DI WALTER GALASSO
Dipendesse da me
…
Volente o nolente
Risponderò presente
Volente o nolente
C’è un orizzonte sempre
Volente o nolente
Non lasci indietro niente
‘Nolente’ somiglia a un personaggio caratterizzato da una strana, quasi sfortunata carriera. Dietro la sua fenomenologia, un po’ dotta e un po’ stantia, c’è una storia che è stata sfigata, ma poteva esserlo ancora di più. In principio fu ‘velle’, volere. Alle sue spalle si materializza ‘ne’, particella negativa, in una doppia accezione dell’aggettivo, nel senso che dal matrimonio della loro contrazione nasce un anatroccolo vagamente brutto, ‘nolle’. Per essere precisi, ‘sto verbo in teoria brutto non è, perché il suo significato -‘non volere’- ha tutti i crismi per assurgere a una discreta fortuna nell’uso corrente. Dall’antico latino avrebbe potuto trasferirsi gradatamente nell’italiano con un gratificante successo, anche perché alzi la mano chi non abbia la necessità psicologica di dire ‘non voglio + eccetera’ almeno in 3750 direzioni mentali ogni dì. Siccome, in genere, la sintesi è sempre gustosa in chi ne è attore e in tutti i suoi spettatori, ‘nolere’, al posto di ‘non volere’, se tutto fosse andato normalmente avrebbe dovuto costituire un guadagno amato dai più: in ogni fatica, dalla corvé nel ripulire le stalle di Augia a una pinzillacchera meno onerosa di un gioco da ragazzi, ‘1’ è sempre meglio del suo doppio, questo insegna l’economia. E invece no. Se si eccettui qualche autore, come Carlo Emilio Gadda, nella maggioranza relativa della popolazione del Bel Paese, e pure in quella assoluta, ‘nolere’ puzza d’incartapecorito latinismo, sa di naftalina, chi lo adoperi rischia di buscarsi una querela per pavonesco narcisismo. A meno che…
Esiste, attualmente, solo un modo in cui la sfortunata parola viene sdoganata, e nessuno storce il naso: nell’espressione ‘volente o nolente’ -che non ha nulla da invidiare, quanto a efficacia glamour, all’inglese ‘willy-nilly’-. In essa la seconda polarità può essere posta in similitudine con un dozzinale cantante che, insieme a una o un partner in un duo funzioni molto bene, laddove se, puta caso, l’artistica coppia scoppi e si sciolga, fa sempre cilecca, finendo con l’esibirsi da solo davanti allo specchio, vocalist e intero pubblico al tempo stesso. ‘Volente o nolente’ è un’espressione addirittura gettonata, va forte, profuma paradossalmente di linguaggio efficace, schietto, capace di stornare a priori il rischio di qualsivoglia equivoco.
Recentemente il suo successo a gonfie vele ha migliorato la velocità di crociera, aumentando come minimo di un nodo l’intensità del vento che gli vuole bene. Nel 2020 è stata intitolata alla locuzione in oggetto una canzone. Un articolato racconto -bello, lirico, in chiaroscuro- dove essa, fra l’altro, è stata creativamente utilizzata con libertà poetica, in un’affascinante narrazione d’un rapporto fra una donna e un uomo.
Lei è dentro, vicino a uno degli oggetti più belli del mondo: un pianoforte a coda, con fulgido design di maestose mirabilia.
Lui è fuori, arde di scocciata inquietudine, in preda a grintose preoccupazioni. Paventa che le sue ali possano essere tarpate da fattori eteronomi, ma non gli va d’essere e fare il piagnone, se lacrime verserà esse avranno lo stesso cavernoso e ieratico suono d’un ruggito. Lei è serenamente scatenata in allenamenti indoor della sua muliebre immaginazione, mentre deambula con leggiadra armonia fra le mura, in una calda atmosfera sottesa d’una luce artistica. Trasognata, soprappensiero, elegante e minimalista al tempo stesso, si sente protetta dallo strumento, posizionato sotto una scala che forse simboleggia, a livello architettonico, un’ascesa da urticanti dubbi alla pace d’una verità che consola. Appare seria e anche leggera, turbata ma non troppo, sorridente mentre nella psiche si registrano scosse di un terremoto lirico.
Lui, appoggiato a una parete che sembra quella di un box di lusso, spartano e chic al tempo stesso, si ricorda d’essere un uomo adulto che, nonostante le primavere sulle spalle, egli essendo già entrato negli ‘anta’, all’uopo, cioè se gli vada, gioca a rimpiattino, esattamente come faceva quando, poco più che capellone bebè, se, monello, urtava lo spigolo di un mobile, ahi!, presentava come una ‘bua’ il dolore che ne derivava. Verdissimo cinquantenne, ancora creativamente ludico come nella puerizia, adesso, però, non ha voglia di cazzeggiare, perché anche nel cervello di un epico eroe che sa ironicamente peterpaneggiare può esserci un tarlo. Lei si chiama Elisa, lui Riccardo -è il suo secondo nome, non citiamo il primo per fare finta di non spoilerare nulla-.
Tra i due v’é un décalage anagrafico, la loro differenza d’età è coetanea d’una persona nel genetliaco in cui diventa maggiorenne, nondimeno sembrano persone gemelle. Meglio non scrivere ‘anime’, ché il termine potrebbe depistare, facendo pensare a una liaison. Sussiste sicuramente amore fra loro, ma in senso platonico e lato, come può normalmente succedere fra artisti legati da letterarie affinità elettive.
Dipendesse da me
Il telefono suonerebbe
Solamente notizie belle
E bella compagnia
L’uomo adora la musica, tant’è che gli piace interpretare un telefono che squilla come un musicista e/o uno strumento che suoni un brano. E in questo periodo no -2020…-, mesi che hanno dato un brutto colpo pure a un duro qual è il suo temerario animo, sogna ad occhi aperti che il suo iPhone, il suo smartphone, il suo apparecchio, ormai vagamente obsoleto, di telefonia ‘fissa’ suonino belle notizie e pure, fantasia nella fantasia, gradevole compagnia, equiparata a una composizione artistica. Inizia con questo semiutopico auspicio la sua canzone, un brano sui generis per molti motivi, in primis il fatto che il titolo, nonché fulcro del ritornello, id est ‘Volente o nolente’, è impiegato in modo elastico, volutamente impreciso su un piano psicologico-semantico. La locuzione in genere denota coercizione, necessità di dover fare qualcosa obtorto collo. Tu, tu generico, hai da impegnarti in un’azione a prescindere dalla tua voglia di farla. Una sorta di larvato meccanicismo, in barba a quel libero arbitrio che ogni essere umano spera d’avere assolutamente, senza se e senza ma. La suddetta espressione è dunque sintomatica di uno sgradevole aggiogamento, allude all’infermità etica d’una prigionia almeno parziale. E Riccardo? Non ci sta. Le si ribella con una dignità insurrezionale. Nella sua canzone, quindi, il refrain ‘volente o nolente’ è non il frame linguistico della situazione raccontata, bensì un contrario, quasi esatto. La sua opera è un inno a una Libertà che prende narrativamente le mosse dal leitmotiv per ostentare che il protagonista se ne frega, non è schiavo di male ma anzi è un melodico atleta di un Bene dai tanti volti.
Dipendesse da me
Non saresti là fuori in giro
Ma sapresti che cosa fare
E lo saprei anch’io
Il primo, o meglio: il secondo, dopo il daydream in cui il cantante vagheggia un telefono che suoni felici novelle e sia foriero di calorosa vicinanza con persone o.k., è la virtù in cui un soggetto sa perfettamente quale sia l’optimum nella sua condotta. Riccardo agogna un’assoluta padronanza di sé, vuole avere una lucida cognizione di causa, ricca altresì d’una teoretica appercezione, nel sapere che cosa fare. Di primo acchito questa competenza può sembrare un gioco da ragazzi, come il nascondino a lui caro, un pro forma, una quisquilia, e come tale viene spesso presentata da tipi tanto superficiali quanto alteri, pieni di sé, ganassa che quando compiono una determinata azione credono d’avere, in un autocontrollo monstre, la perspicacia di un Freud. Riccardo no. Pur potendo tranquillamente atteggiarsi a maschio alfa, essendo tra l’altro un artista dernier cri, dalla ricchezza della sua intelligenza attinge una skill deliziosa e fertile: dubita, domanda a se stesso quale sia la vera quintessenza del suo agire. Sapendo socraticamente di non sapere, non abbandonandosi a una pseudosicurezza, prova nell’imo del suo creativo animo un pizzico di turbamento. È reduce da un brutto quarto d’ora, in questo anno strani problemi hanno contribuito a minare una porzione di quella grinta -tre punto zero- in cui tanti suoi aficionados riconoscono uno dei suoi tratti distintivi. A maggior ragione, sapendo donde proviene il suo cammino, sia quello professionale che, più in genere, quello esistenziale, anela a padroneggiare cognitivamente, in una gnoseologia raffinata, anche la contezza della Meta a cui egli è diretto. Possibile che non la conosca già a menadito? Possibile. Perché il primo nome di questo complesso, valoroso Riccardo è Luciano, e le prime quattro lettere del notissimo cognome sono nientepopodimeno che Liga. Sì, proprio lui, la star con il rock, quello pregiato, nel DNA e nel rosso sangue. È dunque un artista, e come tale, protagonista umile nella sua valentia, vede e sente problemi dove altri scorge solo, senza timori e lungi da pathos, una facilissima banalità.
Luciano adesso è fuori, scorrazza e girovaga, solo a tratti sostando in qualche suo locale, uno dei quali stracolmo di spavalde chitarre.
Il suo sensibile cuore interpreta questo tour come una meditativa passeggiata in un latente e rebussistico dedalo d’incertezze. Un altro al suo posto, qualche prestigiatore bravissimo a vendere fumo e a barcamenarsi nella costruzione d’un convincente bluff, potrebbe tirarsela. Potrebbe gabellare la sua promenade per avventura d’un cazzuto globe-trotter, che esplora un esotico altrove capitanando con maestria il veicolo su cui sta viaggiando. Il Liga, come un leone moralmente morso da un invisibile nemico, avverte l’esigenza di aprire una cesura e in essa fare un briefing, per abbozzare un punto della situazione. Confessa urbi et orbi che il suo essere là, fuori, in giro, non è solo rose e fiori. Il suo Io peregrina e ammette, a sé prima che ad altri, che è lì, e così, nella misura in cui, appunto, ancora non ha ben capito che cosa con esattezza deve fare. Nessuno sia autorizzato a evincerne che ‘sto eroe si complica l’esistenza per fare il fenomeno, qual tormentato Übermensch che, volando mentre i più laggiù annaspano, simuli amletica angoscia per aggiungere un ennesimo pregio alle sue già tante virtù. Riccardo Luciano non dice e scrive cazzate, è leale e sincero quando presenta quel suo viaggio come una storia fatta anche di dubbi e spaesamento.
Il protagonista di queste canzone e storia è anche camaleontico, bino, strettamente legato, a livello interiore, a una seconda polarità che quasi gli inerisce, appendice spirituale come e più di un alter ego o di un’ombra. Quando parla a sé le si rivolge contestualmente, in bene e in male, nella buona come nella cattiva sorte. Lei non è deuteragonista, essendo parimenti al centro del protagonismo, condiviso da Luciano e questa gemella. Ergo quando il primo confessa a chi lo legge e ascolta che v’è un larvato travaglio nel suo girovagare là fuori, soprattutto perché esso implica un dinamismo in cui lui non sa al cento per cento quale Meta debba attingere, si riferisce a un potenziale dramma che appartiene pure a lei. Anche per questo sofisticato motivo tale brano non è una ballad all’insegna d’una normale storia d’amore. È un’ode psicanalitica, intrisa di intensi tentativi d’una catartica autocoscienza, in cui la voce narrante mette fuori per regnare dentro, indirizza messaggi a una figura che, incarnando il classico ruolo di destinatario nella situazione comunicativa, indirizzo a cui il mittente spedisce idee che lo rappresentano come ambasciatrici del suo animo, lo aiuta a fare chiarezza in se stesso. Riccardo, dunque, mentre le comunica un concetto lo scopre, abbisogna di lei quando le partecipa un suo contenuto intimo, per sapere in tutto e per tutto in che cosa esso consista. Accade, in questa canzone, la costante, struggente, dolcissima trasmissione di un contenuto non solo sempre in fieri, come si confà a una ricerca culturale che voglia volare alto, ma pure ancipite, al tempo stesso introspezione e sfogo verso l’esterno, gioco introverso ed estroverso dramma, soliloquio e dialogo scrio scrio. Il Liga adesso confida a Elisa che in giro per il mondo non è del tutto padrone di sé per testimoniare a sé questo suo incazzato gap. La coinvolge in questa Stimmung ma solo in un gioco di specchi, elevandola a carta al tornasole -nel soave ascolto che gli regalano le sue attente orecchie- ch’evidenzia la sua inquietudine.
Volente o nolente
Risponderò presente
Volente o nolente
Non lasci indietro niente
L’eroe non cristallizza in qualche personaggio ben preciso, nell’ambito della sua musicale narrazione, tutti i possibili intoppi e ostacoli e problemi a monte del suo non sapere con scientifica ed etica esattezza la Mission della sua prassi. Avrebbe potuto inventare un bruto, empio oppositore, magari per premettere le basi, all’inizio della vicenda, d’una finale sua apoteosi. Avrebbe potuto creare un antagonista, di primo acchito terribile e duro come i diamanti, per sconfiggerlo strada facendo, per farlo diventare, alla fine della fiera, uno zimbello come e peggio d’una tigre di carta. E invece questo nemico, forgiato su misura come preambolo e narrativo assist a una vittoria non di Pirro, non esiste. Perché il punctum dolens è proprio nella ricorrente espressione ‘volente o nolente’. Il nocciolo delle grane che Luciano ha da dirimere è la situazione generale della coesistenza sociale, non tizio demone o caio satanasso o sempronio tizzone d’inferno. Il guaio numero uno è l’impossibilità, per un individuo che non sia un marziano superman, di agire sempre e comunque in totale, assoluta autonomia. Alzi una mano chi possa chiamarsi fuori da tale maledetta eteronomia. Tante, troppe volte, bisogna compiere una determinata azione a prescindere dal provare piacere nel porla in essere. Anche se un attore sociale non sia una mezza cartuccia, e Riccardo è proprio un tipo in gamba -al netto della sua encomiabile brama di migliorare sempre-, ci sono dei momenti, ‘là fuori’, nella dimensione pubblica, in cui il libero arbitrio deve abdicare a una parte del suo scettro, ritrovandosi costretto ad alzare bandiera bianca, a scendere, sigh, a savi e pragmatici compromessi. Magari lui, messo con le spalle al muro, ci prova pure a non fare una figura barbina, lottando come un leone senza criniera per non tradire nemmeno un grammo e un centimetro dei suoi desiderata. Tuttavia alla fine di questi duelli puntualmente ha la sensazione che la montagna abbia partorito un topolino, nel senso che, a dispetto della fatica mostruosa erogata a salvaguardia della propria libertà assoluta, in ultima analisi si riesce solo a cadere in piedi, per così dire, a limitare i danni. Escogitare una mossa del cavallo che consenta al proprio Io di essere al mille per cento il signore e padrone del proprio destino è più difficile del compito di rimuovere ‘omeopaticamente’, con un cucchiaino, tutta l’acqua di un oceano.
Questo fascio di limiti può essere tollerato con fatalistica e rassegnata pazienza da un quidam, non certo da un tipo come Luciano. Eroico e gagliardo non solo perché, impermeabile a ogni frustrazione, si batte e non fugge, ma anche per la sua capacità di accettare dall’alfa all’omega ogni sfumatura della sconfitta che probabilmente subirà nell’impari certame. Di fronte alla negativa situazione sintetizzata in ‘nolente’ lui gareggia, non se la squaglia, ‘risponde presente’ all’appello fatto da un ideale e invisibile arbitro poco prima del gong che annuncia il primo round. E, buscandole dal destino sociale, monitorando, alla fine di ogni sudata e sofferta ripresa, la composita mappa di lividi e bernoccoli, che spuntano a macchia di leopardo sulla sua provata soggettività, evita di rimuovere la consapevolezza di tali danni e di tutti i frangenti cronologici in cui essi sono albeggiati. Li guarda in faccia, ne porta il conto senza buttarlo nel pozzo d’un vigliacco tabù. Giova, nella presente fase ermeneutica ed esegetica dei versi in questione, ripetere che il cantautore effettua operazioni come ‘rispondere presente’ e ‘non lasciare indietro niente’ non in genere, ma contro un impreciso e impersonale antagonista, ‘volente o nolente’, che rappresenta il nemico della ‘challenge’, nell’ambito del suo brutto senso. Il precipuo problema si radica nel loro mefitico connubio, nel fatto che il secondo termine infetta come un virus il primo, negativamente appiccicato alla sua fulgida positività.
Dipendesse da me
Capiremmo un po’ tutti tutto
Arrivata a questo topico punto la canzone, in un crescendo di legame con il parnaso, inizia a esibire una vistosa lievitazione della sua indole poetica, già evidentemente bella nei suddetti primi versi. Luciano Ligabue, scafato autore di tanti scritti incisivi e spettacolari, mette in campo, accanto e sopra alle gradevoli note sul pentagramma, parole intense, capaci, con divulgativa brachilogia, di sintetizzare (con e in immagini tanto semplici quanto pregnanti) dei concetti decisivi. Se dipendesse da lui -e questo è il punto: purtroppo tale dipendenza è solo parziale, e il suo Io se ne duole e s’arrabbia- tutti capirebbero tutto, almeno un po’: un bellissimo paradigma gnoseologico. Lungi, come sempre, da egoismo, memore del fatto che una vera e assoluta felicità di ciascuno è legata a priori, e a doppio filo, a quella del prossimo, l’autore non esita, per scrivere una simbolica fattispecie di gioia mentale, ad addurre un esempio semplicissimo e filosofico: tutti comprendono tutto. Cristallina, pedagogica, sincera chiarezza. Accompagnata e arricchita da un savio buon senso, dalla facoltà d’intuire che ‘capire un po’, mica l’Universo al novecento per cento’, è comunque tanta roba, e deve lasciare l’acquolina in bocca, ad maiora, non l’amaro.
Il sogno -ai confini d’una travestita utopia- che tutti capiscano, almeno un poco, tutto, è un suggestivo pot-pourri di eterogenee mete. Ha molte sfumature, talvolta fra loro diversissime, implica così la consapevolezza politica in cui i cittadini non si facciano fregare dal sistema, sempre intuendo dove vadano a parare le seriali balle di traviati mandarini, come la teoretica lucidità in cui una persona di cultura possa volare alto nei suoi studi. E in mezzo a questi pronunciati valori pure soddisfazioni comunque belle nonostante la loro apparenza di momenti del tran tran popolare. Luciano anela toto corde anche alla democratica e semplicissima gioia della gggente durante le mille incombenze della quotidianità. Se dipendesse da lui, se fosse l’Imperatore delle Galassie, farebbe di tutto per potenziare ogni singolo, per insufflare nella mente di tutti, anche del clochard più fallito e depresso ed emarginato, tanta corrusca e gustosissima luce, sì da farne un piccolo filosofo, dunque un soggetto a cui non la si fa. In questo segmento della canzone, più o meno un’ode a una cognitiva felicità generale, il cantautore leva in alto un implicito j’accuse, denuncia, in una stigmatizzazione sottotraccia, il malinconico duolo a cui molti sono inesorabilmente condannati dalla politica coercizione insita nel maledetto ‘nolente’.
Dipendesse da me
[…]
Ci sarebbe comunque campo
In questa galleria
Un primo antidoto a queste ‘catene’ è la Conoscenza; un secondo, dal Liga presentato in stretta osmosi con il primo, è l’ininterrotta informazione nel villaggio globale. Egli invoca il cristallino e indefesso e deontologico lavoro h24 dei santi mass media, quelli tradizionali e, a maggior ragione, quelli più up-to-date, in primis la Rete e la sua meravigliosa valenza pedagogica e didattica. Essa è la Svolta che ha cambiato, ovviamente in meglio, il mondo, regalando a chiunque la preziosa possibilità di emanciparsi dalle cupe tenebre dell’ignoranza che certe degenerate forme del Potere tentano di iniettare negli utenti delle loro industrie. Orbene, il faro di Internet ha da essere perennemente acceso e funzionante nel cammino, in ogni viaggio delle persone normali, dirette verso un miglioramento della loro condizione. Luciano Riccardo, da esperto comunicatore, con un curriculum zeppo di momenti in cui ha saputo partecipare, a un vasto pubblico di ultrà, grandi quantità di senso con poche, sintetiche parole, anche in questo punto della sua corsa artistica, in questi bei versi di ‘Volente o nolente’, dà un’ulteriore prova di divulgativa eloquenza. Allude infatti, per descrivere una situazione di ricchezza dell’informazione e della comunicazione sociali, a un loro esempio plastico, a tre dimensioni: l’arrivare, durante un viaggio, in una galleria, a bordo di un veicolo, e avere campo.
Il ritrovarsi, nel bel mezzo dell’attraversamento di un tunnel, con l’autoradio che non funziona, e il telefono senza tacche, e zero possibilità di connessione internettiana, è una paradigmatica condizione d’irritante défaillance. Un simbolo di fase storta, di esperienza no. Un’inferiorità, frustrante e scalognata, che illustra con strepitosa e minimalistica chiarezza una parentesi di mezza servitù. Chi viaggia e s’accorge che non c’è campo si irrita, smania con impazienza, fa il conto alla rovescia, in attesa di rivedere la piena luce, foriera della gaia uscita da una brutta parentesi nella sua costruttiva interfaccia, via web, con il resto del mondo. Ligabue, che a questa emblematica galleria ha attribuito, anche nel video ufficiale, una grande importanza, sia narrativa che poetica, lì dentro sogna un pieno campo, aborrendo, come tipico esempio di minorità culturale, il normale contrario. L’individuo odierno, un voyager che con passi da gigante ha compiuto in pochi decenni, per non dire anni, un’evoluzione impensabile fino all’ultimo secondo dello scorso millennio, vuole e deve essere sempre un cibernauta alimentato, nella fase apicale della sua lucidità postmoderna, dal profumo dell’oceano informatico in cui nuota come uno squalo di saperi. Quando non navighi senza aver deciso lui questa disconnessione, quando voglia collegarsi con un sito e sul display appaiano segni che gli fanno capire che non può, è in balia d’un rigurgito di arretratezza medievale, si sente meno forte, fragile a tratti, vulnerabile un po’, e s’incazza, sclera. Nella mentalità del poetico narratore Luciano il fatto che dentro una galleria scemi il campo si coniuga e intreccia indissolubilmente con l’assenza di luce solare in questo tipo di ambiente. Egli, in un elastico élan della sua fantasia autoriale, avrebbe anche potuto citare problemi di copertura del segnale in altri posti. Sappiamo bene che questo genere di guaio può essere registrato ovunque, e talvolta, paradossalmente, nella dimensione underground della Metropolitana esso non si verifica, mentre en plein air, in aperta campagna, uno smartphone può fare flop nel tentativo di ospitare eventi by Internet. Ligabue appositamente ha voluto indicare un posto dove simultaneamente siano sotto lo zero sia il livello della Rete che quello della luce naturale. Perché nella sua narrazione, appunto, il primo inconveniente, ben lungi dall’essere ‘solo’ una disfunzione del ‘pianeta Informatica’ e dei suoi derivati, è anche e soprattutto una Crisi di Valori esistenziali, un culturale regresso, nitidamente ipostatizzato dal buio. La Libertà -come Istanza con la maiuscola- ch’egli canta, anche nell’accezione lirica di questo verbo, nell’opera in oggetto, è pure luminosità spirituale e teoretica.
Dipendesse da me
Qui sarebbe Natale sempre
E le luci non vengono spente
Se non lo dico io, ah
Nel suo adamantino, fulgido perimetro il Bene e il Vero sono le due facce d’una stessa medaglia. Tant’è che poco dopo, nella complessiva architettura della composizione, l’autore mette insieme, nel continuare a lumeggiare il modo a cui il suo Io informerebbe il mondo se egli fosse del tutto responsabile e potente, una temporalità nella quale sempre trionfassero il buon calore del Natale e -ecco un ritorno dei ‘watt metafisici’ a lui cari- il proprio potere di decidere in prima persona, al comando del timone situazionale, quando spegnere le luci in una stanza. O in tutto uno sfarzoso, sibaritico castello. O, al contrario, in una miserrima cantina, un bugigattolo due metri per tre. Non importa dove, la quintessenza è il concetto di queste metaforiche e allegoriche lampadine. Luce come quel Sapere che è Potere, icona di stupenda autodeterminazione.
Volente o nolente
Risponderò presente
Volente o nolente
Rimani in testa sempre
Volente o nolente
Non lasci indietro niente
In certo senso questo approdo assiologico, nella crociera letteraria insita nella canzone, è l’apogeo della posta in palio dal punto di vista cognitivo. E/ma non a caso, proprio quando Luciano lo tocca, la sua intensità demiurgica raggiungendo il diapason lungo il crinale squisitamente teoretico, avverte l’esigenza di scivolare dolcemente nella prima comparsa del filone amoroso. In una coupure appena mascherata, nella sua intensità palingenetica, da annotazioni déjà-vu -“Volente o nolente / Risponderò presente… Volente o nolente / Non lasci indietro niente”-, l’autore si rivolge romanticamente a lei. Che finalmente diventa la regale Meta dei poietici aneliti del creativo personaggio e partner: “Rimani in testa sempre”.
L’animo dell’eroe arde di un intellettuale romanticismo, desidera, con un pizzico di slancio prometeico, che nessun disfunzionale ostacolo depotenzi le ali della sua fulgida voglia di Autonomia. Un’istanza di responsabilità che, quantunque a qualcuno possa apparire ardua e impegnativa, a tratti pesante come un uggioso compito fra i banchi di scuola, in realtà, almeno nel petto di questo Riccardo con il cuore d’un leone re della foresta, ha la stessa effervescente freschezza di un ameno balocco. In questa pregnante canzone lui ne ha fatta di strada!, non si è peritato, sin dal brioso incipit, di lanciare il suddetto cuore oltre il suddetto e potenziale ostacolo. Elaborando un raffinato percorso, sia lirico che narrativo, ha configurato una storica ribellione del suo temerario Io, una culturale sedizione versus quell’indice di relativa coercizione che, nell’ambito della cosa pubblica, per certi versi è, per così dire, fisiologico più che patologico. Un soggetto nel leviatano, a fortiori in uno con mille difetti, ha da fare i conti con un subisso di negativi condizionamenti. Un artistico attore sociale che si sia tatuato idealmente sull’animo il logo della Libertà li patisce, in una giungla in cui spesso si ritrova dentro claustrali e asfittiche gallerie, in ambienti scevri di un internettiano campo, dunque capaci di minare l’indefettibile bisogno, tipico dell’epoca contemporanea, di sentire in sé un mediatico gemellaggio con gli altri, tutti amalgamati in una comunicazione orizzontale, alla pari, nitidamente democratica. Dall’alto, da poteri tanto forti quanto negativi, proviene una pioggia di minacce, più o meno larvate, a questa bella, edificante fratellanza universale. Però, tra falsità di regime e tentativi, da parte di padroni del vapore, di aggiogare la frizzante spontaneità della gente, cerca di difendersi un artista, qual è Luciano, autore in grado di captare, con i performanti radar della sua sensibilità musicale, lacci e lacciuoli che altri ingenuamente non vede.
Si rende purtroppo conto che una netta, assoluta, cognitiva comprensione, a trecentosessanta gradi, di tutto l’insieme di eventi pubblici, grandi e piccoli, pare facile ma, al netto di significati superficiali, in ultima analisi si rivela quasi irraggiungibile. Forse la possibilità che tutti comprendano, senza residui di fastidiosi dubbi, l’essenza di tutto, o almeno inizino a vendemmiare questo risultato wonderful, potrà davvero realizzarsi quando, per dirla con un adynaton, al centro di una galleria lunga quanto l’equatore ci sia una parte del Sole. Di questi e tanti altri guai è lastricato l’itinerario di Ligabue nel perimetro di questa densa composizione. Ma lui, che ne era al corrente già prima di darle l’abbrivo, in un’embrionale fase di inquieta gestazione, s’è gettato lo stesso a capofitto in tale impresa. Forse con uno spirito inedito. Forse di lui, in questa sua proiezione poietica, è emerso un lato meno conosciuto di altri. Più pensieroso, scottato da qualche avversità, sempre ottimista, ci mancherebbe altro, però, e ci sta, con qualche caveat. Da questa sua ‘figlia’ -per un autore ogni sua opera può essere equiparata a diletta prole- emanano i segni d’una Weltanschauung in chiaroscuro. Tuttavia l’amaro in bocca, il senso di assenzio ch’egli può aver avvertito allegoricamente sotto il palato del suo intelletto non hanno minimamente inficiato tale traversata nel deserto. Un’impresa in cui ci ha ricordato tante volte che lui, come tutti, troppe volte tende a ritrovarsi, fra miasmi di avversità riluttanti a farsi debellare, ad agire volente o nolente. Nondimeno ci ha provato a trasformare questa locuzione e tutto il suo simbolismo, ammalato eticamente. Un tentativo effettuato anche, come si è visto, con il prenderne in giro il significato. Lui ha sapientemente usato l’espressione con una potente licenza poetica, citandola per comunicare che, quando si senta nella sua morsa, se ne impipa, e prova lo stesso a dare la scalata a vette di potenza libertaria. Fin qui ha già ottenuto, in questa direzione che a qualche scettico e rassegnato detrattore può sembrare -non essendolo- la traiettoria d’una orgogliosa chimera, ottimi risultati. Adesso è arrivato il momento, in queste res gesta in fieri, di mettere un’amorosa ciliegina sulla torta.
Dipendesse da me
Non saresti da qualche parte
Che non fosse la stessa parte
Dove sono anch’io
L’autore, come se voglia psicologicamente zumare, nella sua caleidoscopica introspezione, su parti (dei suoi desiderata) a lui particolarmente cari, partorisce versi che raffigurano, con commovente e icastica intensità, il valore dei valori, la sezione più apicale della vetta morale che sta scalando, abbarbicandosi (a furia di teoretiche emancipazioni) dal grigiore d’una parziale confusione gnoseologica. Questo sfavillante Optimum è Lei, consiste in una perpetua vicinanza alla donna ideale. E viceversa, perché, ormai è risaputo, l’esecuzione di questo brano è a due voci, all’unisono, e ciò che dice Liga è detto contestualmente da Elisa. Uno fuori, globe-trotter in giro per la Via Lattea, ruggente voyager che duella e sogna en plein air. Un fenomeno della porta accanto, un superman che mentre vola non si dà arie, né si dimentica che in tale exploit abbondano le luci e/ma non mancano umanissime ombre. Lei è dentro, sempre nei paraggi d’un solenne pianoforte, in un ambiente con luci calde, comfort a livello di masserizie -tutte con design bello-, al centro di un relax ad alti livelli, pieno di senso spirituale. Ambedue, però, nonostante tale disparità di frame situazionale, anzi talvolta proprio nella misura di questa studiata e non casuale alterità, sono nel mezzo di una colta elevazione artistica. Mirano a superare se stessi, ad arrivare in un punto di autodeterminazione ontologica, concretamente metafisica. Desiderano essere se stessi, lungi da ‘esogene’ limitazioni. E, appunto, in siffatto slancio brilla, al diapason dell’avventura mentale, l’anelito a essere sempre insieme. Se dipendesse da lui, tiene a dirci Luciano, mai e poi mai lei potrebbe trovarsi a distanza da sé. Una splendida dichiarazione d’amore, un peana -dedicato all’importanza, in tutti i sensi, della sua dulcinea- che ha chiesto aiuto alle regole della chiarissima semplicità per comunicare il concetto nel modo più potente ed eloquente. Ecco, dunque, qual è il più alto traguardo che possa essere trionfalmente tagliato da un uomo asintoticamente libero, un campione che proprio non ci sta a rassegnarsi a essere ‘nolente’.
Volente o nolente
Risponderò presente
Volente o nolente
C’è un orizzonte sempre
Volente o nolente
Non lasci indietro niente
Liga, con sagacia compositiva, evita, dopo questo picco, di abbassare subito il sipario, di realizzare immediatamente il ‘The End’ della ballata. Perché vuole che l’enfatizzazione del valore esponenziale, rappresentato dalla suddetta raffigurazione del connubio nell’eros, non eclissi le componenti non erotiche della Meta. Lo stare h24 insieme a lei, per l’eternità, è una sintesi di cui fa pure parte, implicitamente, tutto ciò ch’egli ha cantato, prima, in altre direzioni del suo raffinato spettacolo etico. E non a caso, del resto, in questo duetto lui e lei non recitano il ruolo di innamorati in una storia neorealistica. Evidentemente sono ‘solo’ colleghi, al centro d’una bella amicizia. L’amore, nella canzone, appare in un ‘vedo non vedo’, Ligabue ed Elisa vi alludono indirettamente, nell’ambito di una significazione in cui esso è accanto ad altre sfumature di senso. Perciò Luciano Riccardo preferisce concludere l’intero discorso con la generale e generica allusione alla positività di una dimensione in cui “c’è un orizzonte sempre”. Qui esce di scena ‘Volente o nolente’, vinto da ogni persona che sia comunque, in un modo o nell’altro, solo volente.
Un gagliardo, positivo ottimismo simboleggiato dall’abbagliante Luce, quasi un piccolo Sole indoor, che nel video ufficiale della canzone -‘DIRECTED BY YOUNUTS!’- più volte si staglia sullo sfondo di Ligabue, sembrando una sua aura.
Walter Galasso