L’UZZOLO DI UN TERZO ATTO DELLA RISCOSSA NELLA FASE POSTPRANDIALE DI UNA DOMENICA [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo 3]

DI WALTER GALASSO

È Domenica, settima e ultima puntata, ‘Nada de trabajo’, della serie ‘L’ebdomada corrente’. Nel ciclico turnover dei giorni essa include il mito della ‘pacchia’, il rito del Break, istituzionale e h24. Seconda parte di un week-end a bassa tensione. L’animo, talvolta con l’automatismo di un robot, è una polarità ‘filorelax’ e rifugge dal sudore, somiglia a un cliché l’altolà che psicologicamente dà al lavoro -fatica che pompa denaro nelle casseforti, ma rende deboli i sorrisi-. La mente ordina a se stessa ‘No Stress’, come il titolo di due canzoni, una di Laurent Wolf e una di Marco Mengoni.
Tira un’aria cheta, ma non è tutto oro quel che luccica in questa serenità tendenziale, sussiste qualche nota drammatica nel quadretto generale. C’è pure, per esempio, l’inferno di un triste cittadino. Un soggetto diversamente abile, molto claudicante, ha interrotto il suo isolamento. Hikikomori, prigioniero di uno struggente complesso d’inferiorità, prova disagio nell’apparire in pubblico: con poca gente in giro è meno condizionato nel fare una passeggiata e prendere una boccata di ossigeno en plein air. La vergogna morde alla giugulare la serenità. Solitudine allo stato puro in quell’essere infelice, un estraneo nei suoi paraggi può avere per lui un riguardo tanto garbato: far finta di non accorgersi del suo problema o, meglio ancora, notarlo ma con Rispetto, e guardare con buona empatia i suoi occhi, magari sorridendogli, magari diventandone un amico. L’indifferenza alla pena altrui è più difficile che mai vicino a persone così.
Ma è in agguato la ferocia di netti contrasti nello stesso punto della cartina geografica. A poca distanza dal poveretto un’ilare crapula. Da finestre e balconi ai primi piani, sopra un collinare accumulo di ‘monnezza e miasmi’, emana la giuliva eco di un tintinnio di posate. I commensali -con musica leggera, anzi leggerissima, in sottofondo- gavazzano, squittio di chiacchiere che sono un antipasto pre-primo -main course a base di sugo e carboidrati-, o un contorno, insieme all’insalata, di un proteico secondo, o la versione verbale di un amaro alla fine del banchetto. Nei bla bla basso il rischio di diatribe su questioni di Stato: tutt’al più casuali battibecchi su serie pinzillacchere, ma getta benzina sui loro fuochi qualche emina di buon vino. Magari la vernaccia di Corniglia, delle Cinque Terre, che Ghino di Tacco, nella GIORNATA DECIMA – NOVELLA SECONDA, del Decameron, offre all’abate di Clignì, come parte del rimedio per il mal di stomaco. La terapia funziona, altro che Maloox!, e il prelato, per disobbligarsi, poi interpone i suoi buoni uffici presso Bonifacio VIII perché conceda la grazia al mercenario, famigerato e seriale autore di ruberie. Potenza di Bacco! Ha potuto, nell’estro di Boccaccio, riconciliare un papa e un bandolero, figuriamoci se non sia in grado di sedare zuffe su un rigore non dato in un derby calcistico.
Giù, sulle carreggiate, poco traffico, diradata pure la circolazione dei mezzi pubblici, come in uno sciopero generale. Un ciclista dilettante pedala su una leggerissima bicicletta in carbonio. Il veicolo pesa meno del primo strato della sua pancia -che, più modestamente, è in ciccia, un materiale non lightweight-. Lo sportivo è concentratissimo nel suo hobby, guarda davanti, con occhi fissi, come se stia sfidando un pericoloso nemico, ma è tutto un bluff, in realtà sta pensando a uno spogliarello -simile a un burlesque- che ha visto, in gran segreto, alla tivvù -quant’era bona!-. I chilometri all’ora a cui corre? La sua velocità è comunque superiore al dinamismo d’una tartaruga dalle performance maggiorate in losco doping, ma il verbo ‘sfrecciare’ è un’altra cosa. Comunque, scherzi a parte, il suo movimento, che produce un bel sibilo nell’ambiente, spicca in mezzo a una specie di vuoto, fratello del buio in un black-out. L’engagement su una parete -un anonimo ha scritto: ‘Il sonno della Regione genera mostri’- sembra un ironico contraltare al generale alloppiamento. In un giardinetto un’altalena ludica ondeggia senza qualcuno sopra, spinta da vento, su un prato privato, attiguo a una villetta. Pure il gioco, in questa dilatata ora di morbida, è un inopportuno eccesso di energia.
Non c’è il caleidoscopico casino della metropoli a un’ora di punta in un lunedì arciferiale, quell’intreccio di elettrici moti che meglio rende l’idea, rispetto alla stasi, del Tempo, ma il Tempo È comunque e non fa sconti, nemmeno nel dolce far niente d’una Sunday, e con esso non rallenta nemmeno il rischio di angoscia nella quiete del riposo, che non sempre equivale a calma. Ernesto in questo vuoto prova un pizzico di horror vacui, perché nei rumori, vicino alla gente che ha da fare, nel tourbillon della città, simile a un nevrotico flipper impazzito, in mezzo al lavoro e alle sue incombenze -pallose, o.k., ma in esse l’Io si distrae da idee ancora più canaglie-, il cervello paradossalmente non tende a elaborare pensieri ammalati di ansia, gli risulta più facile l’utilissima vigliaccheria insita nella loro rimozione. Adesso, invece, in questa festività in cui sembra che il cielo abbia ordinato ‘Sss!’ ai più, nell’ex amico di Giorgio, nel suo animo, c’è qualcosa che non va: A.A.A. cercasi serenità.
L’uomo decide, nonostante la festività in corso, di recarsi comunque nel luogo in cui trascorre così tante ore feriali. È un eroe, anche se non lo sa. Un campione d’involontario anticonformismo, termine molto più ampio di quanto si possa pensare. Esso significa pure ribellarsi, a vari livelli, a quella Logica nella quale, 2+2=4, una causa spara nell’immediato futuro, con stranissima e mascherata pre-potenza, una conseguenza assennata. Che le scaturisce così come un dado, lanciato sulla superficie di un tavolo, non può non sedersi finalmente, dopo un velocissimo e transeunte squilibrio, su una delle sue facce, e la suspense consiste solo nel chiedersi, prima, quale sarà. Nasce dall’ossessivo, autoritario, pedissequo primato del Conformismo la demonizzazione del tipo ‘pazzo’, o ‘ribelle’, o surreale, il tizio che tu dici alfa e, per giocare con la savia logica e sfotterla con una creativa sorpresa, risponde come se abbia udito ‘omega’. L’universo è ricchissimo di anomalie, pezzi di non senso, irregolarità, reazioni impreviste, contraddizioni, eppure, nella mentalità invalente, è dura la Mission di chi ama il pensiero ‘superlaterale’. Uno yuppie la domenica non lavora, ma il mercoledì si atteggia a stacanovista in un modernissimo bureau, oh yeah! Il mattino ha l’oro in bocca, dunque orsù, non ti distrarre e produci, la sera ci si diverte, possibilmente senza fare discorsi di filosofia. Per un posto in un’azienda, due i candidati, A, di anni 300, e B, 600, è meglio assumere il primo, più spumeggiante, motivato, fresco di studi, up-to-date, ecc. eccetera etc.. Se aspiri al ruolo di capitano d’una nave, non dire all’armatore che hai guidato mille volte e con successo una carretta in mezzo al maelstrom, fagli vedere un diploma di un Istituto Nautico, ché fa più fede. Se scrivi un romanzo rispetta la ricetta perfetta, per esempio non ti permettere la diramazione ‘digressione C nella digressione B nella digressione A’, ché questa incoerente propaggine si tira dietro il resto dell’opera nel tritacarte di chi la riceva, e stai sempre sul pezzo, altrimenti qualcuno borbotta “per me è inconcepibile che ‘sto Proust impieghi trenta pagine per descrivere il suo girarsi e rigirarsi nel letto prima di prendere sonno”. Non sposarti a 44 anni, ché gli spermatozoi sono meno baldanzosi di quando eri un guaglione -l’ha detto un ricercatore, ipse dixit-; non avere un figlio a 50, ché poi ti scambiano per suo nonno; non t’innamorare d’una trentenne se hai quarantotto primavere, ché gl’interessi fatalmente non coincidono; non voler bruciare le tappe (a meno che non ti metta sotto la protezione di …). Non dire mai che il mondo progredisce grazie a qualcuno che sbriciola un paradigma e mentre lo piccona, con coraggio extra-large, a chi più grida “dagli all’untore!”. Non-non-non-non-non-non-non: il primo, con la Maiuscola, è la motrice del trenino chiamato ‘Omologazione’ -’uff uff!’ più che ‘ciuf ciuf’-, uno dei vagoni è, appunto, la distanza di un cittadino, la domenica, dal luogo di lavoro. Un tabù scrio scrio è il contrario, e lo si può percepire tangibilmente se, con qualche problema all’auto in un dì d’un fine settimana, passi davanti a un’officina e sai, e senti col cuore, che nemmeno per miracolo il titolare ne alzerà la saracinesca prima di Monday. Ernesto, e chi l’avrebbe detto!, oggi è in vena di un miracolo.
Il tempo, inteso come clima, è una via di mezzo fra troppi nodi di vento e bonaccia, fra la malinconica cappa di qualche nuvola passeggera e il giallo successo di un Sole ottimista e intenso, tale da indurre qualche turista giapponese ad aprire un ombrello per proteggere la testa dai suoi raggi infervorati. Diciamo che vige un principio di alternanza fra dispari tipologie di atmosfera. Alle 15 e 10 la luminosità dell’aria risente della passeggiata nel cielo di qualche nembo capriccioso, e soffia forte una specie di monsone, e il crine del protagonista si ritrova in mezzo a una rivoluzione formale, senza il servizio d’ordine garantito da un pettine o da una spazzola -questo soggetto non va in giro con arnesi del genere-. Poi, alle 16 e 25, come se qualche sua colpa abbia causato, in un nesso fra moralità e meteo, dei cambiamenti climatici di gran momento, non si registra nemmeno un alito di scirocco, e tutto il paesaggio appare rischiarato dalla sparizione di quei cirri e dalla ripristinata egemonia di una generosa amenità del clima.
Marzo pazzerello? Beh, questo dì in pieno maggio lo è di più, ancora più volubile, cangiante, simpaticamente matto, ribelle al trionfo di un’immutabilità seriosa e affidabile. Ernesto si ritrova in queste ibride condizioni ambientali mentre, in fase di possibile abbiocco, cerca di smaltire le calorie incamerate durante un pasto esagerato. La decisione di recarsi nel suo locale è scaturita anche da qualche sua lacrima di coccodrillo dopo un’abbuffata sicuramente non giovevole alla sua linea. Massì, si è detto, facciamo quattro passi, una salubre boccata di ossigeno sarà meglio di un’acqua tonica per digerire. Cammina lemme lemme, con passo felpato, avendo calzato scarpe con la para sotto la suola, e quindi alquanto silenziose. Se si avvicinasse, alle spalle, a un amico sprovvisto del fiuto di un formichiere, quaranta volte superiore a quello degli uomini, il deuteragonista non si accorgerebbe di lui, le sue orecchie non captando nessun audio relativo al contatto di quegli stivali con il suolo, e le sue narici, appunto diverse da quelle del suddetto animale, non potendo supplire a questo vuoto di informazioni.
Il barista imbocca il contrario di una scorciatoia per raggiungere una tabaccheria -tappa intermedia prima di arrivare al suo regno lavorativo-, nel senso che non solo non opta per un tragitto particolarmente conveniente, ma addirittura sta allungando l’itinerario. Perché? Semplice: per vedere e scoprire scorci di paesaggio a lui ignoti, per esperire un altrove rispetto alla strada che è abituato a percorrere quando si reca in quel negozio -soprattutto per acquistare sigarette e gomme da masticare-. Elabora riflessioni sull’opportunità di continuare a trasformare il suo bar. Si chiede se debba potenziare ulteriormente il pubblico esercizio o se possa gettare l’ancora dopo le migliorie già apportate. Nella spinosa fioritura di questa domanda prova anche, ogni tanto, un sottile fastidio: che noia correggere qualcosa!, che barba non poter dire a se stessi che va tutto bene! Dopo aver constatato la natura anodina del lievito commerciale chiamato pubblicità, dopo aver dedicato tante energie all’affinamento di quel Caffè, adesso la sola idea di dover continuare a scervellarsi per modificarlo ulteriormente lo fa innervosire. La sua mente è sedotta dall’idea che possano bastare gli emendamenti effettuati. Certo, tutto si può perfezionare, ma se partiamo da questo presupposto non la finiamo più, in qualsiasi campo e a qualsiasi condizione. Anche il re dei re di un determinato settore economico, quantunque il mondo intero gli riconosca di aver attinto un successo senza precedenti nel suo ramo operativo, se si mette a onorare il perfezionismo, e vuole trovare il pelo nell’uovo, è costretto a dire che ha da lavorare ancora tanto prima di poter definire davvero impeccabile la sua attività. Quindi, egregio Ernesto -quando parla a se stesso nei suoi pensieri, e gli succede sovente, ogni tanto usa questa strana formula-, bando alla troppa virtù, accontentati di aver raggiunto una buona posizione, con dei guadagni più che positivi, e lascia perdere l’uzzolo di regalare al tuo esercizio un progresso a oltranza.
Albeggia un tranquillo e/ma intensissimo colpo di scena in quest’uomo né uti né puti, un semiserio protagonista alle prese con la digestione di un pranzo pantagruelico.
Nome: Ernesto, sovente abbreviato in Ern. Cognome: non ce ne frega niente, o meglio: rispettiamo la sua privacy. Mestiere: titolare di un bar avviato ma non troppo. Segni particolari: deluso dalla pubblicità, depennata dalle voci di spesa del suo ‘borderò’ e sostituita con metodi all’antica. Sposato? Sì, ma forse alla cerimonia nuziale ha fatto seguito la crescita di corna, di lei a lui e di lui a lei, quindi di domenica non è d’obbligo, nel loro ménage, una vicinanza da romantici piccioncini, e ognuno se ne sta per conto proprio, per ricordare al coniuge che lo odia. Risiede e lavora a Roma, ma l’abitazione dista molti chilometri dalla dimensione lavorativa, sicché se l’uomo vuole andare dall’una all’altra deve effettuare un notevole viaggio, e in questo primaverile pomeriggio lo sta compiendo con uno spostamento di genere misto, cioè prima pedibus calcantibus, e poi su un autobus noto per non passare mai con la dovuta puntualità. Per l’esattezza, la decina di chilometri di tragitto è così ripartita: un chilometro circa è la distanza dalla casa alla fermata del mezzo pubblico -la tabaccheria è sita più o meno nel mezzo di questo itinerario-, e poi su questo torpedone l’uomo può raggiungere una fermata distante quasi novecento metri dal suo locale. La sintesi è dunque la necessità di dover percorrere a piedi un quinto del percorso -2 KM su 10-.
Ovviamente capita che pure lui ricorra all’automobile, ma al suo temperamento talenta soprattutto farne a meno quando possibile, proprio come in questa speciale domenica, nella quale non ha una particolare fretta e pensa piuttosto a dimagrire attraverso il metodo di quattro passi in libertà. Pare che faccia molto bene, così ha imparato leggendo molti articoli di giornale e seguendo scientifici documentari: almeno mezz’ora di ‘walking’ al giorno, e tutto l’organismo festeggia. Fa bene, anzi benissimo: il metabolismo resta su di giri e felice, etti in eccesso vengono smaltiti e l’adipe si assottiglia, e poi un sacco di altri benefici. Si tratta in genere di vantaggi fisici, ma può succedere che, prescindendo dalla tecnologia dell’auto ed erogando l’energia di una bella camminata, l’Io incameri insperati risultati culturali: oggi l’uomo può ottenere, perché no?, proprio questo tipo di arricchimento.
L’esercente, comunque, esclude che lo possa aspettare, in questa scarpinata postprandiale, un’esperienza destinata a dare il la a una rivoluzione nella sua biografia, una coupure che cambi la sua vita, modifichi sensibilmente la sua Weltanschauung, inietti nella sua mentalità di piccolo imprenditore enzimi di nuove ideologie, fresca linfa di un metodo strano, all’avanguardia e classico al tempo stesso.
Magari qualche maître à penser, non appena un presentatore televisivo gli chieda, davanti a un eccitato pubblico in sala, quale sia il trucco per sfondare nell’arte di gestire un bar, è pronto a pronunciare, con tono birignao, discorsi pieni di bizantinismi, o al contrario pappardelle, tiritere che non hanno né arte né parte ma, siccome sono elaborate da un ‘esperto’, per forza devono essere reputate intelligenti. Il guru monopolizza per ore la trasmissione in cui è stato invitato -alcuni lo definiscono un ‘prezzemolo’, egli comparendo in una caterva di programmi mediatici-, dispensa alati consigli, cita i risultati di indagini sociologiche, fa vedere che il suo volto sorride sulla copertina di un noto giornale scandalistico, per avallare quello che dice attraverso questo espediente di vanteria, e concepisce una vera e propria teoria sulla maniera più illuminata di gestire un locale pubblico, imperniando la sua dissertazione su una rigorosa regola accademica. Tutti a pensare che queste idee possano assurgere a vademecum per chi voglia fare carriera come gestore di un Caffè, che rispettarle costituisca l’abbiccì nel manuale del perfetto barman, e invece Ernesto sta per prendere in contropiede questa massa di opinionisti, accingendosi a mutuare da osservazioni semplici una preziosa bussola nella sua navigazione economica.

Walter Galasso