il rischio -in un duello gagliardo ma anche prudente-, è capitolato, anche lui ha dato il via libera a questo metodo e si è risolto a propagandare la venustà del luogo in cui lavora.
Quando ha visto in televisione i consigli per gli acquisti che qualche creativo ha dedicato al suo bar, wow!, ha provato un tuffo al cuore. Che emozione! Musichetta accattivante, fra il dolce e l’epico, inquadrature falsissime (e quindi brave), tali da far triplicare l’appeal di quel luogo, donandogli un indubbio valore aggiunto. L’eretico della pubblicità, convertito allo sport dello spot, sembrava un grande, intento a preparare caffè per il gusto di passare alla storia anche per la sua modestia.
Gli avevano detto, nel backstage dello show, di non badare alle telecamere che lo avrebbero ripreso, per conferire al filmato un’efficace verosimiglianza, per informarlo a un proficuo realismo. Un assistente alla regia, scambiando con lui qualche chiacchiera in una pausa dei lavori, gli aveva fatto presente quel che succede nei film con le comparse: se tu vedi anche un milione di persone intorno al protagonista, sappi che nemmeno una di loro è stata inquadrata in assoluta spontaneità. Pensaci, fratello, se per strada dei passanti vedano una troupe cinematografica -con tutto il suo futuristico equipaggio di tecnologia all’avanguardia-, mentre gira riprese con un attore professionista, è altamente probabile che si mettano a fissare la scena come curiosi, come spettatori occasionali che spalancano gli occhi di fronte all’eccezionalità di quelle azioni. Bisogna assoldare tutti, anche il figurante più marginale, e a ognuno occorre ingiungere di fare la massima attenzione a non tradire la propria consapevolezza delle telecamere. Orbene, anche tu devi fare così, simula di ritrovarti nel tuo bar senza nessun operatore pubblicitario nelle vicinanze, e solo così i 25 secondi del video risulteranno efficaci. L’allievo ha obbedito, ma che fatica! Era più forte di lui, provava l’irresistibile tentazione di girarsi per guardare la cinepresa, non ce la faceva proprio a ignorarla, tendeva a spiarla per una sorta di diktat dell’istinto, che, com’è noto, è un gringo che si fa rispettare nel saloon delle decisioni involontarie. Alla fine, dopo aver dovuto rigirare la scena per una decina di volte, il regista ha sentenziato che l’undicesima era stata buona.
Tutto O.K., dunque, il ruffiano cortometraggio è stato confezionato, e una rete privata lo ha mandato in onda. Nondimeno qualcosa è andato storto nell’ambito delle sue conseguenze. A Ern, infatti, è parso che il viavai sui metri quadrati del suo locale non fosse poi così tanto aumentato dopo l’inserimento dello spot nei palinsesti dell’emittente. Siccome si era prefisso di avere fiducia e non partire da uno scetticismo preconcetto, ha voluto non credere alle proprie sensazioni, e si è preso la briga di telefonare a un suo lontano parente, tre mesi prima licenziato dalla sua azienda e in cerca di nuova occupazione. Gli ha proposto di mettersi a contare, ogni giorno, il numero esatto di clienti, di monitorare con discrezione quante (e anche quali) persone entravano nel suo locale, dall’alba sino al tramonto. Tu, gli ha suggerito, mettiti in un angolo, magari fingendo di fare qualcosa, che ne so, leggere un quotidiano, rispondere alle domande di un cruciverba, smanettare su uno smartphone, ascoltare musica, guardare il televisore che, appeso in alto su una parete, sta acceso h24: nel frattempo, mentre reciti la parte di avventore che ha piantato le tende qui, segnati per filo e per segno chiunque entri. L’obiettivo era chiaro: appurare, dati alla mano, se vi fosse una parabola ascendente di successo man mano che lo spot sul suo regno veniva trasmesso in tivvù.
Sono trascorse tre settimane: l’aiutante, di nome Roberto, gli ha fornito cifre non ascendenti, come lui aveva auspicato, ma più o meno simili. Il primo giorno sono entrate 247 persone, il secondo 229, il terzo 250, il quarto 206, il quinto 249, e così via: numeri, dunque, non tali da far pensare a una proporzionalità diretta tra l’esborso di schei per la programmazione di quelle lodi e l’impennata della clientela. Altro che il primo giorno 247 e il decimo 922! Il decimo, per la cronaca, hanno fatto capolino dentro quell’ambiente -escludendo un elettricista, arrivato per riparare un faretto- 245 tipi, cioè a dire che non solo gli ingressi non sono lievitati, ma addirittura ne si è registrata una sia pur leggera flessione.
Il titolare, venale per congenita tirchieria, dopo questi rilevamenti statistici ha deciso di non erogare più alcun finanziamento -né spiccioli né cifre a molti zeri- a beneficio della pubblicità, radiata dal proprio raggio d’azione in ogni sua forma, sia above the line che below the line. Ovviamente le forme di comunicazione ATL sono quelle che questo aspirante paperone ha odiato in modo particolare, però anche l’ambito BTL di operazioni tendenzialmente meno onerose -come promozioni, relazioni pubbliche o ricerca (a buon mercato) di forme d’un classico passaparola- sono diventate tabù nella neonata mentalità di Ernesto. Questo scombussolato e stizzito barista non è stato neppure sfiorato dal sospetto che la colpa della sterilità di quel battage fosse dell’emittente privata a cui aveva commissionato l’amplificazione; non è stato lambito dalla speranza che scegliendo agit-prop più qualificati e professionali l’esito di queste spese aggiuntive potesse essere migliore. La sua mente è stata sicura di operare con radiosa razionalità nell’abbattimento di tali costi. Il suo bar avrebbe potuto -nella sua ottica semplicistica- fare a meno di ‘pseudoluminari’, che promettono di moltiplicare il numero di clienti e poi fanno un buco nell’acqua.
Questa ‘condanna’, però, in lui -un tentenna doc- non poteva essere tout court definitiva. Come in ogni procedimento penale che si rispetti, ha funto da primo grado del giudizio -l’uomo, in questo imperfetto processo, è parte civile e giudice al tempo stesso-. Avantieri la sua mente, in appello, ha confermato il rimpianto dei soldi versati invano, e dunque le imprecazioni contro chi in precedenza gli aveva consigliato queste spese -“Che te possino acciaccatte”, ma è più signorile la traduzione “May they step on you”-. All’incazzatura di questa impugnazione ha fatto seguito, ieri, una fase di potenziale ripensamento: esclusa l’abiura, non esageriamo, però il Nostro ha preso in considerazione una via di mezzo, medietas in ADV, spendere ma non troppo. Prima di cadere tra le braccia di Morfeo, ancora a metà del guado, ha sospeso il giudizio, in un’epochè sempliciotta, alla buona, senza pretese teoretiche, figlia di confusione, non certo di sofisticato scetticismo. Adesso è arrivato il fatidico momento del massimo grado di giudizio. Mentre continua a guardare la sua creatura, e il gabbiano se n’è andato, a caccia di squisita immondizia, l’esercente intuisce che non si può andare avanti così, ha da essere determinato: o continua a fare pubblicità, e stavolta alza il tiro, la commissiona ad alti livelli, a costo di indebitarsi -o la va o la spacca!-, oppure… La Cassazione conferma ‘oppure’. Ernesto, pentito delle sue improvvide aperture alla modernità, decide di ritornare a metodi più classici. Vuole fare assegnamento, nell’auspicio di ampliare le sue entrate, solo sullo sforzo di migliorare il suo locale, rendendolo più attrezzato.

L’emoji delle dita incrociate ben si attaglia alla sua esclamazione ‘Speriamo bene!’. Egli teme debiti, direttori di banca ‘tautologici’, che prestano centomila euro a chi ne abbia già 99999 come garanzia, e bancarotte, fraudolente e velocissime, e qualche strozzino e infernali cartelli come ‘chiuso per cessata attività’. Teme Lei, la Povertà, una strega che acida ghigna, un nemico particolarmente stronzo, un niente pienissimo di mostri. L’uomo ne ha paura, ma nel fare mente locale su questi pericoli gli succede una cosa strana, anzi stranissima: si rende conto che eventuali problematiche economiche, almeno nel suo animo, cagionano un dolore pesante, maledetto, brutto ed elettrico -chi lo prova prende un’anomala scossa e si ritrova con un diavolo per capello-, ma rozzo, privo di quell’inquietudine ch’egli riprova pensando ancora a Giorgio -un amico che l’ha ferito con l’arma dell’oblio- un attimo prima che il suo ricordo ricada in un pozzo di rimozione. Al suo animo conviene dimenticare un tradimento che a tutt’oggi gli fa venire un groppo in gola. Forse il denaro, La base de tuto, non arriverà mai a essere poetico come il volerse ben.

Walter Galasso