LA FAVOLA DI DUE ‘TOPI SELFIE’ SULLA CNN [Da articolo a racconto]

DI WALTER GALASSO

[…INSPIRATION FROM: CNN; Say cheese: Rats like taking selfies too; By Issy Ronald; Published 5:52 AM EST, Mon January 29, 2024]

Augustin e Arthur, topolini simpatici e amici inseparabili. Il primo è più intellettuale, per mesi ha studiato come un secchione e, in virtù di queste letture, è arrivato a ribellarsi ideologicamente alla ghettizzazione a cui lui e i suoi simili sono condannati.

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Animali come tutti gli altri, occhi orecchie zampe naso coda eccetera, e anzi, a dirla tutta, sono capaci di autentiche performances atletiche. Sfrecciano come saette su fili, saltano che è una bellezza, Arthur ha scalato, senza strumenti!, una parete rocciosa con 84.29° d’inclinazione, nientepopodimeno che il 1000% di pendenza: un alpinista metterebbe la firma. Augustin, dal suo canto, nuota molto bene e pure in immersione, sa stare in apnea per minuti. Ambedue s’intrufolano alla grande in spazi strettissimi, come i tubi di un lieu d’aisances, tunnel off limits per tante altre bestie. Sono così flessibili da riuscire a passare sotto una porta, schiacciati come sottilette. In una pellicola della Decima musa una cosa del genere sarebbe un effetto speciale ottenuto al computer. Hanno pure, dulcis in fundo, denti adamantini. Campioni, insomma, o comunque quadrupedi gagliardi, eppure discriminati, fatti segno di razzismo, schifati, odiati, trattati per lo più come esseri di serie C -tempo addietro sono stati lì lì per fare una class action con serpenti e scarafaggi, poi, per discordie intestine, l’accordo è sfumato-.

2021_S1_MAP1_Lignier-Augustin_CharlesNegres_SelfiesRats-26. augustinlignier.com

Augustin non ne può più, una tabaccaia, ogni volta che lo intravede, in crasso body shaming urla “che schifo!” -detesta soprattutto la sua lunga coda-, l’amministratore del palazzo dove lui ha fatto il nido -che, in una sana democrazia, dovrebbe essere un interno come tutti gli altri- ha sparpagliato qua e là subdole trappole -dir che sono mobbing è dir poco-, e… Il cahier de doléances è lungo, si fa prima a dire che cosa va bene nei rapporti con gli umani della zona: nulla. ‘Sti tamarri sono politicamente scorrettissimi. Con alcuni loro colleghi, soprattutto con i cigni, sono adorabili, e fin qui tutto o.k., ma con i topi si dimenticano dell’animalismo, se ne fregano come i peggio bracconieri, e anzi pongono in essere un’autentica persecuzione. Aug ha voglia di sfogarsi con Art, ma non è certo che l’amico, meno colto e per niente sindacalista, possa capirlo al cento per cento. Pure lui, ovviamente, subisce umiliazioni e se la prende, però potrebbe, col suo carattere spiccio, derubricare la questione a trend in auge dalla notte dei tempi, fare spallucce e dirgli ‘amico mio, così vanno le cose, non potremo certo noi stravolgere gli usi e costumi’. Mah, Augustin non sa se parlargli o meno della sua amarezza.
Intanto giocano, a rimpiattino. Poi scorrazzano in preda a una tarantolata voglia d’avventura. Per un pelo un punkabbestia all’avanguardia, intento a esibirsi in acrobazie di break-dance, non schiaccia Augustin, salvato per il rotto della cuffia dal compagno, che lo tira per la coda. Fiuuu!, scampato pericolo, ma da adesso in poi nulla sarà più come prima, staranno alla larga da tipi esagitati come quel bravissimo ballerino. I discoli, alla ricerca di un essere umano antitetico al brio di quel performer indemoniato, vanno a fare il solletico a un accattone un po’ intellettuale, in stato di pigro alloppiamento -due libri, uno sull’altro, come cuscino-, strofinando le due code sotto la pianta dei suoi piedi. L’uomo, svegliandosi tutto a un tratto, li ritrae velocemente: le risate! Sotto gl’importanti baffi, simili a flosce corde di chitarra, sghignazzano con gusto.
Poi Aug, mentre sono in riva a un fiume, si fa serio, chiede al fratello di prestare attenzione, e gli spiega il suo cruccio. Gli confida che il posto dove abitano gli sta stretto, incartapecorito, pieno di bifolchi, troppo razzismo grava sulle loro teste. Ha voglia d’una svolta, vuole cambiare aria, chissà che altrove non sia tutta un’altra musica. Magari possono andare al Polo Sud, nella speranza che la comunità dei pinguini sia meno peggio della giungla chiamata ‘società’. “Fratello, ci stai? Per me è importante la tua risposta, perché da solo non me la sento”. Arthur, a dire il vero non molto convinto dell’opportunità d’una tale rivoluzione -lui è un tipo più riformista-, di fronte a quelle parole, un atto di affetto, lo tranquillizza e gli dà ragione, pur con un caveat: “A mio modesto avviso, tutto il mondo è paese, anzi da un’altra parte ci può andare pure peggio, però mi fido di te, che hai studiato di più. E poi, se anche fossi in totale disaccordo, non ti lascerei certo partire da solo”. Chi semina alba raccoglie mezzogiorno. La risposta è più carina della domanda, o comunque, senza gerarchie nella poesia di questo momento, i due topi ancora una volta dimostrano di volersi bene, come la chiave e il materozzolo. Tacciono, guardando l’ipnotico flusso fluviale, e già pensano alla partenza.
Seccati dei continui maltrattamenti, frustrati per la penuria di ‘follower’ tra gli essere umani, s’apparecchiano a una svolta. Questo rione è un’insopportabile bolgia di pregiudizi, e del resto, se tanto gli dà tanto, anche in altre umane società è altamente probabile che subiscano soprusi e aggressioni. Il duo vuole sperimentare come si sta in comunità di altri animali. In pole position, nelle loro attuali intenzioni, resta l’idea di un’emigrazione verso l’Antartide, nel regno dei pinguini. Smettono di osservare l’acqua, e decidono di ritornare nelle loro tane, anche per cominciare a preparare i bagagli, magari dopo aver trafugato un po’ di cibo in qualche appartamento. Marciano con elettrico brio sulla riva del fiume, in fila indiana, la coda dell’uno sfiora il muso dell’altro. A un certo punto vedono un clochard, sotto un ponte. Aug si blocca, l’altro lo imita, anche se non capisce perché si sia fermato l’amico, il quale, intuendo la sua perplessità, gli chiarisce la situazione: “‘sto barbone non è come quello di prima, che aveva con sé libri, quindi era forte, potevamo prenderlo in giro; questo è ignorante, è fragile, andiamo sull’altra sponda, non passiamo davanti al poveretto, ché se ci vede si spaventa e poi può non riprendersi”. Detto fatto: uno strepitoso tuffo, splash, e in men che non si dica sono dall’altra parte, e riprendono la corsa. Dopo un minuto e 14 secondi, però, succede un evento strano. Mentre loro si fermano un attimo, per rifiatare, gli si avvicina, lemme lemme, uno strano giovane -si chiama Marco-, seguito da un coetaneo, un po’ dietro -Luca-. Gli sorride, e Augustin pensa ‘uhm, non mi fido, qui gatta ci cova, non vorrei che quella simpatia sia un’esca’. Il compagno, invece, sospende il giudizio, in attesa degli eventi. L’uomo aggiunge allo smile, man mano che si appropinqua, un’espressione di sincera tenerezza, che viene recepita dall’istinto dei roditori. Poi, colpo di scena, inizia a salutarli -sì, li saluta!-, agitando una manona, in segno di ‘ciao!’. Il cuore di Arthur non ha più dubbi, quello lì non recita pace, è davvero dalla loro, idem l’altro, che pare un pezzo di pane. Non si sbaglia, e fortunatamente, propenso a non scappare, guadagna alla causa suo fratello, dopo aver bisbigliato “tranquillo, mi sembrano due bravi guaglioni”. Marco, ormai giunto a un tiro di schioppo, “ciao, belli!”. Belli? E che succede? Ai sorci non pare vero, mo piove dal Sole. Pure Luca li saluta, e loro ricambiano. Ogni uomo si presenta ai due ratti. Marco avvicina una mano, così gradatamente che sembra al ralenti, e comincia ad accarezzare, alternativamente, le loro teste, mentre l’altro filma con uno smartphone la scena. Gli animali, in brodo di giuggiole, iniziano a bruxare. È proprio vero, c’è sempre una prima volta, in male ma pure in bene. La coppia di giovani uomini, senza abusare della loro gentile disponibilità, si congeda e se ne va. Il video, postato su un social, diventa, va da sé, virale. Qualcuno li definisce ‘militanti del WWF’, un critico, con la puzza sotto il naso, la fa difficile: “Hanno voluto épater le bourgeois”, prevalgono però, in una quantità industriale, i commenti semplici, verbigrazia ‘che carini!’, in riferimento a tutti e quattro (anche l’invisibile autore del reel). I topolini, dopo questo incredibile episodio, riacquistano fiducia negli uomini.
E allora, propone Augustin, “cambiamo ma non troppo, limitiamoci a cercare un posto, sempre umano, dove abbondino i Marco e Luca”. Pausa, occhi in alto, velocissima carrellata (nei suoi pensieri) di ipotesi, e “Direi Parigi, là possiamo essere trattati benone da autoctoni illuministi, specializzati nella tolleranza. Tu che ne dici, ti va?”. Affare fatto, Arthur ci sta, anche se, non avendo capito nulla dei due paroloni, ‘illuministi’ e ‘tolleranza’ -termini per lui oscuri come ostrogoto-, annuisce enfaticamente solo perché ha da sempre un sogno: arrampicarsi sulla Tour Eiffel. A dire il vero, c’è, nel mondo, un posto che li attira ancor di più, e si chiama America, esattamente gli Stati Uniti. Si sono informati, imbarco a Civitavecchia e sbarco a Cape Liberty, crociera Odyssey in un paio di settimane, ma ora come ora non si possono permettere il gioiello Royal Carribean. A Paris, invece, possono andare con le loro zampe, correndo a più di dieci chilometri all’ora per un sacco di tempo. Una corvé, una odissea vera e propria, non per finta, come il nome della nave, ma a loro la buona volontà non fa difetto.
Inizia la traversata. Il loro look è tutto un programma. Come spesso succede a perdenti sfigati e dignitosi al tempo stesso, vogliono ostentare, in un’esperienza potenzialmente piena di ostilità e disprezzo nemico, qualcosa che li faccia sentire orgogliosi. Sulla T-shirt di Aug l’immagine del suo mito, Topolino della Walt Disney, un simbolo anche di bella intelligenza. Su quella dell’amico un mouse, il dispositivo di puntamento per personal computer, inventato dall’uomo Engelbart. L’analogia -fra sé e quel coso- non è strettissima, ma a lui basta e avanza per bearsene con orgoglio. Tiè, razzista! Io ho ispirato un oggetto importante a livello planetario. E tu? A cosa somigli, a parte la merda? Il viaggio inizia, e dopo mille vicissitudini, peripezie, antagonisti eccetera, arrivano finalmente, ah!, nella capitale della Francia. Hanno impiegato un’eternità, ma ne valeva la pena, e poi a costo zero!
Siccome il topo perde il pelo, soprattutto nell’alopecia ciclica, ma non il vizio, poco dopo l’arrivo, stremati dal pazzesco viaggio, profondamente affamati, decidono di abbarbicarsi fino all’attichetto di un dandy facoltoso, salendo nelle tubature e uscendo dal water. Mettono a ferro e fuoco l’immobile, a caccia di pappa. Trovano cioccolata Kinder Bueno, by Ferrero, squisitezza del Made in Italy, e iniziano con ingordigia il pantagruelico banchetto. Squit, uhm, squit, slurp… Che goduria!… Mentre gustano una barretta dopo l’altra, si spalanca la porta. Mannaggia, il proprietario! I due ladruncoli si sentono in trappola già mentre si materializza la figura del giovane, che, man mano che si apre il blindato serramento, si disvela gradatamente ai loro occhi. Il boss ancora se ne deve accorgere e già loro immaginano di finire in un tribunale. Quello, soprappensiero, per diversi secondi non li nota, ma in questo arco cronologico i ratti non si fanno illusioni, Augustin pensa ‘è giocoforza che, colti in flagranza di reato, ci trascineranno nelle aule di Temi’, e Arthur ‘nooo, mo finiamo in gattabuia!’. Il ragazzo, non appena li vede, strabuzza gli occhi, apertura che pare foriera di loro guai, e invece succede un evento che conferma meravigliosamente quel che Aug ha pensato quando ha scelto questa metropoli come indirizzo della loro avventura. “Ma che fate!, quella cioccolata è scaduta, mi prefiggevo di buttarla domani, vi può far venire il mal di pancia. Mangiate la stecca che sta nell’étagère in stile chippendale”. Ma che beau geste! ‘Sto paperone -si presenta, si chiama Philippe- è un ragazzo d’oro. Evidentemente, anche se molti pensano che ‘Philippe’ significhi in certo senso ‘amico dei cavalli’, può voler dire amante tout court di tutte le bestie. I due birbanti innanzitutto tranquillizzano il bravuomo, “grazie -parla a nome di entrambi Augustin-, sei molto gentile, ma non ti preoccupare, noi siamo temprati, digeriamo tutto, mica siamo ci…”. Non fa in tempo a finire, perché Arthur lo frusta -appena appena, per fargli male solo moralmente e non fisicamente- con la coda, sferzata che vuol dire grosso modo ‘limitati a difenderci, senza offendere altri animali, ché sta male!’. Poi declinano l’offerta, perché pure nella fauna possono esistere inibitori sensi di colpa, e se ne vanno -stavolta dalle scale, non dalla toilette-, commossi e contenti. Se il buongiorno si vede dal mattino, se qui sono tutti come questo parigino, la vacanza sarà meravigliosa, pacchia in un eldorado.
In questa rosea previsione si precipitano in un ottimismo che fa i conti senza l’oste. Succede un negativo colpo di scena: mentre si stanno recando alle pendici della Torre, in mezzo al caos della bella metropoli, vengono rapiti da un commando, che, senza alcuna mira di riscatto, li porta al committente del sequestro, il titolare di un negozio di animali, Philemon, a sua volta incaricato da un tipaccio, Jean, suo cliente, di procacciargli una coppia di ratti. Il negoziante paga i tre bandoleri, prende i due ostaggi e li rinchiude in una gabbia, in attesa che Jean venga, li veda per decidere se questi esemplari facciano al caso suo -ma Phil dà per scontato il pollice dritto, lo reputa un semplice pro forma- e l’affare si concluda. I topolini, già giù quando si ritrovano dietro le sbarre di una prigione, piombano in una cupa depressione quando quell’avventore arriva e li squadra, dalla coda ai baffi: che sguardo cattivo! Passare dalla galera in cui sono alle grinfie di quel demonio sarà, se l’intuito non li inganna, come cadere dalla padella nella brace, anzi un regresso peggiore, sigh. L’orco è soddisfatto, tutto o.k., e tornerà l’indomani pomeriggio, per prendersi i quadrupedi. Augustin e Arthur hanno un brutto presentimento, e sono disperati. Trascorrono una notte da incubo, Aug singhiozzando, Art cercando, con la sua resilienza proletaria, di fargli coraggio, dicendogli che magari si stanno sbagliando, ma mente sapendo di mentire, lui ha la stessa, dannata fifa blu del suo amico. Il giorno dopo, quando arriva il proprietario dell’esercizio, e alza la saracinesca fischiettando, li trova in un angolo della gabbia, tristi, sguardi bassi, Augustin versa le ultime lacrime di cui i suoi occhi ancora dispongono, lamentandosi in modo colto e macerandosi in un sofisticato pentimento. Art è impietrito, muto, un silenzio glaciale. Ha smesso di consolare il compagno di sventura, guarda fisso nel vuoto mentre alle sue orecchie arrivano nomi incomprensibili -pronunciati dall’altro prigioniero in un mezzo delirio-, come Prometeo, hybris, Icaro. Interrompe il suo mutismo solo per bisbigliare “Fratello mio, sognare è stato bello, comunque vada noi dobbiamo essere fieri di averci provato. Abbiamo una sola colpa: non aver capito che noi poveretti è meglio che non alziamo la cresta, altrimenti è peggio”, e si blocca. Stavolta piange pure lui, e istintivamente si avvicina all’amico e lo abbraccia, “Augustin, Augustin mio, cerchiamo di restare così quando quel boia ci prende, insieme fino alla fine”.
Li vede in questa struggente desolazione, dopo tre quarti d’ora circa, un uomo che il titolare accoglie quasi con riverenza -è venuto per comprare un acquario, da installare come sottofondo di un vernissage-. Gli animali non lo guardano neppure, non sanno che questo personaggio forse è stato spinto qui da un pianeta che gli vuole bene. Lui, invece, dopo aver salutato Philemon, li osserva, eccome! Questo essere umano, buon per i topolini, è un artista, Augustin Lignier. Ai prigionieri non poteva andare meglio. L’uomo, nel vederli così affranti, si commuove. Coglie, dei motivi del loro patema, solo quello che può intuire, ossia che si dolgono della detenzione. Apprende l’altro, dopo aver deciso di acquistarli per rimetterli in libertà, quando il commerciante, facendo spallucce, gli dice “mi dispiace, dottore, li ho già venduti”, anche se, l’artista lo sa bene, di fronte a una sua insistenza è difficile che seguiti nel diniego, perché lui è il suo cliente più prestigioso, conosce tante persone importanti a Parigi, e non solo. L’uomo Augustin, storcendo le labbra, si avvicina ai due: ma che tenerezza gli fanno con quei musetti! Ritorna vicino al bancone. “Quanto ti ha dato quel tizio?”. E l’altro gli dice la cifra. “Va bene, non c’è problema”, ed estrae da una tasca il suo portafogli, rigonfio di conquibus. Prende una somma settanta volte superiore, mette la collina di banconote sul counter, e “digli che sono scappati mentre pulivi la gabbia, e ridagli indietro i suoi soldi”. Philemon, che non può dirgli di no già per il suo prestigio, ha un secondo, meraviglioso motivo di un clamoroso ‘Sì!’: con quell’argent forse è possibile acquistare una giraffa! I topolini, che quando hanno visto l’artista di primo acchito hanno pensato ‘che uomo squisito e buono’, allorché realizzano che questo galantuomo ce l’ha fatta a convincere il negoziante, e a strapparli a un crudele destino, impazziscono di gioia, correndo con gaiezza da una sbarra a un’altra. Philemon, dopo aver dato la ricevuta, si piega sotto il bancone, per prendere un contenitore dove l’acquirente potrà mettere i due monelli, ma Augustin, con un cenno sbrigativo della mano, rifiuta, quasi sdegnato, “Non c’è alcun bisogno, li porto io”. L’altro, esterrefatto, “Ma, Maestro, scapperanno!”. “Ma non che non scappano!, è vero ragazzi?”, e apre la gabbia. L’artista non si sbaglia. I topi saltano sulle sue spalle, intenzionati a rimanervi. Aug, sulla clavicola destra, inizia a fare un discorso magniloquente e dotto, per ringraziare il benefattore, ma Art, su quella sinistra, gli lancia un’occhiataccia, per dirgli ‘chiudi il becco, professore!, non è questo il modo migliore’, e poi, alzandosi mentre appoggia le zampette anteriori sul suo collo, avvicina il muso a una sua guancia e gli dà -brevemente, per non allargarsi- un bacino. Che trasmette così tanto amore, al punto della gota dove avviene il contatto, che nell’uomo il sentimento si propaga in un battibaleno, e da quel punto del viso arriva subito (anche) in una regione mentale caratterizzata da una memoria infinita. Sì, il Maestro non si dimenticherà mai più ciò che ha provato nel dolcissimo smac. Il promiscuo trio, i nanetti sul gigante -che nel frattempo s’è completamente dimenticato dell’acquario-, esce dal negozio, mentre il bottegaio, quasi inchinandosi all’illustre ospite nel salutarlo, fra sé e sé pensa ‘certo che gli artisti talvolta sono proprio svitati!’.
Fuori del locale, in una caleidoscopica ricchezza della città, il dottor Lignier si presenta ai due neoamici, e loro gli comunicano le proprie generalità. Inutile precisare che l’emersione dell’omonimia tra l’essere umano e uno dei due animali provoca una simpatica sorpresa, “toh, che coincidenza!”, dice l’artista, mentre l’Augustin a quattro zampe, muovendo i baffetti, per confermare che il dato ha davvero dell’incredibile, se ne compiace sotto sotto. Lui si chiama come un vip, il proprio nome è tale e quale al suo, davvero un motivo di soddisfazione. Arthur, se si sentisse nella condizione di essere in tutto e per tutto se stesso, farebbe qualche battuta, e per esempio direbbe al titano “Non è che per caso non mi fili proprio solo perché mi chiamo Arthur? Guarda che un nome vale l’altro”. Non si permette una tale boutade, ha soggezione di costui, non solo un’autorità, ma pure un loro meraviglioso benefattore. Lui non osa fare il galletto, ma ci pensa l’uomo ad andargli incontro, “Arthur, se ti può interessare, quand’ero un bambino il mio più caro amico si chiamava come te, e spesso, quando giocavamo, ci scambiavamo i nomi, talvolta pure per ore: un gioco nel gioco, com’era divertente! Ci aiutava a sentirci ancora più vicini”. Art, sorridendo al narratore, sospetta che gli stia dicendo una bugia, ma intuisce che la fiaba è a fin di bene, è un altro regalino che riceve da questo personaggio, che gli diventa ancora più simpatico. E lievita, nella crescita d’affetto, pure la stima che prova per il suo cervello, anche se non gli comunica questa ammirazione, non vuole passare per un debitore che ostenta piaggeria verso il creditore. Il dottore, senza nemmeno chiedere ai suoi ‘ospiti’ se vogliano scendere da sé -evince facilmente, dal modo in cui si sono comodamente appollaiati, che lì stiano benone, e non abbiano alcun desiderio di atterrare e camminare con le proprie zampette-, si dirige verso una gettonata caffetteria, tempio di movida, ogni sera sold out, non solo nei fine settimana, e soprattutto elitario ritrovo di teste d’uovo, persone di squisita cultura. Prima dà per scontato che i ratti saranno ben lieti di assaporare Delikatessen, poi, pur reputando superflua anche questa domanda, si sente nel garbato dovere d’interpellarli in merito al suo progetto. Una mera formalità, ma talvolta la buona educazione esige pure qualche ‘pleonasmo’. “Ragazzi, io avrei un’idea: posso offrirvi qualche leccornia in un localino qui vicino? Lo frequento da anni, ci sono molti amici miei”. Ma certo! Gli animali, ognuno muovendo la testa da sopra a sotto e da sotto a sopra, più volte, all’unisono esclamano “Sì, sì!”, e gli si legge sul volto la gioia. Per la pappa? Questo è il secondo motivo della letizia, il primo è il sentirsi trattati con riguardo, benvoluti, per giunta da un signore che sembra un pezzo grosso. Tale dev’essere se il negoziante lo ha trattato con i guanti, ha acconsentito alla sua richiesta senza battere ciglio. Sì, è vero, ha avuto molti soldi per tradire il primo acquirente, ma secondo loro anche senza quel denaro non avrebbe mai e poi mai scontentato il personaggio sulle cui spalle adesso loro stanno beatamente osservando scorci dell’affascinante capitale d’Oltralpe. Il dottore è un qualcuno, nientepopodimeno che un artista, e loro, sorbole!, hanno l’onore della sua confidenza. Durante la passeggiata Augustin Lignier gli chiede il perché e il percome della loro presenza in questa città, da dove provengano, quali progetti abbiano, e così via. Gli raccontano la loro emigrazione e la sua molla, le tante difficoltà del viaggio, e tutto il resto. Monsieur Lignier li ascolta con grande attenzione e, nell’apprendere che, in ultima analisi, sono profughi in fuga da un dilagante razzismo, sospira, se ne dispiace tanto in un’empatia lodevole. Gli è solidale, certo che abbiano una ragione da vendere quando reclamano, come in una poetica rivendicazione sindacale, più rispetto per la loro categoria, per esempio gli stessi diritti e le stesse premure che l’umanità tributa ai cigni. Ciò che più lo ha colpito, nel resoconto del viaggio, è una tenera lamentela: nessuno, in tutte le strade e autostrade dove hanno corso, facendo attenzione a starne sempre ai margini, si è degnato di fermare il traffico per tentare di portarli in tratti più sicuri. Loro, certo, avrebbero detto ‘no problem, siamo globe-trotter abituati al pericolo, e poi dobbiamo per forza correrlo, ché non ci possiamo permettere, col nostro miserabile budget, migliori metodi di spostamento’, però avrebbero apprezzato la premura. “Non ve la prendete, speriamo che quanto prima il mondo capisca non solo che voi animali dovete essere rispettati e amati, ma pure che tutta la fauna merita lo stesso riguardo, senza differenze che, ahimè, rappresentano un ennesimo trionfo d’inique e antidemocratiche gerarchie”, li consola l’artista.
Finalmente arrivano al bistrot. Aug spalanca gli occhi, wow!, che sciccheria! Un posto davvero cool. Il suo omonimo bipede nel portarli qui ha fatto non bene: di più. Gli avventori del pubblico esercizio, infatti, sono artisti, letterati, filosofi, noti giornalisti parigini, e poi persone che, pur non avendo il loro prestigio in società, ne condividono la mentalità aperta, civile, poetica. Una pleiade di animi gentili, lungi dunque da ognuno di loro ogni caduta di stile, come inorridire nel vedere due topi. Inorridire? Ma intorno al tavolo dei tre si fa a gara, nel salutare il celebre Augustin Lignier, a sorridere contestualmente ai suoi amici quadrupedi. Che sono trattati come meglio non si potrebbe, da tutti, pure dal cameriere che gli porta ciò che hanno ordinato: pezzi di cheesecake. Uhm, che meraviglia! È il dolce preferito da entrambi. Fanno pure il bis, mentre l’uomo si limita a centellinare una tazzina d’un ottimo espresso. “Amici miei -lui inizia, dopo la consumazione, a dirgli con un tono di voce diverso, più serio, anche se parimenti gentile e affabile-, mi preme dirvi una cosa”. Pausa, si mette in bocca una sigaretta elettronica, mentre i topi per un attimo provano paura. Non paventano che lui possa cambiare a centottanta gradi, no, assolutamente, ormai hanno capito che è davvero un galantuomo, mai e poi mai diventerà cattivo con loro. Temono solo che il loro sogno finisca. Che lui si congedi e sparisca nel nulla da cui è sbucato. Gli saranno per sempre riconoscenti per quello che ha fatto, ma gli occhi un po’ tristi di ambedue denotano il terrore che l’uomo, tutto preso dagli impegni insiti nella sua importanza, si dimentichi di loro. E invece no. Augustin, con un sorriso pieno di affetto, gli dice “Mi farebbe piacere continuare la nostra amicizia, ma spetta a voi decidere. Se volete, siete liberi, e vi auguro ogni bene. Se, invece…” e aspira vapore. “Se?”, gli chiede Aug, con occhietti che supplicano il seguito che lui spera, mentre Arthur, al di là di speranza e sfiducia, come spesso capita alla povera gente, si limita ad aprire il più possibile le orecchie, dissimulando, con un’espressione enigmatica della faccia, la spasmodica attesa. “Se vi va, invece, vi ospito a casa della mia famiglia, e ogni tanto facciamo un gioco: vi porto in un carino pied-à-terre per esseri piccoli come voi, si chiama Boski, io vi spio e lì dovete soltanto essere voi stessi. In base a quello che vedo traggo conclusioni a livello scientifico. Ma, mi preme precisarlo sin da ora, guai a dire che vi uso come cavie. Pure con me faccio così: ogni tanto vado da uno scienziato, un vostro connazionale, si chiama Gennaro Psicanalista, io parlo, a ruota libera, e quello mi studia. Voi non ci crederete: pure lui, a sua volta, si fa esaminare da un suo collega. Su questo pianeta, amici miei, ognuno di noi ha bisogno di altri per capire meglio se stesso. Ma non divaghiamo e torniamo a bomba, vi piace questo progetto oppure” “Sì sì!!!”, i topolini sono contentissimi. Già sono zuzzurulloni per natura, figuriamoci come possa piacergli un gioco se implichi un contributo alla scienza e, soprattutto, il continuare l’amicizia con questo baffuto genio. Il quale quando, dopo averli portati a casa sua, e presentati alla sua famiglia, successivamente li conduce, a bordo della sua auto, vicino Boski, gli dice “ragazzi, è vero che in questo esperimento vi addestro, ma, credetemi, alla fine della fiera sarò io, fra noi tre, quello che dovrà dire ‘merci beaucoup’, la vostra disponibilità è adorabile e utilissima”. E Arthur pensa ‘Ma quant’è carino quest’uomo, sa sempre come farci sentire importanti’.
Pronti, via! Augustin e Arthur entrano nella gabbia di lusso, “Ciao” “Ciao”, “Ciao, topolini, a presto!”. I turisti sono liberi di esplorare ad libitum il volume di questo ambiente. Non ci sono regole. Né divieti né diktat, né amichevoli segnali né fattori di depistaggio, salvo un nevralgico pulsante che l’artista, per confondere le acque, ha mimetizzato a livello cromatico, dipingendolo dello stesso colore del pavimento e delle pareti, una specie di cremisi, mentre ne diverge solo una manopola, blu, che però, contrariamente alla sua apparenza di zona speciale, non ha nessuna funzione, né particolare né banale. Le masserizie, piccolissime, lillipuziane -come in certe ludiche case delle bambole-, sono contrassegnate da un design balzano, spesso sembrando, nella loro anomalia, chissà che, e invece essendo originali solo nella forma, mai nella funzione e nella sostanza. Il bottone è collegato da un lato a una fotocamera, che scatta una pic, dall’altro a un controsoffitto -l’intercapedine tra esso e il tetto è piena di zucchero-. Ogni volta che si schiaccia il pulsante in esso si aprono tanti minuscoli fori, contestualmente alla foto in fieri -a partire dal momento esatto della pressione, occorre qualche secondo prima che dalla macchina scaturisca finalmente l’effetto dello scatto- e ne esce una sorta di pioggia dolcissima, tanti cristalli di saccarosio. Gli ospiti, all’oscuro di tutto, iniziano a scorrazzare, all’impazzata, mettendo a soqquadro la dorata gabbia. Aug, pur essendo un intellettuale, casca nel tranello e pensa che quella cosa blu sia il centro del gioco. La tocca e la ritocca, e non succede nulla, “Augustì, hai voglia a toccare, quel coso è tutto un bluff, l’artista t’ha fregato”, lo guida l’amico, che si limita a divertirsi. Finché proprio lui spinge il pulsante, e giù zucchero. Di primo acchito gli -riferito a l’uno e l’altro- sfugge il rapporto di causa ed effetto fra l’abbassamento della leva e il ‘plic plic’ di quella candida sabbia, che invece di dar fastidio in bocca, come succede nel deserto, rende felice il palato. Poi, dagli oggi e dagli domani, i pischelli capiscono, la leccornia diventa un lenocinio che funge da ricompensa, ergo da sprone a reiterare l’atto di pigiare quel comando. Ed è subito… un selfie dopo l’altro.
In seguito Augustin li trasferisce in un’altra gabbia, più semplice -diverge dalla precedente soprattutto per il modo in cui lo zucchero viene rilasciato, e per il fatto di avere pareti in vetro-, ma informata allo stesso criterio di elaborazione. L’uomo, che li monitora discretamente, come un Grande Fratello buono, medita, uhm, un mumble mumble da mal di testa, fa le ore piccole, o si sveglia più o meno quando un gallo canta ‘chicchirichì!’, in una levataccia, e tutto per studiare con acribia l’esito di quelle osservazioni. Crede di aver capito che… ‘ma sì, ne sono certo, non mi sbaglio’… “Eureka!, ci sono!” (stavolta parla, sia pur da solo, non si limita a pensare). Stende di getto una relazione, felice come un bambino al luna park, e subito telefona – volendo dare un’eco immediata e universale alla grande scoperta- alla CNN. È l’inizio della gloria, per lui e pure, di riflesso, per i due topolini, che nel frattempo sono ritornati a casa della sua famiglia, nel lusinghiero ruolo di cari pets.
La superpotenza mediatica, celeberrima su tutto il globo terracqueo, con un proverbiale fiuto per notizie particolarmente topiche -e l’addestramento in oggetto non può non figurare tra esse-, non appena addiviene a esaustiva contezza di questo ‘gioco’ -Augustin lo spiega per filo e per segno a una sua giornalista, con brachilogia e capacità di andare subito al dunque- delibera di fare un focus su questo esperimento sui generis.
Già il mero dato di ratti che provano una ghiotta gratificazione nel farsi fotografie rappresenta, come può ben capire qualsiasi scafata volpe dei mass media, una chicca in termini di stupore universale. E infatti la testata evidenzia questo aspetto sin nel titolo [“Say cheese: Rats like taking selfies too”]. Lo stesso artista avverte l’esigenza di sottolinearlo prima di qualsivoglia dichiarazione scientifica, dando tout court risalto a una stranezza di per sé significativa, destinata a calamitare l’attenzione pure di persone che nel vedere queste immagini stiano pensando ad altro [“the rats’ self-portraits are “a nice way to attract the gaze,” Lignier said”].
Il selfie è un grande protagonista negli odierni usi e costumi, nell’era internettiana e, per essere ancora più precisi, in quella rivoluzione nella rivoluzione postasi in essere con l’avvento di iPhone e smartphone. Piccoli e performanti computer capaci, nella loro poliedricità sbalorditiva, nel loro sintetico eclettismo, di mirabilia, come, appunto, ottime fotografie. Sin dagli albori di questi dispositivi la possibilità, per ogni utente, di farle a se stesso, magari accanto a un vip -ma anche in solitudine va benone-, è diventata una ghiotta chance, un irrinunciabile rito, un eccitante hobby. Tante, ovviamente, le interpretazioni di tale moda, e non sono mancate, da parte di detrattori con la puzza sotto il naso, critiche di vario genere, alcune al vetriolo, altre sibilline o larvate. In qualche j’accuse il patito di tali autoscatti è stato dipinto come un mezzo maniaco, affetto da narcisismo dilagante, se non proprio disturbato in paturnie ancora più gravi, in quanto dedito a una specie di masturbazione intellettuale, e altre fesserie del genere. Solo illazioni, nell’alveo di un soggettivismo sfrenato e gratuito. Quel che invece è certo, anzi certissimo, assioma a prova di confutazione, è il trionfo statistico dell’evento, postmoderno, denominato ‘selfie’. Fino all’interazione fra Augustin Lignier e il duo di amici a otto zampe, un esempio di grande amicizia prima che di cooperazione scientifica, esso era ‘solo’ un clic imparentato con un boomerang, fatto da persone nell’epoca della Rete e della condivisione galattica. Tanta roba, certo, che però è diventata tantissima con l’entrata in scena dei gentilissimi roditori, prestatisi con altruistica remissività a uno studio fatto da e per esseri umani. Un topo che viene beccato mentre si esalta nel farsi selfie: wow! Già questo è uno scoop da mille e una notte, un disvelamento col botto. Nell’articolo si mettono opportunamente in risalto sfumature tecniche. [“Their antics produced a series of selfies, some of which appeared as if they’d been shot against a clean, white background. Others were more “headshot” in style — a technique used to showcase faces close-up”].
Questo colpo di scena è solo una parte dello spettacolo culturale. La Freelance Journalist Issy Ronald evidenzia innanzitutto, nel suo pezzo, l’originario incontro fra l’artista e i due topolini nel negozio di animali. L’autrice inizia la sua narrazione ab ovo, mettendo in evidenza il primo rendez-vous fra gli animali e l’uomo, che in quell’esercizio commerciale li ha acquistati. [“Lignier bought two rats from a pet store in France where he lives, and built them an elaborate cage, he told CNN”].
La bottega, nell’avventura francese dei due roditori, è il primo domicilio, bruttissimo, un’autentica casa circondariale fino all’arrivo del loro salvatore. Il quale li porta con empatica complicità nel secondo, la maison ‘Boski’. È d’uopo lumeggiare lo scientifico significato di questo nome, un composto aplologico, cioè una parola macedonia, ottenuta sommando ‘Bo’ di box e ‘Ski’ di Skinner, il noto psicologo. [“Lignier based his cage design on the “Skinner Box,” a device invented by American psychologist B.F. Skinner to study animal behavior. The artist said he drew inspiration from scientific experiments, developed by Skinner during the 1950s, that trained animals to complete complex tasks”].
L’emigrazione dallo store nella casetta implica, nel tempo dei quadrupedi, una coupure. Erano sfigati, diventano attori protagonisti di un evento storico, gravido di preziosi significati, sebbene di primo acchito il test possa sembrare meno complesso di quanto in effetti sia. [“Lignier…built them an elaborate cage, he told CNN. Using a mechanism that gave the rodents sugar whenever they pressed a button, he trained them to take pictures of themselves”]. Detta così, la vicenda può apparire non solo semplice, ma anche monocorde, omogenea dall’alfa all’omega della sua diacronia, e invece no, essa implica una storia più elaborata della gabbia, in due, diversissime fasi.
La prima può essere presentata come un esempio, in formato ridottissimo, del ‘tichismo’ teorizzato da Charles Sanders Peirce. Un parolone semplicissimo, sintetizzato, nell’intervista di Lignier, da ‘randomly’. [“As the two rats …began exploring their new environment, they would randomly touch the button that gave them sugar, Lignier said”]. Gli ospiti di questo spazio, per loro un microcosmo sconosciuto, arcano, pieno di punti interrogativi, anche se mai minaccioso, ne iniziano una curiosa esplorazione all’insegna di Sua Maestà il Caso. In questa prima puntata della loro avventura il nesso tra ‘pi-pi’, pressione del pulsante, che produce il moto d’una foto, e il correlativo ottenimento dell’amato e agognato zucchero -slurp, che delizia!-, avviene in uno scenario freddo, passivo, senza l’élan di pensieri intelligenti. Nell’addestramento c’è un meccanismo -brutto vocabolo per l’elegante sensibilità della mente-, un’involontaria ricompensa al caos del loro brio indoor, un sapore trovato ‘by chance’. Una situazione che solo alla lontana somiglia alla cosiddetta serendipità. I protagonisti, certo, ottengono un risultato diversamente da come, all’inizio di questa vacanza in quel di Parigi, hanno attinto le leccornie nel penthouse del gentile vitellone. In quella violazione di domicilio -senza effrazione, però, ché si sono arrampicati nelle tubature, sbucando impertinenti dalla tazza del bagno- hanno cercato, pianificato, deliberatamente programmato una caccia a qualcosa di edule. Qui, invece, senza volerlo, e quando meno se l’aspettano, compare saccarosio nel loro destino. Però, e appunto, il tutto non ce la fa a piacerci come un cortometraggio di graziosa poesia. Sono, nell’esperimento, ignare pedine manovrate dal loro amico.
Nel giro di una settimana, però, la musica cambia. [“Then, over the course of about a week, they began to understand the positive effect of pressing the button, associating it with the sugar hit”]. Si realizza, in una palingenesi piccola piccola, un golpe ai danni del monarca, allegramente detronizzato dalla crescita dell’indice di responsabilità nel duo (‘sparring partner’ dell’artista). La connessione -tra la spinta (del favorevole tasto), l’esecuzione en passant del selfie e l’attingimento della Meta, alias zucchero- si trasforma, e da dinamica assai simile a un povero e fortuito automatismo diviene qualcosa di bellamente positivo, nel momento in cui i roditori cominciano a realizzare quel che succede, a capire il nesso logico tra pressione e premio. Il tris si arricchisce della loro (incipiente) responsabilità e diventa un poker che mette kappaò il sire, quel Caso che all’inizio della vicenda faceva il bello e il cattivo tempo su questa specie di set cinematografico.
Il Putsch è servito, ma questa sconfitta non altera un importante, e non positivo, dato di fatto, cioè il ruolo giocato, nell’intrigante test, dall’esterno adescamento. Augustin a Arthur sono cambiati perché gli è baluginato il rapporto tra fatica di spingere il botton e l’edonismo del ghiotto dono in cambio. Non sono più alla mercé di un progresso ‘casuale’ e gestiscono nei due cervelli un criterio di programmazione ‘causale’. Resta però il fatto che il primo motore di questa dinamica è la lusinga, da fuori, dall’alto. Gli animali arrivano, sì, in una loro scelta al pigia pigia che determina le istantanee, ma nella misura in cui -e qui casca l’asino- quella operazione sortisce il rilascio d’una ghiottoneria. Beh, che c’è di male?, potrebbe commentare un osservatore ingenuo. C’è una montagna di negatività, qui è la radice del punctum dolens. Gli attori sono stati coinvolti in un processo di reiterata e fidelizzata pressione in quanto tale operazione, all’inizio neutra nell’economia delle loro pulsioni, ha vendemmiato un frutto. ‘Pigio dunque godo (avendo cibo e assaporandolo)’: questo il principio, un po’ ammorbato dal punto di vista etico, della loro abitudine. In essa, dunque, la loro responsabilità c’entra e non c’entra. È la ricompensa, esogena (cioè proveniente da fuori) ed eteronoma (id est pilotata da altrui scelta) che ha funto da (palliato) motore della loro allegra propensione a ritornare dalle parti di quel ‘volano’, irresistibilmente calamitati dal suo mellifluo richiamo, per schiacciarlo ancora e ancora e ancora. Pare una quisquilia e invece è una grave défaillance l’insorgenza di questa coazione a ripetere, di questa dipendenza -soft, certo, ma non cambia il nocciolo semantico di questa ‘parolaccia’ se usata in connubio con tale aggettivo-. I due amici dell’artista usano le proprie zampe per far leva su quel mezzo, su questo non ci piove, ma piove, anzi diluvia, sull’idea che siano al cento per cento responsabili di quei ripetitivi gesti. Li compiono, scattandosi con giuliva souplesse narcisistici selfie, a causa del vero protagonista di questa esperienza, cioè non tanto la zuccherosa ‘illecebra’, che li attira, quanto il cervello che sta dietro alla sua erogazione -che inganna la responsabilità dei sorci-. Quei buonissimi, squisiti granelli di saccarosio, che qualcuno può veder simili a cocaina, come cocaina -mutatis mutandis- sono una forma di droga. Una sostanza stupefacente a livello psicologico, non fisico, ma resta pur sempre un coefficiente di alterazione dell’autonomia di chi la appetisce. Il melenso zucchero è, nel comportamento degli ospiti dentro la ‘Boski’, un lenocinio, che s’intrufola nei loro criteri decisionali senza che la loro mente se ne accorga al cento per cento. A livello superficialmente fenomenologico essi adoperano lo strumento che determina foto e pappa, però la quintessenza dell”input’ non è tanto una loro autentica preferenza quanto l’ultimo, indiretto, allettante ‘output’, che, in modo subliminale, li spinge a compierla e ripeterla.
Ma non è tutto, c’è un problema nel problema, se mettiamo un accento sul selfie. I roditori, attori protagonisti e al tempo stesso burattini in questa pièce a guisa di laboratorio, alla lunga finiscono con il divertirsi nel farsi fotografie, e comunque, a parte la gaiezza, facendo forza con una zampina sul nevralgico bottone, ombelico urbanistico del monolocale in cui si prestano all’importante gioco, realizzano ‘pure’ e comunque quegli scatti, a prescindere dalla precipua motivazione di questo loro agire. Orbene, non è il massimo della libertà, va da sé, assuefarsi a produrre un effetto, e pure provare un leggero godimento nel vederlo, mediante un gesto che in ultima analisi viene compiuto soprattutto per un altro motivo (lo scopo di riavere quel giulebbe). Quando Augustin e Arthur usano il ruffiano, accattivante tasto, che dà il la alla genesi di una bella picture, manipolano un comando ch’è solo un mezzo inganno, e sortiscono una conseguenza che somiglia solo all’obiettivo, ma non lo è -come un operaio che sia tale e quale al Presidente della sua fabbrica: due gocce d’acqua, ma solo la seconda è miliardaria-, il fine essendo lui, soltanto lui: il food. Il selfie può pure piacere, soprattutto dopo molto tempo, ai due mattacchioni, ma essi lo producono, in una consuetudine nel causarlo, in quanto il dottor Lignier li ha spinti con un’altra blandizie ad amare l’interruttore, catalizzandone l’assuefazione con il rilascio della sopraffina risorsa.
Un positivo fattore che li seduce così tanto da indurli, quando l’artista li porta in un altro ‘pied-à-terre’ -dove il gioco è identico, però manca l’attingimento d’una prelibatezza come conseguenza della leva-, ad azionarla lo stesso, in una specie di peregrina inerzia del loro recondito istinto. La foto, lei sì, arriva sempre, lo zucchero no, sparito in una scenica carestia, ma gli animali, giacché ci sono, premono come prima, forse abbandonandosi alla nostalgia della fase precedente, quando tutto filava liscio in quell’hotel mignon. Somigliano, mutate le cose che vanno stravolte, a una persona che, trascorsi bellissimi momenti in compagnia della sua dulcinea su un romantico scoglio in riva al mare, quando la loro coppia scoppia e la donna ne diventa un’ex, ritorni comunque su quella roccia, perché così riassapora un poco, in un mentale sistema di libere associazioni, il piacere che provava quando lì andava con lei. I ratti ormai, memorizzato il gradevole nesso ‘causa-effetto’ fra lo step 1 e quello successivo del rito, seguitano a dargli importanza, anche quando il secondo gradino non è più carino. Del resto il selfie scatta parimenti, ergo qualcuno può a ragion veduta evincere che, pur esso essendo un effetto collaterale, stuzzicante ma pur sempre secondario, nella formazione della coazione possa in qualche modo avere un pizzico di rilevanza. I due, aggiogati a un processo di dipendenza, in balia d’una compulsione, dopo essere stati all’inizio sedotti da un’esca, non la (riferito a dipendenza) stoppano nemmeno quando non lo (riferito ad allettamento) trovano più, e si accontentano d’una marginale gratificazione, l’autoritratto fotografico, che a questo punto diventa un secondo trabocchetto.
A ben vedere, stravince, in tutto questo processo, l’artista, che però, è ovvio, se ne duole, avrebbe tanto voluto perdere, la sua è una vittoria di Pirro, nel senso che essa conferma quanto e come una marea d’ignari soggetti sia uccellata da condizionamenti, più o meno subliminali. Augustin Lignier, il vero trionfatore -un winner una volta tanto dispiaciuto- dell’esperimento, tiene a precisare questo dato, per lumeggiare il significato numero uno del test. Alla CNN, infatti, dichiara che nel manipolare -ovviamente a fin di bene scientifico- i suoi collaboratori a quattro zampe, s’è sentito un superman, potentissimo. Confessa, nell’intervista, la soddisfazione provata nell’esercitare un siffatto superpotere, e con perizia professionale la giornalista utilizza questa idea come incipit del pezzo. [“When two rats began taking their own photos with a camera attached to their cage, artist Augustin Lignier said he felt “super powerful”].
In questa sorprendente ammissione, va da sé, l’intellettuale in certo senso parla a nuora perché suocera intenda, cioè evidenzia il proprio potere per accusare il sistema sociale che egli rappresenta nell’addestramento di Aug e Art. Lui sta per gli occulti padroni del vapore che vogliono condizionare, i topi simboleggiano, correlativamente, le parti (della massa) che si fanno condizionare dai tanti zuccheri a piede libero. [“Giving randomized rewards in return for taking selfies mirrored the tactics used by social media companies and dating apps to keep users coming back, Lignier said”]. Tremenda la sentenza ‘comportamenti di dipendenza indotti dai social media’ (e non solo), come Augustin Lignier sostiene in un suo coraggioso e avvertito giudizio [“…a commentary on the notions of pleasure, reward and the addictive behaviors induced by social media”]. L’uomo è infine quasi matematico nel tirare la conclusione. Ritornando, infatti, sulla soddisfazione ch’egli ha provata nel condizionare così a fondo i suoi amici, sentendosi Übermensch, allude al super potere di un generale ‘sistema’, a fortiori grave, dato che in esso sono manipolati non due topi ma miliardi di persone. [“When you have such a power, (even) when it it just with two small rats (not) billions of people, you feel like you can manipulate everything,” he added. “And this is a really weird feeling”].
Questo gioco peregrino, tra un uomo e due amici della fauna, fa venire a galla una verità scottante, che fa tanto rumore a livello internazionale. Grazie al bacino d’utenza dell’emittente la scoperta del dottore si propaga, attira a livello scientifico l’attenzione che merita. L’artista ne beneficia in sommo grado, però anche Augustin e Arthur fanno un gran bel salto di qualità. Si ritrovano in un fulgido quarto d’ora di celebrità, inseguiti da paparazzi, intervistati, trattati spesso come star. E guadagnano molti soldi. Una cifra tale che li pone nella meravigliosa possibilità di coronare il sogno di andare in America. Ne parlano, palesemente contenti, anche al signor Lignier, quando, dicendosi arrivederci, si salutano fra baci e abbracci. L’uomo, gentleman fino al ‘The End’ di questa storia, gli procura due biglietti per la crociera sull’oceano e chiede a un suo caro amico, il padrone d’una flotta di pullman lussuosi, di farli viaggiare su un comodissimo torpedone, da Parigi a Civitavecchia.
I due animali sono in brodo di giuggiole quando arrivano nel comune laziale. Scesi dal mezzo, si dirigono allegramente verso il mare. Indirizzo (sull’acqua): ‘Odissey’, il gioiello della Royal Carribean. Giunti, però, nelle adiacenze del famoso porto, e intravedendo, nascosti dietro una colonna, quella magnifica nave, hanno un’amara sorpresa. Scoprono che la zona è infestata da molti terribili gatti. Una gang che, nella mala della fauna locale, ha il controllo di quest’area. Non ci voleva! Temono che l’imbarco, a meno che pure un’utopia possa verificarsi, debba essere rinviato a data da destinarsi. È Augustin a esprimere, con un adynaton, il pessimistico concetto: “Caro Arthur, mi sa che l’America la vediamo solo con un binocolo. A quella nave potremo arrivare sani e salvi quando saremo grandi come un elefante”. E l’amico, rassegnato, annuisce. Percorrono, lemme lemme, con grande circospezione, tre metri, avvicinandosi a una bassissima panchina -sostanzialmente un gradino, in cemento, vuoto all’interno-, a ridosso di un muro. Il clima meteo è ameno, quello del loro stato d’animo, già brutto, diventa pessimo quando, mentre fissano il suolo, pensierosi, notano una grande ombra, alzano lo sguardo e… Caz…zarola, che cat! C’è don John, il gatto alfa della banda, enorme, micidiale, così grande da somigliare a un puma. I roditori d’instinto fuggono, ficcandosi precipitevolissimevolmente sotto la panca. Dove, lo capiscono ben presto, sono destinati a fare la stessa fine della capra che, sotto, crepa nello scioglilingua. Il loro cervello ha temuto che, dirigendosi altrove, il felino li acchiappasse facilmente, mentre dove sono non entra, gigantesco com’è, però così godono di un’incolumità a termine, passeggera, ché non possono restare per sempre nella strettoia, e il boss può rimanere dov’è, con cruenta pazienza, per lungo tempo. Ormai la frittata è fatta. Il micio, dal suo canto, li fissa e aspetta. Nella sua famigerata carriera di predatore molte volte ha gradito un antipasto psicologico alla vigilia del primo, un hors-d’oeuvre a base di sadismo. Gli piace tanto sapere che le prede sono terrorizzate, e mentre se la gode, in una perversione che lo diverte, comincia a tirar fuori le unghie, artigli che somigliano ai rastrelli usati nell’agricoltura. I ratti sono disperati. Bisogna fare qualcosa, e non hanno alternativa: occorre parlare al nemico, supplicare una grazia o convincerlo alla non violenza con un discorso speciale. Augustin, nei panni d’intellettuale del duo, pensa che questo ennesimo film ‘Mission: Impossible’ tocchi a lui. Si prefigge di prodursi in una performance d’eloquenza, con uno sfoggio di citazioni e paroloni, per fare colpo su quell’orco. Nemmeno informa l’amico, va avanti, l’audacia lo abbandona e indietreggia, poi ci riprova, e a questo punto Art gli chiede, a bassa voce, che cosa abbia in mente. Lui gli rivela, con lo stesso volume, il suo piano, e “ma tu sei scemo!, ti sei fumato il cervello, così peggiori la situazione”. Pausa, e “ci provo io, tu taci”. Il topolino si sporge, tremando così tanto che somiglia a uno di quei pupazzi, a batterie, che un bambino, in un gioco divertente, faccia camminare dopo averne premuto un punto della superficie. Il mouse è in preda a una paura così intensa che il suo organismo comincia involontariamente a fare pipì. Ma Arthur riesce a parlare, mentre don John lo fissa con l’acquolina in bocca. “Ci…a…o”. Nessuna risposta. “Ti devo fare i miei complimenti, non ho mai visto un gatto possente come te, non hai nulla da invidiare a un leone”. Don John ascolta con grande compiacimento, e i due rastrelli iniziano a rientrare nelle zampe. È la prima volta che qualcuno lo paragona al re della foresta. Prende in simpatia questo tipetto, e pure il suo compare, per una felina applicazione della proprietà transitiva. Fa al furbo adulatore un sorriso, incipiente, appena appena abbozzato, ma sufficiente a rendere felice il topolino, che spera la munifica benevolenza del micio. Art non si sbaglia, don John cambia espressione, gli chiede come si chiami, e all’imboscato Aug, che lì sotto spia gli eventi, dice di uscire, “non ti preoccupare, non vi mangio”. Iniziano a conversare, e il gatto-puma-leone viene a sapere il motivo per cui sono qui. Quando Arthur gli dice “purtroppo i tuoi amici non ci faranno mai arrivare a quel traghetto”, il boss, muovendo leggermente i baffoni, è perentorio: “Mettetevi ai miei lati, vi scorto io fino a quella nave”. E l’insolito terzetto s’incammina, i due sorci guardando con la coda dell’occhio -rischiano di buscarsi un torcicollo- la moltitudine di gatti intorno -che al passaggio del Capo lo salutano con un ‘miao’ zeppo di deferenza-, ma al tempo stesso beandosi, con fierezza, d’aver cotanto protettore. Da queste parti non si muove foglia che lui non voglia, e se lui vuole che i due topi partano per l’America, i due topi partiranno. E s’imbarcano. Girandosi verso di lui, mentre salgono, lo ringraziano con occhi pieni di riconoscenza. Arthur grida, già sulla nave, “Ciao, gatto buono, non ti dimenticherò!”. Don, nel suo lungo curriculum di predatore imperialista, ha divorato migliaia di ratti, ma in nessuno di questi violenti banchetti ha provato l’emozione, tanto strana quanto bella, che sta fiorendo nel suo cuore mentre s’illumina di pace.

Walter Galasso