DI WALTER GALASSO
Morale della favola: ventotto giorni dopo, avendo Ernesto iniziato a seguire il ‘metodo fiori’ già all’indomani dell’importante passeggiata domenicale, l’attività del bar tutto sommato lo gratifica. L’imprenditore lo ha equipaggiato in modo singolare a livello estetico, posizionando vicino all’ingresso una grata (in ferro battuto) a cui risultano abbarbicati rami sarmentosi di un Abutilon megapotamicum, lunghi diversi metri e corredati di eleganti fiori gialli e rossi, a guisa di lanterna. Il proprietario ha ordinato al giardiniere, o forse questi ha consigliato al primo, di collocare questa gemma in modo tale da non farle arrivare né poco né troppo Sole, essa gradendo una medietas rappresentata dalla mezza ombra di cui parlano alcuni vivaisti. L’aspetto prostrato di questa pianta, altamente ornamentale, non inganni: esibisce propaggini che vanno giù, ma questi tralci emanano una sofisticata dignità, e quindi dal punto di vista culturale vanno su.
Siccome la griglia metallica -scura come la pece- a cui essi si appoggiano -assicurandosi senza nemmeno una polizza- somiglia alle inferriate che blindano le finestre dei penitenziari, qualcuno può vedere nei colori e nelle forme di tali fiori sudamericani -questi in particolare pare che provengano dal Brasile- un’allegoria di uomini ingiustamente condannati, che marciscono nelle patrie galere ma a torto, ed esprimono nell’universo il loro valore nonostante la pessima reputazione a cui la società li ha condannati in un giorno infelice. Ma questa è solo una delle possibili chiavi di lettura, simbolica e non: altri può anche ravvisare in questi arbusti solo degli arbusti, punto e basta, prendendo a ceffoni chi voglia sempre allontanarsi dal significato letterale di un oggetto della conoscenza, nella cosiddetta denotazione, per avventurarsi in un’interpretazione connotativa. Senza considerare che, in mezzo a queste posizioni antitetiche, si colloca l’uomo della strada, che transita di fronte al bar, vede i petali e, quando a questa flora vada di lusso, pensa ‘però, che bei colori’: né denotazione, né connotazione, altrimenti gli girano i c…, lui ha da fare e non ha tempo da perdere dietro pensieri in esubero.
Il mezzo eroe, dunque, ha fatto sul serio. Non si è limitato a qualche stuolo di papaveri, o a piante false, di plastica, vicino alla toilette, o all’avventurosa proliferazione e propagazione nell’ambiente di una banale edera -che certo cresce e si arrampica come se non crescere significhi beccarsi i fischi e le risate di alberi solenni siti a Villa Borghese, ma resta pur sempre un ornamento visto e rivisto mille volte in mille posti-. No, il mister ha dimostrato di essere animato dalla voglia di volare alto: ha scelto, per impreziosire l’immagine del suo impero, una speciale categoria di flora e, grazie all’illuminata guida di qualche collaboratore, ha informato l’importazione di questi fiori esotici a un modulo stilistico davvero originale.
Chi inizia bene è a metà dell’opera, il buon giorno si vede dal mattino, e un barista che adorna già l’ingresso del suo locale è un ‘filone’, davvero in gamba nel far partire il restyling dall’esterno. In fondo spesso il tempo e lo spazio si somigliano, e i due suindicati detti, di tipo cronologico, possono essere ritenuti in analogia con il principio a cui si è ispirata la parziale e relativa ristrutturazione di questo esercizio. Come, nella diacronia di un’azione, uno start performante equivale a un salto addirittura nel mezzo dell’intera vicenda; come in una giornata il bel tempo alle 8 a.m. è foriero di un ameno clima nell’intero dì; così, a livello spaziale, se un cittadino veda, davanti all’entrata di un negozio, delle mirabilia a livello estetico -nella fattispecie un brasiliano Abutilon, senza saudade ma con tanta allegria-, è portato a pensare che anche dentro chissà quanto sia alta la qualità di tutto. Psicologicamente il potenziale cliente è indotto, da una specie di proprietà transitiva, a estendere ai pur ignoti interni di questo luogo pubblico la positività che gli è dato di esperire da fuori, guardando quei fiori così particolari.
Ognuno è libero di pensare che sia alquanto opinabile un nesso fra attrazione di clienti e addizione d’una tale pianta al locale, però per questo personaggio, che da quando ha deliberato le suddette innovazioni è stato baciato da un discreto successo commerciale, è assiomatico che il merito sia soprattutto di queste ipnotiche lanterne.
La matematica non è un’opinione, gli disse una volta un suo amico, e da allora il barista è diventato un aficionado di teoremi e moltiplicazioni, egli odiando la giungla di cautele con cui uno che ha una determinata idea deve precisare che ‘secondo lui’ è così ma altri possono pensarla diversamente. Evviva la matematica, che grida ‘zitto tu’ a chi non è d’accordo con un risultato di una sua complessa questione: ah, che sollievo sapere che l’esattezza, come una vigilessa del fuoco, spegne le tante fiammelle di cui consta l’incendio del dubbio dopo che le più alte lingue del falò sono state sedate da una certa discussione. Che noia!, sempre quei residui di ‘forse’, ‘io penso, ma questa è la mia opinione’. Quel suo amico gli ha insegnato che sul pianeta esiste una disciplina che consente ai suoi cultori di dire l’ultima, e ogniqualvolta questa apoditticità si possa applicare a un ragionamento, sui massimi sistemi come su bazzecole, per il commerciante è un’occasione di estasi della certezza.
Orbene, secondo lui rientra fra i casi di verità matematiche la causalità fra l’arrivo dell’Abutilon e la lievitazione dei suoi affari. Il fatturato di questo esercizio, da quando il suo capo ha deliberato un tale e geniale orpello, si è irrobustito, gli incassi hanno registrato una crescita notevole.
Tempo addietro un altro suo amico, nonché collega, ha avuto a commentare questa bazza, e anche lui ha dimostrato di ravvisare in quel trucco la ragione numero uno dei clienti in più. “Mio caro, hai avuto un’idea davvero gagliarda. Quasi quasi ti imito, anche se il mio tugurio, nel postaccio in cui si trova, non può avere la stessa evoluzione. Io sono d’accordo con te, abbellire la soglia di un locale pubblico è un’idea vincente. Pensiamoci un attimo: mica tutti hanno le idee chiarissime quando, passeggiando o andando a lavorare, vogliono prendersi un espresso. Ci sono, è vero, gli abitudinari, gli avventori, quelli che entrano sempre nello stesso posto e guai a tradire il barman di fiducia, ma ci sono anche gli indecisi, quelli che scelgono un bar dopo aver dato un sommario sguardo da fuori -intanto l’interlocutore, ideatore della teoria in oggetto, annuiva soddisfatto, come se un professore stesse dicendo al mondo “la tesi vale, l’autore di più”-: gettano un’occhiata e in una frazione di secondo stabiliscono se l’indirizzo ‘X’ sia quello giusto. In quel lasso di tempo si gioca la partita del ‘sì’ o del ‘no’: fuggiranno da un Caffè le cui vetrine gli risultino antipatiche, gli ispirino un senso di avversione, di sporcizia, di estraneità, mentre se, come nel caso del tuo gioiello, vedano una pianta raffinata e insolita, la loro curiosità è acchiappata, e scatta il loro consenso. Nella loro testa cominciano a sentire ‘entra là dentro, non andare altrove, fidati delle apparenze, che stavolta non ingannano'”.
Un po’ prolisso questo discorso di Ugo, uno dei più istruiti colleghi del protagonista, però, siccome stava incensando la sua trovata dei fiori, avrebbe potuto parlare ancora per ore e l’altro non avrebbe avuto niente da ridire, anzi, si sarebbe sentito rispettato. E comunque, a parte il siparietto di cordiale colleganza, quel cicaleccio ebbe il potere di confermare la validità della teoria secondo la quale il progresso finanziario del bar deve dire grazie innanzitutto al mitico Abutilon. Esca e amo capaci di pescare nuovi e floridi scontrini, calamita irresistibile, specchietto per le allodole -in senso buono-, mirror da cui emana una gibigiana che seduce gli occhi dei passanti, flora incantatrice e maliarda, brava a ipnotizzare chi si trovi qui per caso, inducendolo a entrare come un argano tira un carico.
Walter Galasso