DA  ‘APPLE GARAGE’  AL  ‘BOX DELLA RIBELLIONE’: GIACINTO 1   [RACCONTO  (1  ARTISTA;  4  OPERE)]

DI WALTER GALASSO

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[…INSPIRATION FROM:  ‘FACTORY OF GREEN’  (‘FABRYKA ZIELENI’),  BY JACEK YERKA;  ‘SHED OF REBELLION’,  BY JACEK YERKA;  ‘ILLEGAL MANUFACTURING OF LIGHT’  (‘NIELEGALNY WYROB SWIATLA’),  BY JACEK YERKA;  ‘DRAGON PLEASURE’  (‘SMOCZE PRZYJEMNOSCI’),  BY JACEK YERKA]

   Giacinto è un giovane molto originale. Fresco di laurea, con un ottimo curriculum scolastico come eloquente biglietto da visita, non si accontenta di mirare a un florido reddito. Smania di trovare un’occupazione, con cui procacciarsi una montagna di schei, e nella ricerca d’un primo impiego aspira contestualmente, qual temerario pioniere, a generare un’impresa, a lasciare il segno, a creare un’inedita scena di razionalità, nuova di zecca. Anela a scoprire qualche avveniristico orizzonte, generando res gesta che lo facciano entrare, dalla porta principale, in un corrusco Guinnes dei Primati. Molte idee gli frullano nella testa per trasformare concretamente i suoi sogni in evidente realtà, ma v’è un denominatore comune fra tutte queste possibilità. Conditio sine qua non della sua soddisfazione professionale, infatti, è il connubio tra la voglia di porre in essere un’altra rivoluzione copernicana in senso lato e un’Autonomia con la maiuscola. Egli agogna, brama ardentemente, appetisce con la totalità del suo ardore spirituale un laboratorio tutto suo, una privatissima fucina dove, nei panni di emancipato e futuristico e libero professionista, possa attendere in santa pace alla ricerca di quel Valore -impregnato di un suggestivo je-ne-sais-quoi- ch’egli ha in mente di scoprire e regalare al mondo. Questa forma mentis è meno complicata di quanto possa sembrare. Ne si comprende tout court il nitido nocciolo se si precisi qual è, nella Weltanschauung del ragazzo, il paradigma d’ogni suo slancio: la nascita della Apple, o meglio: la creazione di questo mito in un laboratorio di serie B.

APPLE GARAGE, 2066 CRIST DRIVE, LOS ALTOS, CONTEA DI SANTA CLARA, CALIFORNIA

   Nella sua cameretta ha appeso a una parete il poster, enorme, di un box, con una didascalia da brividi: APPLE GARAGE, 2066 CRIST DRIVE, LOS ALTOS, CONTEA DI SANTA CLARA, CALIFORNIA. Il locale dove, nel 1976, ha visto la luce il mito, by Steve Jobs e Steve Wozniak. Troppo fico! Per Giacinto questo Evento è il non plus ultra della gagliardia. Ragazzi controcorrente, romantici, originalissimi e squattrinati, che hanno in mente una grande idea, le e ci credono al mille per cento, con una ‘belief’ zeppa di adamantino eroismo, e, di fronte a un sacco di gente che li snobba, puah!, reputando più o meno un bauscia il leader del duo, se ne fregano allegramente, se ne impipano con un’autostima liberissima. Qualcuno li sfotte anche perché, con il loro limitato budget, inversamente proporzionale al target megagalattico che si prefiggono, non si possono certo permettere un headquarter minimamente degno di chiamarsi così. E loro? Loro ‘ah ah!’, si sbellicano dalle risate, mandano a ramengo i loro prevenuti detrattori, spesso con una parolaccia che equivale all’italiano ‘Vaffa’. Non hanno un sibaritico capannone industriale, uno di quei beni immobili che il proprietario dà in affitto chiedendo una pigione monstre? Embè, chi se ne frega. E chissenefrega se del pari non hanno i conquibus per diventare conduttori di un bureau chic, simile al trendy ufficio di uno yuppie in carriera, dove potersi atteggiare a top manager in erba. A loro basta poco, anzi pochissimo: un box. Esso gli va benone, anche perché nella storia della cultura esiste una marea di wellerismi e proverbi e apoftegmi e aforismi -e compagnia bella- che insegnano all’universo mondo che le apparenze possono ingannare e che, in una persona, un aspetto o.k., tirato a lucido, talmente in ordine da non fare una grinza, è uno pseudovalore da operetta rispetto al Valore dei Valori: il genio nella zucca. E la loro testa è tanto ricca, perché, mentre tanti scettici, a cui chiedono un prestito, rispediscono ai mittenti il pecuniario SOS, quei cervelli creano, nell’informatica, una marca ad altissimi livelli, oggi stracult in ogni parte del globo terracqueo. Una leggenda, una multinazionale da brividi, con quel logo, bellissimo, che è conosciuto pure da bestie feroci nella giungla. E questa palingenesi nella storia della tecnologia, e pure nella Storia tout court, albeggia proprio in quella umile rimessa, oggigiorno reputata un patrimonio dell’umanità.
   Giacinto, commosso aficionado di tutte le sfumature del pianeta Apple, vuole bissarne, nel suo piccolo, l’incredibile miracolo. Vuole, agli albori del suo impegno professionale, uno studio come quel garage, un umile immobile di cui sentirsi il Presidente, il vicepresidente, l’usciere, l’amministratore delegato, l’operaio, l’addetto alle pulizie, il vigilante… tutto. In questo posticino, che il suo cuore sentirà per certi versi come un nido a guisa di piccola Heimat, lui lotterà nella gavetta di cocciuto e mai eteronomo self-made man, e il suo eclettico impegno professionale somiglierà a un one man show. Ivi farà tutto lui, pure il segretario di se stesso e, se sarà il caso, dirà, come quei ‘filtri’ (di qualche pezzo grosso) alquanto stronzi, con voce contraffatta, ‘mi dispiace, il dottor Giacinto non c’è’. Magari si negherà in tal modo in un momento di grande concentrazione, tutto preso da qualche studio sperimentale. Impossibile pensare che questo antesignano di qualche epocale coupure nella storia del Tempo si prefigga, in tale attività, un core business. Il suo Io non può dire ‘voglio fare da grande il…’, perché è straordinariamente poliedrico. Tappandosi nel suo quartier generale terra terra, come un novello Gyro Gearloose, alias Archimede Pitagorico, il personaggio targato Walt Disney, vorrà spremersi le meningi a trecentosessanta gradi, in e con un eclettismo record, per mettere al mondo una cosa nuovissima. Che potrà essere una fantascientifica industria di computer e tablet e smartphone, o un sistema filosofico senza precedenti, o una stravagante invenzione, da lui brevettata in pompa magna -una chicca destinata a rivoluzionare gli usi e costumi di tutta l’umanità-, o qualsiasi altra forma di mirabilia. Il suo estro è capace potenzialmente di qualsiasi svolta nella cultura. E, giova precisare, nessuno si senta autorizzato a evincere, dalla suddetta forma mentis, l’idea ch’egli sia un ambizioso soggetto che miri a distinguersi di riffa o di raffa, purché appaia un mandrake sui generis. Se attualmente quest’uomo non sa con esattezza che cosa precisamente combinerà, a livello lavorativo, nel suo laboratorio è solo perché, in un work in progress, deciderà di volta in volta, a seconda del suo gusto intellettuale, il da farsi. Si abbandonerà al suo effervescente talento, una voce interiore, vice del suo Io, misteriosa e famigliare al tempo stesso, gli suggerirà una precisa direzione. Quello che più conterà, in questa Mission, sarà la sua consacrazione all’obiettivo di aiutare il Progresso a diventare sempre più utile e più bello. Questo encomiabile protagonista, con chiarissime idee sul Fine, adesso però deve, in questa fase iniziale e semplicissima, attendere alla ricerca del primo mezzo, appunto un locale, a buon mercato, dove dare il la a tutta la sua avventura lavorativa. Anzi, prima di questo step c’è il Grado Zero: la ricerca di un lavoro, perché con i soldi che ha messo da parte a malapena può versare una caparra.

‘FACTORY OF GREEN’  (‘FABRYKA ZIELENI’),  BY YACEK JERKA

   Si rimbocca le maniche, asso di resilienza, cocciuto e romantico nel voler coltivare il suo sogno fra le pareti di un headquarter, e si mette alla ricerca di un buon posto di lavoro. I suoi risparmi, contenuti in un dindarolo sui generis -a guisa non di un porcellino ma d’una penna pregiata, stranamente con un diametro abnorme- sono inidonei a finanziare una buona locazione. Lui s’è guardato intorno, alla ricerca d’una soluzione, ma la casa, uso ufficio, meno carestosa, trovata ieri su un noto sito Internet, aveva -non ha più, nel frattempo è stata già data- un prezzo più che doppio rispetto alla sua pigione ideale. La pacchia è finita prima d’iniziare, certe occasioni, se vada bene, capitano solo in braccio a Morfeo, in qualche bel sogno, adesso occorrono più quattrini a disposizione. Il candidato (a un’assunzione gratificante) cerca e cerca e cerca. Per diversi giorni zero risultati, il suo tentativo fa cilecca. Poi, all’improvviso, una svolta. Scorge una chance che, se presa al volo, può implicare l’attingimento di due piccioni con una fava, nel senso che l’occupazione offerta (previo superamento d’un impegnativo colloquio) è assolutamente in linea con il suo proverbiale ambientalismo. Essa, infatti, è all’interno d’una industria più miracolosa che rara, davvero l’unico caso al mondo: la ‘Fabryka zieleni’, cioè la ‘Fabbrica del verde’. In questo grazioso, incredibile opificio, adagiato in un meandro d’un fiume suggestivo, dalle ciminiere esce, perdindirindina!, vegetazione. Sì, tutto vero: scaturisce il verde di tanti e bellissimi alberi. Il ragazzo, un entusiasta atleta di cause ecologiche dal tempo in cui era un marmocchio, quando legge questa peculiarità strabuzza gli occhi, non gli par vera, pensa ‘Delle due l’una: o hanno scritto una cazzata, e prendono per i fondelli gli utenti, o io sono nel mezzo di un’allucinazione’. Ma quale allucinazione d’Egitto! Quando s’informa meglio, e telefona al numero indicato nel messaggio on line, ha la conferma che la ‘Factory of green’ esiste, il suo business va a gonfie vele, wonderful fatturato, affari così sulla cresta dell’onda, con così tanto vento in poppa, che il CEO, appunto, ha deliberato un ampliamento del personale. Ovviamente il tipo di mestiere insuffla un entusiasmo esponenziale nello stato d’animo in cui il giovane si presenta al provino vis-à-vis, dopo che al telefono una gentile signorina gli ha comunicato la precisa data del rendez-vous. Il suo più caro amico, Paolo, poco prima che inizi la sua prova, gli dice e augura “Spacca tutto, batti in un walk-over tutti i competitor, mettili idealmente kappaò, e in bocca al lupo”. E lui risponde “Auguro al lupo tutto il bene possibile e agli altri candidati, dopo che li abbia sconfitti nella nostra tenzone, di trionfare in qualche meraviglioso concorso statale, così ottengono un gagne-pain che li sistema per sempre”. Politicamente corretto ed eticamente splendido come sempre. Poi va, vede e parla, e vince, anzi stravince. È un guaglione in gamba, preparato, competente, al passo coi tempi, e poi, ai membri della commissione, comunica un tale amore del Verde, un così intenso engagement green, che quel posto non può che essere suo. Il debutto in fabbrica avviene, rispetto a questa interrogazione, quasi una settimana dopo, e lui, già tre giorni prima della ‘start up’ ufficiale dell’incarico, ha fra le mani la carta che ‘canta’ la certezza del cespite di reddito. Però non sono tutte rose e fiori. Guadagna, ma il salario, come talvolta accade nella gavetta, è basso, il convento passa bruscolini, mentre gli affitti sono alle stelle.
   Vattelappesca l’occasione che faccia al caso suo! Il povero, tapino eroe è ricchissimo di intelligenza, ma carente di denaro. Aveva pochi risparmi, e ne ha speso una consistente parte per acquistare libri. Fedeli maestri e compagni di viaggio, meravigliosi oggetti, lui li adora, ma se gli scatta una fotografia, o se si fa un selfie con loro in sottofondo, non può utilizzare la picture per avere in cambio, in un baratto da favola, un posto in affitto. Un proprietario potrebbe pure, nel vedere l’immagine, apprezzare l’aspirante inquilino, pensare ‘perdindirindina, che giovanotto colto!’, però, al netto di qualche sincero complimento per il legame culturale con la sua biblioteca, finirebbe comunque, arrivando al dunque, con il dirgli ‘presentati domani con i soldi, mille mensilità in anticipo, come caparra, più la prima pigione, e se mi porti una busta paga, dove magari sia documentato un introito a tanti zeri, fai la metà del tuo dovere’.
   Giacinto inizia a cercare un immobile che si attagli sia ai suoi desiderata, enormi, che al contenuto, lillipuziano, del suo portafogli. Conciliare le due istanze è come trovare mezzo ago in un doppio pagliaio, ma lui, che ha in ‘devo sempre pensare positivo’ il suo mantra preferito, ci prova. Navigando nell’oceanica Rete esplora molti siti di annunci immobiliari, e ogni tanto non disdegna un parentetico ricorso a metodi d’antan, come la consultazione di un gratuito giornale cartaceo, distribuito da uno strillone all’entrata d’una stazione della metropolitana, e il monitoraggio, quando passeggia, di ogni superficie dove qualcuno possa aver messo un’affiche con ‘Affittasi’. L’esito di questa caccia è davvero desolante. In undici messaggi su dieci si chiede un canone di locazione esorbitante, carestoso, nettamente al di là delle sue possibilità. Ma lui non molla, tenace, mai con le gomme a terra nel morale, sempre ancorato al presupposto che da un momento all’altro i suoi occhi possano leggere, in un dolce colpo di scena, una pigione abbordabile e vedere simpaticissime immagini di qualche locale bello, nonostante il suo basso costo. Una speme forse imperniata su una mera chimera, sintomatica di un ottimismo più patologico che poetico, tant’è che il protagonista, dopo aver parlato del suo progetto con un amico, Renato, confidandogli il suo auspicio di poter addivenire alla quadratura del cerchio con una botta di… fortuna, si busca uno sfottò piuttosto scortese, l’altro esortandolo a non credere alle favole, e ricordandogli che nessuno ti regala niente, che se qualcosa, casa o qualsivoglia altra merce, costa poco tanto vale, e rampognando le sue illusioni ingenue e naïf con altre perle e pillole di saggezza e buon senso. L’idealismo di Cinto -così è talvolta chiamato da tre parenti e quattro amici-, irriducibile sognatore, si spezza ma non si piega: con la santa pazienza, evitando la deriva d’una permalosità poco diplomatica, o un muro contro muro incoerente con la loro schietta amicizia, il giovanotto tenta di controbattere. In una sana dialettica è bene che, qualora albeggi divergenza di opinioni, ognuno tenti, con gli strumenti d’una culturale persuasione retorica, di catechizzare il rivale, confutandone le certezze fino a farle diventare ufficialmente delle fregnacce. E allora dice a quel tipo che secondo lui è sempre possibile che un proprietario (di un locale) sia un bravuomo, che non voglia spennare un conduttore, oppure, ipotesi ancora più probabile, che voglia, sì, trattare la sua proprietà come una gallina dalle uova d’oro, chiedendo un affitto molto alto, ma tenda altresì a preferire un minor guadagno se questo decremento significhi mettere dentro una persona particolarmente brava, affidabile, con la faccia pulita, magari intellettuale, eccetera. “A mio modesto parere, caro Renato, è più che possibile, ci sta, che uno che voglia dare in affitto un box o un locale commerciale o un bivani uso ufficio, dovendo scegliere tra un inquilino che non la racconta giusta, con la faccia brutta, o casinista, o comunque ignorante, disposto a dare 10, e un altro che gli possa pagare solo 6 ma sembri un tipo perbene, colto, raffinato, preferisca il secondo, che, fra l’altro, può dargli l’idea di avere più rispetto per la sua proprietà”. La risposta è una sconfessione tranchant: “Hai detto bene: il tuo parere è davvero modesto. Uè!, sognatore, apri gli occhi! Qualsiasi proprietario, anche un pio uomo, nella scelta di cui hai parlato opta per chi sgancia dieci, dai retta a me. E se, puta caso, tu non ti fidi del qui presente campione di cazzimma, e vai a chiedere una consulenza a un think tank di fighetti dell’Accademia, quelli che hanno studiato e danno del tu alla scienza, ti diranno e daranno esattamente le idee che io t’ho regalato or ora”. E gli dà un buffetto, amicale ma non troppo, un colpetto che nel linguaggio dei gesti vuole dire grosso modo ‘ma quanto sei minchione, o Archimede Pitagorico dei miei stivali!’.
   ‘Sto fenomeno, attore nella serie ‘T’insegno il mondo’, crede d’avere una ragione da vendere, la verità in tasca, e invece il surreale cercatore, che nonostante il suo spiccio persiflage continua a inseguire la propria utopia, diventa protagonista d’una vicenda che dimostra, senza se e senza ma, che la sua speranza, pur non vincente, non è neppure perdente, nel senso che Renato ha enunciato la norma, e lui ne trova una strana eccezione. Un bel giorno, quando ormai, estenuato da una ricerca tanto lunga quanto inutile, è lì lì per gettare la spugna, in Internet s’imbatte in un annuncio hors ligne. Un anonimo soggetto, che non precisa le proprie generalità ma inserisce un numero di telefono, dà in locazione, a prezzo modico, una rimessa, denominata ‘Shed’.

‘SHED OF REBELLION’,  BY JACEK YERKA

   Questa etichetta è la prima peculiarità, anche perché in genere, a prescindere da tale nickname, una casa difficilmente ha un preciso nome. Ancora più sorprendente, purtroppo in senso negativo, è un secondo segno particolare: essa è brutta, anzi bruttissima. In una caotica complessità, che forse non ha precedenti nella storia dell’architettura a partire da Adamo ed Eva, lascia molto a desiderare in ambito estetico e, quel che è peggio, ha un aspetto sinistro. Il ragazzo, però, valuta positivamente questi difetti, poiché li reputa il logico motivo del suo abbordabile costo. Senza la loro presenza si sarebbe insospettito, avrebbe pensato ‘uhm, qui c’è un trucco o, peggio ancora, questo annuncio è uno scherzo, fa parte di fake news trash, postate da qualche idiota che non ha di meglio da fare’. Quella morfologia cupa, orribile, squallida lo rassicura, apparendogli la ragione della mite richiesta economica. Un altro, più agiato a livello finanziario, potendo spendere di più vede la baracca, anche un po’ fatiscente, e, puah!, va oltre, lui invece va a nozze. Tra l’altro pensa, e non mente a se stesso, che sia, sì, non bello quel tugurio, ma che abbia pure un non so che di affascinante. Lo guarda e lo riguarda, morbosamente attratto, gongola al pensiero che lì dentro potrà mettere al mondo una creatura ‘Apple 2′, e fiducioso, facendo scongiuri apotropaici, compone quel numero di telefono. Risponde una voce maschile, alquanto insolita. Sembra non tenere più di tanto all’affitto. Conferma che l’immobile non è stato ancora dato, e/ma quando il candidato alla locazione chiede -per mera formalità, convinto di formulare una domanda retorica- se e quando sia possibile visionare il locale, il padrone reagisce in modo brusco e scortese. “Senta, ma lei ha visto il prezzo? Chiedo bruscolini e vuole pure tirarla per le lunghe?”. Cinto resta di princisbecco, d’emblée decide di insistere solo per qualche secondo, precisando che a priori gli va benissimo, e che l’istanza di un sopralluogo è disgiunta da qualsivoglia possibilità che, percependo de visu l’interno, non gli vada bene. Mera curiosità, dunque. L’altro, sbuffando, acconsente, fissando da solo la data -l’indomani, in un ‘dalle…alle’ incluso nel primo pomeriggio-, però, quando s’incontrano dove si sono dati appuntamento, gli dice, ormai davanti alla sua proprietà, “entri solo lei, io resto fuori”. Un comportamento davvero insolito, ma non si può dire più unico che raro, perché il giovane, in un flashback, si ricorda che anni prima, lui alla ricerca di un posto dove mettere al sicuro la sua amata moto, nell’andare a visionare un box il proprietario gli disse “Io non entro, ché c’è un po’ d’umidità, e può far male ad alcuni miei acciacchi”. Anche per questa rimembranza la sua mente non dà peso alle parole dette dianzi dal tizio che, accendendo una sigaretta, lo guarda mentre varca la soglia dell’inquietante costruzione.
Ispeziona con meticolosità il fatiscente immobile, mentre il proprietario, ostentando una serafica assenza di fretta, aspetta fuori. Il giovane già di primo acchito, in uno sguardo a volo d’uccello, decide ‘Sì!!!’, in un assenso incondizionato, senza caveat. Indugia nel contemplare tanti particolari solo perché versa già in una morbosa curiosità, che è come uno sport, spirituale e indoor, della sua psiche. Rendendosi contestualmente conto che non può abusare della pazienza dell’uomo là fuori, a prescindere se sia o meno uno stinco di santo, dopo qualche minuto di attenta ispezione -esame sì effimero ma di per sé sufficiente a rafforzare la convinzione che quell’ambiente gli si attagli- esce e comunica al boss la sua intenzione di diventare conduttore della maison. Si rivedono l’indomani ed espletano tutte le formalità. Il padrone preferisce un patto aumm aumm, con un accordo messo nero su bianco, ma in modo del tutto privato. Una stipula che non è dunque al cento per cento in nero, ma neppure il contrario: possiamo definirla in grigio. L’uno sgancia sull’unghia i soldi, l’altro completa il do ut des dando le chiavi e augurando all’interlocutore un gradevole soggiorno. Questo incontro avviene nei paraggi del capanno, vicino a un maestoso baobab. Il guaglione, non appena resta solo, precipitevolissimevolmente entra nel tugurio, non vedendo l’ora -potendo adesso osservare ogni nuance per tutto il tempo che vuole- di saperne di più. Lo step numero uno è l’analisi di una pentola gigante, non proprio una piscina ma poco ci manca. Essa ha la capacità come minimo d’una vasca di idromassaggi. Se la si utilizzi per cucinare, magari per far cuocere rigatoni, può produrre, in una sola ebollizione, quintali di pastasciutta. L’inquilino, però, pur non avendo la più pallida idea della sua quintessenza, intuisce con insight, se tanto gli dà tanto, che la sua funzione non è culinaria. E allora, si chiede, a cosa serve? Il suo cervello sa ciò che non è, non sa ciò che è. Per un paio d’ore, minuto più minuto meno, si lambicca il cervello per capire il senso di ‘sto rebussistico pozzo. Uhm, forse… Noo! Piuttosto… Neanche. Ogni volta che una parte della sua laboriosa mente partorisce un’illazione, superando, in questa creazione, una scettica barriera di sterile irresolutezza, un’altra, in una sorta di fuoco amico, provvede a inficiarne la liceità, reputando grosso modo la congettura come una gran cazzata, destituita di ogni fondamento. Dopo questo infruttuoso mumble mumble, prostrato dalla squallida assenza di risultati, questo essere umano rinvia (a data da destinarsi) il redde rationem con quell’ostinato e dispettoso dubbio. Decide, pensando che non sia il caso di concentrarsi troppo, quasi ossessivamente, su un solo dettaglio, di esplorare ad angolo giro tutto il volume di questa brutta residenza. L’aggettivo è oggettivo, l’immobile per forza dev’essere definito e apostrofato così in una disamina scientifica dei suoi attributi. Del tutto diversa, però, la sua valutazione nella sfera meramente  soggettiva della personalità di questo interprete, che è paradossalmente entusiasta di tale porcheria. Gli piace anche, se non soprattutto, per la sua carina imperfezione, come ne può essere definito, in un ossimoro, il connubio di difetti à gogo e un non so che di affascinante. Giacinto, che in certi angoli fiuta puzza e in altri ha la sensazione che nelle narici entri una gradevolissima eau de toilette, apre un frigorifero -un elettrodomestico oltremodo rumoroso, sembra che stia dormendo e russi, come un cane carlino-. Si sdraia sul pavimento per vedere se sotto una tarlata étagère ci sia qualcosa -nulla, salvo enormi batuffoli di polvere-. Apre i cigolanti tiretti di una scrivania che probabilmente è stata costruita molto prima dei tempi in cui Berta filava, forse in un’epoca precedente all’invenzione della stampa. Fa attenzione a non graffiarsi, perché i pomelli sono molto arrugginiti. Dentro trova bottoni scassati, un nido d’api senza gli animali, protagonisti assenti, una verde bottiglia, inclusiva di un’arrotolata pergamena, su cui forse qualcuno ha vergato una richiesta d’aiuto, oppure la trama di un sogno, appunto, nel cassetto. L’esploratore trova un eterogeneo pot-pourri di cose. Oggetti dal design insolito, degni dunque di poter abitare in una peregrina collezione di chicche, in qualche bottega di oggettistica all’avanguardia, e anticaglie che forse sarebbero buttate, nella pattumiera o direttamente in una discarica, pure da un rigattiere. ‘Che diamine è quella coppia di occhi?’, si chiede l’uomo nell’accorgersi all’improvviso di essere guardato da un animale anomalo, non grande e/ma nemmeno minuscolo come un moscerino. Gli si appropinqua lemme lemme, con timore e tremore, e scopre che esso è una specie di rospo con una peculiarità: un tatuaggio, che raffigura un arcano simbolo. Il rappresentante della fauna respira ritmicamente, lo scruta con un’espressione che pare voler dire ‘ehi gringo!, ricordati che qui io sto da prima, e tu sei l’ospite’. A essere precisi, questo ‘comunicato’ emana in modo particolare dal suo occhio destro, mentre quello sinistro in certo senso lo rassicura, estrinsecando un messaggio di bella fratellanza: ‘umanoide, tranquillo, non ti voglio male, e del resto sono innocuo’. L’inquilino, dal suo canto, recepita forte e chiara questa rassicurazione, non ha alcuna intenzione di intimargli ‘pussa via!’, né lo reputa un mostro. Decide di lasciarlo dov’è, e si diverte pure a regalargli un nome proprio, Giovanni. Dandogli le spalle, prosegue il suo informale studio dell’ambiente, sentendosi, in questo spartano capanno, un viaggiatore importante, nonostante la decadente atmosfera dell’insieme. Qualche soggetto meno poetico e sognatore potrebbe, forse anche sbellicandosi dalle risate, criticarlo nel vederlo simile, quanto a esaltata concentrazione, a un voyager in una navicella che sfrecci a un milione di chilometri all’ora nella Via Lattea. Potrebbe pensare, in una confutazione al vetriolo, ‘quel pirla sta erogando un’energia mentale degna di miglior causa’. Ma per Cinto la causa d’una migliore conoscenza di questo suo nuovo ‘ufficio’, dove spera di mettere al mondo qualche scoperta che gli consenta di assurgere con somma originalità alla cosiddetta gloria, è ad alti livelli, altro che. Lui dentro se stesso fa come gli pare e piace, si sente autorizzato ad attribuire a ogni possibile obiettivo, con fulgida Libertà, il valore che voglia. Questo potere, nella sua forma mentis, è il nocciolo di un costruttivo, fertile, creativo anticonformismo. Chi, invece, interpreta persone animali cose ed eventi esattamente come vuole il sistema si macchia, poveretto, della colpa chiamata ‘omologazione’. Gagliardo, questo eroe minore (ma non per questo meno encomiabile di un Garibaldi). È, possiamo dire, un fenomeno della porta accanto. Tu lo vedi e pensi che sia un quidam, molti possono sbrigativamente sottovalutarlo, credendo che lui + un ufficio che fa ridere i polli = ‘figura di merda’ -operazione che questi detrattori eseguono con la stessa dogmatica esattezza di ‘2 + 2 = 4’-, e invece egli è un tipo tosto, cool. A suo modo merita un mirallegro grande come minimo come la suddetta pentola monstre.
   Il pioniere si sente benone in questo spartano, quasi fatiscente microcosmo. Lo esplora con ghiotta curiosità, ne studia anche dettagli in parvenza insignificanti. Nota che in alcuni tratti la frontiera tra il fuori e il dentro non è il non plus ultra dell’ermetismo, ma non ne fa un dramma: ci sta, per quel che costa egli può e anzi deve tollerarne ogni tallone d’Achille, per così dire. A un certo punto sia il suo Io, come Ich con tanto sale nella zucca, che il suo organismo, nelle sue pulsioni squisitamente biologiche e corporee, avvertono l’esigenza di uscire per scandagliare pure le sue parti esterne. L’inquilino, con un baldanzoso stato d’animo, apre l’enorme porta e poi, siccome percepisce una tracotante, impetuosa corrente, e dunque da un momento all’altro le sue orecchie possono udire il fragore del serramento che sbatta come un ceffone dato da un destino avverso a uno sfigato, si prende la briga di mettere tot sacchi bianchi davanti a un battente e un fascio di travi -una delle quali molto curva a un’estremità- sull’altro, così ambedue restano fermi. Poi comincia il suo tour. Polarizza la sua attenzione su un piccolo bovindo: wonderful!, ipotizza che lì possa posizionare un tavolino, una sedia e magari, nel neonato, suggestivo e bruttissimo bureau, sicuramente ricco di un panorama arioso, scrivere qualche annotazione, o redigere un documento insignificante per il resto dell’umanità e/ma per lui di somma rilevanza. Giocherà a sentirsi il Direttore di qualcuno o di qualcosa, a far finta, come un consumato istrione di Cinecittà, di essere un vip del jet-set, un intellettuale sulla cresta dell’onda, un superman della reputazione. C’è solo un piccolo, piccolissimo, tremendo problema logistico: non riesce né a vedere né a capire come possa arrivare materialmente lassù. ‘Uhm, vediamo, forse, no, non credo, a meno che… ma no, Giacì, che stai a dire, ti sei per caso fumato il cervello?!’. Non esita a criticarsi, parlando mentalmente con sé come se si stia rivolgendo a un fratello gemello -tali e quali dal punto di vista dell’aspetto esterno ed esteriore, ma molto diversi come quoziente intellettuale e personalità-, fa autocritica dopo aver elaborato, come metodo per raggiungere quel posticino, qualche illazione del tutto anodina, baluginata alla sua mente in una sorta di delirio in libertà. È un tipo serio, sa dire e pensare ‘ho sbagliato’ senza che si senta un miserrimo verme dopo aver recitato il mea culpa. Scherzando ma non troppo, siccome dopo un tourbillon di congetture, una più loffia dell’altra, si rende conto di avere un invisibile pugno di mosche in mano, ad alta voce pronuncia una dichiarazione -rivolgendosi a nessuno, come gli succede spesso quando parla da solo e non reputa necessario, ai fini della validità logica del suo ragionamento, un preciso ed esterno destinatario del messaggio-. “Non c’è una scala a chiocciola e nemmeno un ascensore: massì, chi se ne importa, pazienza, se non scopro qualche strumento per salire su e in quel coso, e mi sa tanto che non lo scoprirò prima di una decina d’anni, mi abbarbicherò, più atletico di Tarzan”. E ride, sentendosi un campione -di elastica rassegnazione e creativo spirito di adattamento-, molto maturo, quantunque a qualcuno possa apparire, al contrario, un pirla infantile. Alza la testa, sbircia il gran caos sul tetto e poi, nel guidare senza patente la propria attenzione -che sta all’insieme dei peregrini dettagli come la sete d’un viandante nel deserto a una damigiama di freschissima acqua minerale in un’oasi-, la focalizza su una scala, che finisce dove inizia una porta, e prova lo spasmodico desiderio di salire gli steps. La door forse, siccome è chiusa e da fuori è impossibile, senza una magica palla di cristallo, intuire che cosa possa esserne dietro, simboleggia un mistero tanto oscuro quanto attraente. La psiche di Giacinto lo vuole trasformare in una consapevolezza chiara e distinta. E appetisce un celere attingimento di questo scopo. O adesso o mai più. Il giovane, mai stato fesso in vita sua, non ha dubbi: se rientra, principiando a organizzare la sua attività scientifica a livello indoor, finirà con il prescindere dal fine di svelare quell’arcano, se ne fregherà, avrà altro a cui pensare. Solennemente dà il la al cambio di altitudine. Sono solo nove gradini, ma lui, nel mettere i piedi su questo itinerario dolcemente obliquo, li interpreta come un tragitto ben più esteso. Per la precisione: il tempo per giungere al serramento, piuttosto difettato, alla sua psiche pare analogo a quello in cui, la scorsa settimana, egli ha marciato lungo la trasteverina scalinata Ugo Bassi, dopo aver fatto una capatina in una palestra di boxe, per salutare il forzuto titolare, suo caro amico, e prima di recarsi in un ‘Mercatino’, a Monteverde. Lui è fatto così. Ha una soggettività così originale, così indisciplinata e vogliosa di essere al mille per cento speciale, a modo suo, che talvolta il suo cervello nuota beatamente in una specie di spericolato e delirante solipsismo. Comunque, a parte il fatto che questi quattro passi gli pesano come una fatica atlantica, la decisione di entrare in quel vano settentrionale è come minimo buona. È bene che il conduttore di un immobile ne abbia una completa contezza. Nel suo caso si è verificata una strana lacuna del proprietario. Non gli ha voluto dire nulla in merito alla rimessa, come se il progetto di affittarla non lo riguardasse. Lo ha implicitamente posto davanti a un aut aut: o ti piace subito subito, senza rompere le scatole con un milione di domande più o meno pertinenti, oppure sciò!, avanti il prossimo. Né ha voluto, come fanno certe agenzie immobiliari quando postano un annuncio, lumeggiare con rigore professionale l’essenza d’ogni spicchio della casa. Zitto e muto, acqua in bocca, misterioso come un autore che, all’inizio d’un romanzo giallo, faccia di tutto, dopo un delitto, per non far capire ai lettori chi possa esserne il killer, perché il colpevole dovrà venire a galla, in un’agnizione stupefacente, a pagina 967, poco prima dell’explicit. È bene precisare, a scanso di sciocchi equivoci, che quando quell’uomo ha consentito a Giacinto di entrare per il preliminare sopralluogo, e stare da solo, senza stargli appiccicato come un ossessivo segugio che non si fidi, il ragazzo, fra sé e sé, lo ha apprezzato. Ha reputato il suo atteggiamento un segno di passiva eleganza, e non ha avuto esitazioni, scettiche o maniacali, nel valutare quell’estraneo un galantuomo. Nondimeno, al netto di questa stima, adesso, trascorso un breve periodo da quando è diventato ufficialmente l’affittuario, quindi una sorta di facente funzione del padrone, si innervosisce pensando che quell’antipatico galantuomo lo abbia lasciato nell’urticante necessità di disvelare il significato di ogni angolo, dall’alfa all’omega, di questo abituro. Il locatore è dunque, sia detto per paradossale inciso, stronzo e gentleman al tempo stesso. ‘Non fa niente’, pensa e sospira il giovane mentre apre la porta, e nelle sue orecchie entra, come un mezzo inquinamento acustico, un gracchiante cigolio, sintomatico di cardini che abbisognano quanto prima di un’acconcia lubrificazione.
   L’esploratore entra con irrazionale circospezione nel vano. Una stanza angusta, poco più d’uno sgabuzzino, con aria viziata -probabilmente è chiusa da molto tempo-, un’atmosfera asettica, impregnata sia di misteri che d’irrilevanza. Il giovane, nell’osservare le poche masserizie, istintivamente si dirige verso il mobile meno peggio. Uno scrittoio, al cinquanta per cento antico e per la restante parte postmoderno. Come sedia v’è un bidone, a suo modo originale, caratterizzato da vivaci disegni sulla sua superficie. L’ospite nota, vicino a un portapenne, un mucchio di fogli, accatastati in modo disordinato. Afferra il blocco, soffia sopra per togliere alla men peggio tutta la polvere depositata, e inizia a sfogliarne ogni pagina, dando una sommaria scorsa a ciò che ivi è scritto. Le prime quattro sono insipide, i testi consistono in appunti, presi da chissà chi, del tutto insignificanti. Sulla quinta, però, v’è un clamoroso colpo di scena. L’inquilino, infatti, si rende conto che questo foglio non c’entra nulla con quelli precedenti, qui è cristallizzata tanta roba, ci sono preziose indicazioni, afferenti nientepopodimeno che il senso dell’intera casa. Giacinto ha la sensazione che sia un documento ufficiale, anche perché in calce allo scritto vi è, accanto a una firma -del tutto illegibile, una sorta di oscuro geroglifico-, un timbro. L’avventuroso boy, in preda a una dionisiaca curiosità, elettrizzato nella sua morbosa sete di sapere, un po’ intimorito da questa sede così al di fuori del comune, inizia a leggere. Dati su dati, un identikit dell’immobile, l’indicazione delle misure, e poi, perdindirindina, una sezione che vale più dell’oro, topica nella sua densissima pregnanza culturale. Il lettore viene a sapere che questa costruzione -eretta in anni di boom economico, da un maestro d’ascia, titolare della ditta edile, e tre talentuosi manovali- ha un preciso nome: ‘Shed Of Rebellion’. Ribellione? E perché mai? Il pignolo interprete, protagonista di un’esegesi e di un moto ermeneutico ch’egli sente come un alto compito scientifico, si chiede, prima di proseguire la lettura, in quale accezione lo scottante vocabolo qui sia usato. Innanzitutto ribellione a chi o a cosa? E poi non riesce a capire in che senso un ospite di questo spazio possa agire come un facinoroso sovversivo, come l’artefice di una palingenesi che causi un’implosione strutturale dello status quo. Questo personaggio ancora una volta indulge a un viziaccio, accio davvero: vuole bruciare le tappe, morde il freno con un’esagerata e quasi patologica inquietudine, non sa aspettare. Anelare alla contezza immediata d’una faccenda, volerne scoprire la quintessenza in un amen, senza percorrere gradatamente l’itinerario cognitivo, può talvolta costituire una cazzata in salsa di sterile utopia. E poi mister Giacinto, con questa fretta, che denota tutto il metaforico maelstrom pulsionale che imperversa nel mare magnum delle sue recondite pulsioni, dimostra di non conoscere un utilissimo e savio proverbio, che esorta gli esseri umani a non voler cercare oltre l’orizzonte, in un lontanissimo ed esotico altrove, ciò che se ne sta tranquillamente accovacciato sotto il proprio naso. Lettore in balia di un turbamento più masochistico che costruttivo, egli allontana la vista dal foglio per meditare, con la testa fra le nuvole, sulla domanda: ‘Qui che tipo di rivoluzione può vedere la luce?’. Perde diciannove minuti del suo tempo in questa spaesata speculazione, come un pensatore di serie C, incapace di arrivare al dunque, di stravolgere un dubbio e farlo diventare un’assiomatica certezza. E, stupidaggine esponenziale, sospettando di non poter dirimere questa impasse prova pure un pizzico di amarezza psicologica, mettendo il carro davanti ai buoi, paventando di essere a un passo da una disfatta ben prima che d’una tale waterloo sia comparso qualche prodromo. Meno male che, stoppando questo interiore ambaradan, riprende la lettura. Dopo qualche rigo, infatti, trova la risposta ai suoi perché. Se non avesse indulto a una soluzione di continuità nel suo informale lavoro di lettore avrebbe evitato di lambiccarsi, con ozioso e autolesionistico perfezionismo, il cervello. Poco male, comunque, la frittata, è vero, ormai è fatta, ma è tutto sommato piccola, no problem. Strabuzzando gli occhi, restando esterrefatto di fronte a un’info che vale il doppio, apprende che la ribellione in oggetto è connessa proprio alla grande pentola.

‘ILLEGAL MANUFACTURING OF LIGHT’  (‘NIELEGALNY WYROB SWIATLA’),  BY JACEK YERKA

   Un arcano pozzo che, in mezzo a una grande quantità di stranezze, forse ne rappresenta la pièce de résistance. Prima, quando il suo apparato sensoriale l’ha registrata di primo acchito, non ha indugiato, dopo una prima fase di perplessità, nel tentativo di capirne la precipua funzione. S’è limitato a procrastinare il ‘match’, a rimandare lo studio di quel coso e il tentativo di metterne kappaò la sua caliginosa impenetrabilità. Ora, giovandosi di quella fortuna che suole essere definita, in modo bellamente letterario, ‘serendipità’, la soluzione gli va incontro senza che lui l’abbia cercata e meritata. Sulla pagina prospiciente le sue pupille, infatti, è scritto, a caratteri normalissimi, non cubitali, che in quel recipiente -prima era en plein air, poi tre macisti hanno avuto l’incarico di traslocarlo dentro- si può effettuare un processo di gran momento: la produzione d’una luce tanto importante quanto illegale. L’autore, un anonimo, non precisa in che senso una siffatta poiesi sia vietata, se, per esempio, la persona che si permetta di crearla possa essere trascinata nelle aule di Temi, nei disdicevoli panni di imputata. Giacinto non riesce a capire se la clandestinità di cui sopra sia giuridica o culturale, se il produttore, evidentemente un cazzuto eroe che oltraggia un tabù, vada incontro alla condanna di un tribunale, a una draconiana pena da scontare in un’infetta casa circondariale, oppure a una vindice ritorsione da parte di un establishment. Così come non ha la più pallida idea in merito alla possibilità che il veto sia addirittura di stampo quasi metafisico. Ma ci pensa, ancora una volta, il testo a fugare ogni suo nero dubbio. Dopo una dettagliata serie di istruzioni sul modo in cui far funzionare quel nevralgico contenitore, un indispensabile vademecum -anche perché il suo tecnico uso è talmente complicato che forse chi vi voglia attendere deve prima, propedeuticamente, abilitarsi con il conseguimento di una patente-, si suggerisce all’aspirante produttore di fare molta attenzione a un problema davvero grave. Quella luce, palesemente provvidenziale dal punto di vista di un razionale progresso, è oltremodo invisa a un mostro, chiamato ‘Moloch’, che bazzica in questa zona, più volte avvistato a queste latitudine e longitudine.

‘DRAGON PLEASURE’  (‘SMOCZE PRZYJEMNOSCI’),  BY JACEK YERKA

Esso è un classico drago, fenomenologicamente il suo aspetto cagiona nei più una fifa blu che nemmeno uno strizzacervelli della psicanalisi riesce a guarire, e ha, nel brutto centro della sua crassa negatività, un aspetto tanto peculiare quanto micidiale: aborre qualsiasi viaggio verso una destinazione che rappresenti un’evoluzione rispetto allo start. Persone o animali o cose -come veicoli- che in qualche modo vadano avanti lo fanno star male, ergo ne attirano una feroce, belluina, reazionaria idiosincrasia.
   Giacinto se ne impipa. Prima ribattezza la ‘Shed’: diventa ‘Box  -gli sembra più carino di ‘rimessa’- della Ribellione’. Poi si tuffa a capofitto nell’avventurosa produzione di luce bandolera. Dura poco la fase di studio delle istruzioni per l’uso della maxi pentola. È un giovanotto in gamba, non gli fa difetto l’intuizione, nella sua esperienza scolastica un leitmotiv nei giudizi dei docenti sul suo rendimento è stato proprio l’accento sulla sua capacità di supplire a un disdicevole gap di applicazione -mai stato un secchione- con la facoltà dell’insight. In quattro e quattr’otto, in questo eterodosso ‘Box’, l’inquilino assimila, leggendo i misteriosi fogli nello sgabuzzino laterale, il metodo per far funzionare quel calderone, e subito, rimboccandosi le maniche con un’euforia mai provata prima, si dà da fare. Eroga un’energia effervescente, tanta adrenalina nel suo indefesso lavoro, il suo Io non sa, in e con esso, dove vada a parare, e questo vuoto di certezze circa l’indirizzo del culturale viaggio gli piace e lo turba al tempo stesso. Produce e produce, chinandosi sovente, perché il pertugio dove ficcare pezzi di legna per alimentare sistematicamente il fuoco è giù, implicando anche il problema, date le sue ridotte dimensioni, di dover inserire ogni volta solo una piccola quantità. Dopo qualche giorno ha le reni e i reni indolenzite/i e, a furia di abbassarsi e rialzarsi e viceversa -un mezzo supplizio-, s’è buscato un nocumento nelle ginocchia. Un guidalesco che lo scoccia non poco, egli non avendo mai avuto una ‘bua’ di questo tipo, ma tant’è, ‘non è il caso di farne un dramma’, pensa un pomeriggio, quando, dopo aver ficcato un ramo dalla forma curiosa, la sua postura somigliando a quella a quattro zampe di un cane, si rimette in posizione eretta, avverte nella metamorfosi di questo dinamismo un incipiente giro di testa e si appoggia a una maniglia, installata sul fianco destro della ‘vasca’. Stizzito per la défaillance, a un passo dal sentire nel suo stato d’animo un moto di malinconica amarezza -dovuta al fatto che si rende conto di non essere più quello che era dieci anni fa-, si ricorda di ‘ILLEGAL MANIFACTURING OF LIGHT’, il modo in cui sulla suddetta pagina è stata presentata la funzione di questa fucina, e si calma, si acquieta in un rassicurante e balsamico ritorno di serenità. Perché l’idea di generare luce e di farlo sfidando un altolà è un doppio motivo di esaltazione. In fondo quando, agli albori dell’esperienza in corso, ha avvertito l’uzzolo di un box in cui creare qualcosa di memorabile, come Apple, il centro della sua visionaria Mission era anche il coraggio di non inchinarsi davanti allo status quo, di non dire ‘Signorsì’ a ognuna delle sue regole, dando invece alla luce qualcosa di radicalmente nuovo e sfidando a duello, nella pioneristica apertura di un avanguardistico orizzonte, regole in vigore e auge, e i potentati che le amano poiché vi devono le basi della propria autorità. Lui, adesso, è, nel suo piccolo, un eroe, sia pur minore, un tipo alternativo: un meraviglioso merito, rispetto al quale qualche acciacco, come un malessere ai fianchi o una vertigine, è un insignificante prezzo da pagare. Avanti tutta!, dunque. È talmente gasato, su di giri, in preda a un eccitato slancio, che arriva a dirsi ‘Giddap! Non ti fermare!’, paragonando se stesso, in questo brevissimo e sublime soliloquio, a un destriero purosangue che stia correndo a cento all’ora e il suo fantino, incontentabile, lo esorti a sfrecciare a 200. Qualche suo detrattore, se lui, aprendo la ruota con pavonesco autocompiacimento, si vantasse di donare al mondo metaforici watt di evolutivo progresso con una temerarietà ‘fuorilegge’, potrebbe fare la tara a questa ostentata autostima evidenziando che la clandestinità in oggetto è molto vaga, non include, in lui, la consapevolezza di precise forze a cui con questa produzione, più artigianale che industriale, faccia uno sgarro. Qualcuno potrebbe sminuire il suo merito di presunto sovversivo, dicendo ‘abbassa la cresta, gasato bauscia, non stai mica mancando di rispetto agli Stati Uniti’, per poi aggiungere ‘ofelè fa el to mesté!, Garibaldi o il Che sono stati davvero gagliardi e coraggiosi, mentre tu non sai neppure perché il prodotto che esce da quella pentola è illecito’. Critica fuori luogo, ingenerosa: una bischerata, per descriverla con prosa terra terra. Fa acqua da molte -anche se non da tutte- le parti, non regge, rappresenta un taroccamento ad usum Delphini della realtà e della verità. Ciò che sia illecito è comunque orientato versus un potere, e Faber, alias Fabrizio De André, il cantautore che Giacinto più stima, ha teorizzato: solo un coglione può pensare che esista un potere buono. Il fan crede al suo Maestro. Quel suo concetto è valido a fortiori nel caso in questione: può mai una camarilla ostile alla creazione di Luce essere un Palazzo che, di fronte a un soggetto ribelle ai suoi diktat, possa non volere ch’egli la paghi cara? Cinto, altro che chiacchiere, se la sta cercando, va incontro, scientemente e con sprezzo del periglio, alla possibilità di pesanti ritorsioni. E poi, motivo numero due della necessità di stimarlo per quello che sta facendo nel tugurio, sa che si può offendere lui, Moloch, il drago che, per ragioni non del tutto chiare, non gradisce che il pentolone sia in funzione. Gli eventuali critici di cui sopra non ne sono al corrente, ma questa ignoranza peggiora, non attenua, la loro colpa. Chiunque ovunque deve, perché deve, rispettare una regola aurea se voglia elaborare giudizi su qualcuno o qualcosa: informarsi ben bene prima, studiare il caso, pronunciare valutazioni con un’idonea, esaustiva cognizione di causa, altrimenti non solo fa una figura barbina, non solo dimostra un quoziente intellettuale che nemmeno nell’età della pietra, ma è pure passibile di un’incriminazione giuridica, per diffamazione e dintorni. Il personaggio, mentre sgobba vicino al ‘pozzo’, suda, tanto, non solo per il calore delle meridionali fiamme, falò a cui si deve la neonata e settentrionale ‘Light’, ma anche, se non soprattutto, perché sotto sotto, dopo un primo momento di smargiassa strafottenza, ora ha il terrore che quel mostro, titanico, compaia da un momento all’altro. L’uomo ha paura, ci sta, una fifa che nulla toglie al suo eroismo, nondimeno questa intima fragilità, che talvolta causa in lui una leggera tachicardia, non ne penalizza minimamente l’operato. L’ingegnoso lavoratore insiste, anche quando è debole come un boxeur groggy. Nella prima settimana di locazione fatica più di otto ore al giorno, sentendosi protagonista di una nuova scena di pensiero, superiore, o comunque non inferiore, a quella del filosofo Hume. Fortunatamente del dragone nemmeno l’ombra, però, e purtroppo, l’avverbio si sbriciola, annichilito da un ennesimo ritorno del male, l’ottavo dì. Il giovane, buon per lui, se ne accorge quando ancora non è direttamente nel suo raggio d’azione. La truce fiera, attirata dalla progressista luce ch’egli sta fucinando -la esecra con tutte le sue abominevoli e aberranti forze-, fiutandola vagamente in lontananza, ha subito iniziato una marcia di belluino avvicinamento. Un moto che, attesa la sua stazza, ha causato, quando Moloch è arrivato a circa mezzo chilometro dalla capanna, una specie di terremoto, perfettamente percepito dal giovane (e novello Archimede Pitagorico) dentro la catapecchia. Questa tremenda svolta è accaduta una cinquantina di secondi fa. L’uomo ha disattivato la pentola, spegnendo contestualmente tutte le luci all’interno del suo pericoloso quartier generale. Adesso, mentre il suo cuore pulsa impazzito nel petto, il pioniere si ricorda di aver visto un binocolo sullo scaffale d’una libreria e nel buio, orientandosi a tentoni, lo va a prendere e poi, sempre orizzontandosi alla cieca, si reca in una veranda, con una specie di mosaico sui vetri. Da questo angolo visuale spia i dintorni, mentre ancora l’immobile vibra -segno del fatto che il nemico continua a star vicino e a muoversi-. A un certo punto lo vede: sorbole, quant’è grande! L’animale, che ancora, meno male, non si dirige verso la capanna, sta per divorare un treno che corre, dannatamente colpevole, nel suo infernale giudizio, di andare avanti.
   Giacinto spia quella fiera in un ibrido stato d’animo, intermedio tra stupore e terrore allo stato puro. Deve assolutamente sbrigarsi, fuggire senza esitazioni, perché esso, dopo aver trangugiato quel veicolo, metterà nel mirino del suo feroce e malvagio appetito, espressione di un retrivo oscurantismo, la rimessa. Vuole attentare alla Ribellione in fieri, desidera dare una memorabile lezione all’artefice della illegale luce, che evidentemente tende ad abbacinarlo, lo prostra, gli arreca un insopportabile tormento. Il ragazzo, non essendo un masochista, mette in cima ai propri desideri l’abbandono, tempestivo e a tempo di record, della proprietà di cui è conduttore, ha da abdicare al proseguimento della sua esaltante ed encomiabile produzione. Sarà per un’altra volta, adesso è prioritaria la salvaguardia della sua incolumità. Peccato, non ci voleva, proprio adesso che il pentolone stava funzionando a pieno regime. Ma gli dispiace ancor di più dover rinunziare a un affitto oltremodo conveniente. Gli tocca, non è il caso di rischiare. Se il suo sesto senso non erra, se il suo intuito non sta prendendo un granciporro, quel satanasso è sì venuto principalmente per osteggiare la luce clandestina, ma nella misura in cui essa simboleggia, nella sua forma mentis, il suo perverso concetto di Male, ossia il progresso della conoscenza, l’anelito a sapere sempre di più e sempre meglio. Lo sperimentale ragazzo sa bene che se smetta di usare l’utensile XXL, per così dire, e ripieghi su un obiettivo meno alato ma pur sempre intellettuale, come, verbigrazia, la composizione di una buona poesia, il nemico comunque reagirà con cattiveria e lo aggredirà. Senza considerare che, essendo ormai qui, è chiaro che, pentola o non pentola, vorrà annichilire una sede che gli fa gola, un opificio dove si pone ufficialmente in essere nientepopodimeno che una pretenziosa, illuministica eversione. Per lui i watt fuorilegge sono la punta dell’iceberg. Tutto l’insieme di questa residenza lo aduggia, il suo antagonistico fiele non andrà in stand-by nemmeno se l’Archimede esca, con le mani in alto, dopo aver issato sul tetto della stamberga una remissiva bandiera bianchissima, e urli drammaticamente “mi arrendo, guarda guarda quel vessillo, ti giuro che la pentola sarà inoperosa per l’eternità!”. Moloch, un tizzone dell’inferno, abituato a non fare prigionieri, se ne fregherebbe, in barba a tutte le ortodosse regole della diplomazia ecumenica, e lo attaccherebbe. Perché il suo cuore di orrenda, maledetta pietra esecra non solo quell’utensile e il suo senso ma l’intera maison di cui esso fa parte. Giacinto, tipo sognatore ma non a tal punto da essere scioccamente tetragono, all’uopo sa mutare la sua road map, duttile, pragmaticamente capace, in un work in progress, di commisurare di volta in volta la tattica e la strategia alla situazione. In men che non si dica, nel buio pesto dell’ambiente, delibera, lungi da un’irresolutezza che potrebbe costargli cara, un’autodifensiva ritirata, una decisione concomitante, nel suo primigenio porsi, con il momento in cui l’animale mangia la motrice. Urca, che schifo! Pare uno di quei serpenti che, non vedendo l’ora di divorare una grande preda, spalancano la bocca con un’apertura talmente monstre da apparire irreale, quasi ritoccata al computer. L’inquilino fa, in doppia fretta e tripla furia, i bagagli, sempre procurando di non accendere lampadine. Più resta nelle tenebre e meno possibilità ha il nemico di accorgersi di lui e della casa tutta. Guadagna una secondaria via d’uscita, uguale e diverso rispetto a quei vip che, braccati da una muta di paparazzi e vogliosi, per un motivo o per l’altro, di non farsi beccare dai loro scatti lesivi di privacy, evadono dal retro di un Hotel Excelsior, alla chetichella, magari con un cespuglio addosso. La similitudine, va da sé, è assai parziale. Uno di questi supermen, infatti, poniamo un divo di Cinecittà, può ricorrere al suddetto stratagemma perché, sposato con A, è andato in quell’albergo per fare l’amore, in modo scandalosamente adulterino, con la pin-up B, e non vuole che il clamoroso tradimento si venga a sapere. Giacinto, invece, è stato coartato, da un bestione e non da fotografi decisamente meno pravi, a interrompere lavoro, mica sesso e coiti e amplessi; l’attore se la squaglia per non trovarsi nell’occhio del ciclone d’un polverone scandalistico, laddove il ragazzo rischia un pericolo infinitamente più grave, ossia di diventare la vittima di un omicidio. Insomma, sta messo peggio, e in un tourbillon di pulsioni evade dal suo effimero quartier generale -prima di uscire si avvicina al rospo Giovanni, lo accarezza e lo saluta, un po’ commosso-, auspicando di seminare il suo inseguitore in un battibaleno, con una velocità simile a quella della luce. Già, la luce. La citazione di questo meraviglioso termine significa mettere il dito nella piaga. Com’era bello fabbricarla! Un compito da favola, a maggior ragione perché era proibita, ardimentosa, anticonformistica. Il fuggiasco, mentre si allontana dall’ex sua dimora, ha un groppo alla gola, versa in un connubio di malinconia e nostalgia. E poi, a un livello di amarezza più prosaica, gli brucia la fine che ha fatto la sua occasione, anzi ‘occasionissima’, su un piano commerciale. Grazie alla pigione, particolarmente bassa, del bengodi chiamato ‘Shed Of Rebellion’, una pacchia -e quando gli ricapita!-, il pischello ha potuto realizzare il sogno di un quartier generale, dove inseguire gloria, nonostante il suo quasi miserabile budget. E poi il ‘Box della Ribellione’ è tanto, tanto simile al garage, per lui mitico, di Apple. Il capanno, o la capanna, era, dal punto di vista dell’appartenenza a un’umile serie C del mercato immobiliare, tale e quale. Stesso tasso di sfiga, identica modestia, parimenti capace di fungere da eccitante contraltare, minimalistico e proletario, alla grandezza del cervello all’opera dentro l’headquarter. Purtroppo, sigh!, era, cioè non è più. Ma Giacinto non è un tipo che si perda d’animo in una disavventura. Non è il caso di piangere sul latte versato, adesso è il momento di rimboccarsi le maniche, e la mente dell’eroe, da un lato pensando ‘l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare’, dall’altro già sta dando la caccia a una valida alternativa -nessun dubbio: questo campione ha perso solo una battaglia, che possiamo intitolare ‘Giacinto 1’, e merita paralipomeni e sequels, come ‘Lo squalo’-. Tanto per cominciare, l’ammiratore di iPhone e iPad e tutta la compagnia bella contrassegnata dalla Mela, glamour e trendy, sa bene che, dopo l’eccezione rappresentata da un canone a così buon mercato, adesso dovrà fare i conti con la Norma. Certe fortunatissime stranezze capitano una sola volta, la dea bendata, dopo un beau geste, non lo ripete, più o meno come Paganini.

Walter Galasso