VERSO L’ INCONSCIO, IL LONTANISSIMO IMO DI SÉ:  GIACINTO 2   [RACCONTO  (1 ARTISTA;  4 OPERE)]

DI WALTER GALASSO

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[…INSPIRATION FROM:  ‘WIND OF HISTORY’  (‘WIATR HISTORII’),  BY YACEK YERKA;   ‘INK VALLEY’,  BY YACEK YERKA;  ‘THERE IS PEACE IN THE BLOCK’  (‘SPOKOJ PANUJE W BLOKU’),  BY YACEK YERKA;  ‘SUBCONSCIOUS TOWER’  (‘WIEZA PODSWIADOMOSCI’),  BY YACEK YERKA]

   Il neolaureato Giacinto, con pochi soldi nella verde tasca e tanti progetti nella rosea mente, aspira a compiere grandi imprese. Fan della Apple, e affascinato dal fatto ch’essa, stracult a livello mondiale, sia nata in un umile box, vuole bissarne, nel suo piccolo, il miracolo economico e culturale. Magari prendendo in affitto un locale, a buon mercato, e in esso, quartier generale dei suoi sperimentali sogni di gloria, dare il la a una svolta nel cammino della civiltà. Per quanto possa volare basso nella ricerca d’un tale immobile, comunque abbisogna di un lavoro per poterselo permettere. In un primo momento il giovanotto -che a qualcuno appare come un bauscia- fa cilecca nel dare la caccia a una fonte di reddito, preliminare all’affitto d’una stamberga che funga da suo regno operativo. Poi, lui ambientalista scrio scrio, riesce non solo a emanciparsi dalla disoccupazione, ma anche a prendere con una fava due piccioni, assunto da una fabbrica che produce… Verde. Wow!, che colpo di scena straniante! E così, qualificato operaio della ‘Factory of Green’, eleva il budget con cui cercare il benedetto box. All’inizio, però, è dura. Il suo stipendio è piccino piccino picciò mentre i prezzi volano alle stelle, proprietari che non sanno quello che vogliono, sanguisughe travestite da esseri umani e protette da deregulation e laissez-faire e… ‘te possino!’, l’icastica esclamazione dell’aspirante quando, in un annuncio, trova forse la richiesta più oscena, un canone che colpisce come una palla di cannone la sua pazienza. Esce dall’impasse con una mossa del cavallo ben nota a tanti inquilini in difficoltà economiche: trovare un immobile che costi poco perché abbia un handicap d’edilizia. Come un suo sfigato e sfrattato zio, l’anno scorso, ha acciuffato al volo un’alternativa accontentandosi d’una casa al quarto piano senza ascensore, così lui si fa piacere un tugurio, così brutto che forse molti non lo vorrebbero neppure gratis. Basti dire che, nel sopralluogo prima dell’accordo aumm aumm, il misterioso proprietario nemmeno vuole entrare. Insediatosi non vedendo l’ora di conoscerne ogni angolo, l’affittuario fa un sacco di scoperte nella prima esplorazione. Trova, per esempio, una grande pentola al centro, si imbatte in un rospo a cui lui dà il nome ‘Giovanni’, scopre, su documenti avvolti nel mistero, che la catapecchia si chiama ‘Capanna della ribellione’ (‘Shed of Rebellion’), e che il pentolone è strumento di un”Illegale produzione di Luce’. Musica per le sue orecchie. Un ragazzo che voglia sublimarsi in res gesta sperimentali non può che eccitarsi innanzi alla possibilità di produrre watt d’una Light Progressista. Solo due problemi. Il primo, cioè il non sapere in che senso questa genesi sia illecita, è una quisquilia (se si dica alla gioventù che un atto è proibito, nove volte su dieci le piace il doppio). Il secondo, invece, è un drammatico fascio di note dolenti: questa manifattura disturba molto un pericoloso mostro, il drago ‘Moloch’, una sorta di cattivo agente di reazionaria arretratezza, un bastardo che odia il Progresso. Chi ha scritto questa info ha evidentemente voluto mettere in guardia chiunque voglia usare quel pozzo indoor, ma Giacinto, inutile pure scriverlo, se ne frega. Si è mai visto un baldanzoso giovane che, tutto preso da un suo dionisiaco e romantico sogno, dia retta a chi eventualmente gli dica che la sua coltivazione è pericolosa? No. E allora il Nostro, che rinomina la ‘Shed’, battezzandola ‘Box della Ribellione’, si butta a capofitto nell’uso della pentola. E lui, il drago, arriva, Cinto essendo esattamente come colui che avendo voluto una bicicletta, nel noto detto, ha poi da pedalare. Il novello, prometeico Archimede Pitagorico, audace ma non fino ad essere fesso, vedendolo mentre, ancora un po’ lontano, si avvicina minaccioso, è costretto a piantare baracca e burattini, e darsela a gambe levate, prima che l’infernale avversario della luce arrivi. L’eroe in fuga non si dimentica di salutare Giovanni. Inizia un mezzo esilio, ma l’appuntamento con la gloria è solo rinviato, lui non si arrende, tale e quale al suo indiretto Maestro Steve Jobs, il quale, quando, ancora non affermato, chiese un prestito a un industriale e ne ricevette un due di picche, non si scoraggiò e andò avanti per la propria strada.

* * *

   Adesso, avendo perso l’agognato alloggio professionale, deve ricominciare, a livello immobiliare, dal cerchio d’uno zero, e non deve voler bruciare le tappe. Mantra: step by step. Giacinto non si fa illusioni: per trovare una seconda sede, anche di modesto valore, dovrà pagare un affitto che, se gli vada bene, sarà triplo rispetto a quello che s’è lasciato alle spalle. Meno male che, nell’esercitare il mestiere d’operaio nella ‘Fabbrica del Verde’, può, con il sudore della fronte, permettersi questo obiettivo, con i proventi del suo job green. La ricerca dura solo -o addirittura: dipende dai punti di vista- una settimana -di giorni lavorativi, da un lunedì a mezzogiorno di sabato-. Il Monday successivo firma un regolare contratto di locazione afferente un immobile davvero bello. Uno studio di gran lunga superiore alla fatiscente capanna, non proprio da mille e una notte, come la reggia ch’egli ha visto, il mese scorso, su una rivista specializzata -il sibaritico ufficio, in quel di New York, di un top manager d’una multinazionale notissima a livello planetario-, però, pur con i suoi limiti, meritevole di essere definito una residenza di tutto rispetto.
   Uno dei suoi punti di forza è la notevole estensione. Tanti bei metri quadrati, superficie che consente al baldanzoso inquilino di non dover fare una cernita delle tante cose che vuole trasferire fra le sue pareti. Vanno tutte, dalla prima all’ultima, e questo dato lo rallegra soprattutto per un motivo: può portarsi dietro tutti i suoi amati libri, anche perché un altro suo pregio è la totale assenza di umidità. Nella ‘Shed’ aveva preferito trasferire solo una minima parte della sua vasta biblioteca, terrorizzato dall’idea che in quell’atmosfera -che puzza di mucido!- tanti suoi capolavori potessero danneggiarsi alla lunga. Nella nuova maison, invece, no problem! È tutta un’altra musica, c’è spazio per tomi à gogo. E lui ne approfitta, dando, a trasportatori che lavorano in nero, senza nessuna prova provata del loro guadagno, il compito di traslocare al suo interno migliaia e migliaia di volumi. E questo capace bureau ha pure un altro splendido punto di forza -last but not least-: un tromp-l’oeil sul tetto, dov’è stato dipinto un fantastico cielo. Una volta suggestiva, ritratta presumibilmente durante un tramonto, attese certe tonalità tipicamente crepuscolari, e con nuvole sparpagliate qua e là, probabilmente rampollate dal desiderio, nel pittore, di attribuire al dipinto un pizzico d’inquietudine elevata.
   Giacinto è in brodo di giuggiole, sprizza euforia da tutti i pori. Arriva finanche, quando lui stesso trasporta nell’house l’ultimo dei suoi libri -a parte quelli che ha studiato a scuola, pubblicazioni che restano nella sua cameretta-, a esclamare “hip, hip, hip, hurrà!”, con un trasporto infantile ed epico al tempo stesso. Si apre, nella sua evoluzione biografica, una nuova era. La mattina in fabbrica -ha un’occupazione part time, nella prospettiva di un aumento delle ore lavorative e di una promozione del contratto, ora a tempo determinato, in indeterminato, se tutto vada bene-. Dopo, ultimato il suo gaio turno, atto a regalare alla Via Lattea nuove foglie, si dedica, nel delizioso ufficio privato, a spremersi felicemente le meningi per porre in essere, prima o poi -lui spera prima di prima- una scoperta, un’invenzione, magari addirittura una filosofia, eureka!, in grado di cambiare in meglio le sorti del pianeta Terra. La speranza non costa nulla, se non il rischio d’una delusione qualora qualcosa, nella speme stessa, non vada per il verso giusto, ma, fino a prova contraria, una delusione non arreca, a chi la patisca, nessun guidalesco paragonabile alle ferite cagionate da un coltello. Se pure Giacinto, che ha davvero alzato troppo l’asticella, chiedendo a se stesso un exploit forse impossibile, non taglierà il traguardo, poco male: il suo ricercare è già intrinsecamente un trovare, e gli fa onore, a prescindere da quale frutto riuscirà, alla fine della fiera, a vendemmiare. Fa bene, mentre lì dentro insegue la sua mezza chimera -mezza perché mai dire mai, magari farà davvero un miracolo-, ad avere la giuliva, effervescente sensazione di toccare il cielo con un dito. Fa invece male, un mercoledì a ora di cena, a credere, ripensando alla traumatica disavventura nella ribelle capanna, che non tutti i mali vengano per nuocere. L’errore, dovuto più che altro alla sua ingenuità, consiste nel sottovalutare Moloch. Il ragazzo è certo di averlo seminato, di essersi lasciato alle spalle ‘sto demone. Non sa che esso supera gli elefanti africani in potenza dell’olfatto e i delfini tursiopi in capacità mnemonica.
   Nel primo periodo di locazione quasi se ne dimentica, e pensa a godersi l’immobile. Il nuovo ufficio ha un solo difetto a livello strutturale e architettonico: un avvallamento, a guisa di U, nella sezione centrale del pavimento. Una specie di canyon, e l’inquilino, che non gli ha dato peso nel prenderne atto, derubricandone la negatività a stravagante tocco di scomoda originalità, non ha la più pallida idea del suo perché. L’agente immobiliare, durante la preliminare visita, non gli ha svelato la ragione di quella ‘trincea’, facendo finta di niente, e lui non gli ha chiesto nulla, forse per timidezza. No problem, certo, lui non è tipo da fare un dramma per un difettuccio, però, com’è ovvio, ha provato e prova curiosità, si chiede come mai, all’epoca dell’erezione della casa, il costruttore abbia voluto caratterizzarla con una così stravagante imperfezione. Dal punto di vista pratico e funzionale il giovane, per evitare ogni volta uno sforzo atletico per scendere in fondo, nel meridionale corridoio, e risalire successivamente -una volta non fa niente, ma alla lunga ‘sto saliscendi può logorare, o comunque stancare l’organismo-, ha preso la decisione di mettere, come gradini, dei blocchi di cemento, chiedendoli in prestito a un suo amico muratore. Il pioniere, che in questa residenza si sta dedicando a un’inedita tipologia di studi, tollera con dolcezza il dislivello nel pavimento, anzi a tratti sorride e quasi si diverte, pensando che se si gira il mondo intero forse in nessun’altra abitazione si riscontra una cosa del genere. Ieri ha pensato ‘ma tutte a me devono capitare!’, guardando giù, mentre stava uscendo dalla toilette e istintivamente ha guardato nel fondo della ‘U’, ma l’esclamazione non era affatto sintomatica di incazzatura e stress, anzi denotava, appunto, un pizzico di comicità.
   In questa avventura il suo problema numero uno è un altro, e si chiama appunto Moloch, il mostro ch’egli crede, sbagliando, d’essersi lasciato alle spalle. Esso seguita a dargli la caccia, sia perché Giacinto, che si spezza ma non si piega, continua a inseguire il sogno d’una scoperta che faccia fare alla civiltà un enorme passo in avanti -e il drago esecra ogni forma di progresso- e sia perché le narici della bestia, pur a distanza, hanno un po’ percepito il suo odore. Quel satanasso ha un fiuto megagalattico e una memoria record. Cattivo in modo seriale e recidivo, prodigioso nel seguire una traccia olfattiva, si sta avvicinando -dopo essere stato fregato dalla preda quand’essa era nella ‘Capanna della Ribellione’- pure a questo suo secondo indirizzo, attirato, appunto, anche dal fatto che l’uomo continua a voler andare avanti a livello scientifico. Giacinto medita e scrive e fa calcoli, e lui, usando le sue froge come bussola e radar, gli si appropinqua gradatamente. Gli occorrono circa sei giorni per arrivare a mezzo chilometro dal boy. E stavolta, purtroppo per l’inquilino, non c’è un treno a distrarlo. Il drammatico conto alla rovescia ormai è iniziato. Moloch percepisce viepiù l’afrore ch’emana dal suo umano bersaglio, e soprattutto la terribile puzza scaturita dal suo geniale pensiero. Non vede l’ora di aggredirlo, di fargli pagare il fio del suo slancio prometeico, di cibarsi di questo inventore da strapazzo, che non la smette, con la sua pretenziosa attività cerebrale, di dargli fastidio. Il predatore è a un tiro di schioppo, spalanca le fauci, apre la sua titanica bocca, e proprio quand’è in procinto di sferrare l’attacco, in questo feroce redde rationem con colui che poco tempo fa ha osato seminarlo nel buio, succede un evento incredibile. Il fragile, vulnerabile essere umano, alla mercé d’un nemico troppo più forte di lui, inerme di fronte alla sua empia brama di mordere, con forza spaventosa, tutta la sua casa, fino a distruggere, in un cruento nichilismo, il materiale ed edile contenitore e il vivente e pensante contenuto, è miracolosamente aiutato da un fattore quasi metafisico, il ‘Wind of History’.

‘WIND OF HISTORY’ (‘WIATR HISTORII’), BY JACEK YERKA

   In realtà, anche se si scrive e pronuncia ‘Vento’, nella traduzione in italiano, di fatto equivale, quanto a nodi e intensità, a una tramontana moltiplicata per cento. Un tornado tanto buono quanto potente. Meno male che, nel suo provvidenziale illuminismo, è dalla parte di Giacinto. E infatti arriva, soffia, infuria, più irruento di un maelstrom, per fargli un favore. Quando il drago sta per azzannare l’obiettivo, pronto a chiudere la bocca e stritolarlo, ‘Wind’ spinge l’house con un’intensità da Guinnes dei Primati, tutelandola dal pericolo di diventare tragicamente un boccone nel perverso menu di quel belzebù. L’animale si fa addirittura male, come una persona che, in un allucinato miraggio, credendo di vedere un panino dia un potente morso e, siccome il cibo in effetti non c’è, gridi ‘ahi!’ quando i denti settentrionali sbattono contro quelli meridionali. Ancora una volta, in questa sadica caccia, che somiglia allo squilibrato match ‘gatto-topo’, ma con un indice di sproporzione (fra cacciatore e preda) di gran lunga più elevato, all’orco va male. Credeva, con l’acquolina in bocca, che l’intelligenza di Giacinto fosse lì lì per finire nel suo stomaco, dava per scontato, essendo ormai il suo ufficio tra le affilate zanne, che quell’Archimede con grilli per la testa stesse per fare la fine che si meritava, e invece l’etico e teoretico Vento della Storia l’ha alienato da sé, facendogli un umiliante dispetto, anzi uno sgarro vero e proprio. Ovviamente questo salvataggio ha un costo, non è indolore. Si può facilmente immaginare, infatti, che soqquadro all’interno cagioni il fortissimo spostamento.

‘INK VALLEY’, BY YACEK YERKA

   Un effetto simile a quello di un terremoto. Giacinto, poveretto, è bravo a non finire nel pozzetto, giù giù, ma non può evitare di sbattere la testa contro una parete, buscandosi diversi bernoccoli e lividi. Dalle tante scaffalature cadono moltissimi libri, con un conseguente e pazzesco casino. E, forse il danno potenzialmente più grave, alcune tubature si spaccano. Ne fuoriesce acqua, una quantità torrentizia, e a questo punto ciò che sembra un palese difetto, il décalage fra parti del pavimento, diventa un sistema difensivo, nel senso che tutta la copiosa H2O finisce nel cratere, evitando di sommergere il ragazzo e i suoi libri, e diventando un fiumiciattolo interno. Talmente carino che, nonostante la drammaticità del momento, induce il conduttore a un breve momento ludico, egli divertendosi a fare barchette di carta, con fogli che aveva su una scrivania, per poi metterle sul pelo del river e assistere, come un discolo bambino, al loro simpatico galleggiamento. Un gioco, è ovvio, che dura un amen. È chiaro che l’uomo, dopo la tremenda scossa, prima s’è chiesto quale potesse essere il grado della scala Mercalli, poi ha simulato di essere un armatore, ma si rende conto che non è il caso di indugiare troppo nel cazzeggiare con quelle minuscole navi, ergo decide di guadagnare la via d’uscita, temendo l’arrivo di altri moti sussultori e ondulatori. Non appena mette i piedi fuori, alquanto allarmato, subito pensa, intravedendo Moloch in lontananza, che sia lui la causa di quel quarantotto. Un’illazione vera e falsa al tempo stesso. La causa del trauma non è un terremoto, ma nemmeno il drago. Probabilmente il giovane non saprà mai che deve la sua incolumità a un Vento buono, amante dell’evoluzione di tutta la civiltà. È stato quel Wind a sottrarlo a una triste fine, soccorrendolo e non potendo fare a meno, in questo supporto, di strapazzare quell’immobile. Si è verificato un evento che, pur potendo apparire un male minore, merita tuttavia, al netto degli inevitabili danni, di essere reputato tout court una gran bella forma di Bene.
   Grazie alla provvidenziale protezione del nobile Vento, che spingendo il suo ufficio lo ha fatto esorbitare dal morso del drago, Giacinto è scampato all’affamato attentato. Senza il ‘Wind of History’ l’appartamento sarebbe normalmente rimasto al suo posto e quindi avrebbe fatto una brutta fine, diventando pappa di quel bandolero. Fiuuu!, l’inquilino è sano e salvo per il rotto della cuffia, ma, purtroppo, non essendo al corrente dell’esatta dinamica dell’incidente, non è nella condizione di poter ringraziare chi l’ha amorevolmente sottratto a un tragico ‘The End’ di tutta la sua avventura. Non fa niente, il Vento non è intervenuto per avere in cambio il suo grazie. Nel suo appoggio c’è stato un idem sentire tra la Mission a cui anela toto corde il protagonista, voglioso di lasciare il segno e contribuire eroicamente a una trionfale evoluzione della società, e l’intrinseco senso della Storia stessa, una Forza che per definizione s’impernia su un sempiterno sviluppo, sempre in fieri, della Luce e del Bene.
Il drago, invece, è una perfetta, maledetta antitesi a quell’asintotico avanzamento. Esso sta male se la cultura sta bene, soffre quando l’umanità progredisce, va avanti, si nutre delle sue battute d’arresto, delle crisi della ragione, in modo malvagio e meschino. Laido gigante, lurido agente di abietto regresso, pezzo di male, collega di animali come avvoltoi e sciacalli -il paragone, va da sé, vale con qualche caveat, ché nell’analogia è d’uopo mutare le cose che vanno mutate-. Non sa piangere, dai suoi occhi, così almeno pare, non è mai uscita una lacrima, però gli preme moltissimo bloccare il Progresso, ché ogni suo passo in avanti lo getta comunque nello sconforto, anche se in esso nulla cambia nel suo volto. Spesso vince, ma stavolta no, gli è andata male. Quando ha chiuso la bocca e dentro, in mezzo ai denti e sotto il palato, v’era solo aria, l’house del ragazzo trovandosi beffardamente a una notevole distanza, non solo s’è rammaricato profondamente, per una waterloo che non s’aspettava, ma ha pure fatto una figuraccia, la sua reputazione di predatore perdendo molti punti nel giro di qualche secondo.
   Va però aggiunto che Giacinto solo per modo di dire ha vinto. Lui ha pensato ‘l’ho sfangata, oggi è il mio giorno fortunato’, ma nel momento stesso in cui nella sua interiorità ha elaborato questa considerazione s’è contestualmente reso conto, guardandosi intorno, che c’era ben poco da festeggiare. Dentro, fra le mura del suo laboratorio, un casino pazzesco, un ambaradan senza precedenti nella sua biografia, un caos apocalittico. Migliaia di libri rovinosamente caduti dalle scaffalature -fortunatamente rimaste illese, in una magra consolazione del tapino padrone e studioso-, con quell’innaturale fiume, sovrastato dalla teoria di barchette in un contrasto tragicomico, intento a fluire in mezzo, passando sotto una scrivania che, prima lì collocata dall’affittuario solo come colpo di scena estetico dell’arredamento, ora risultava, sigh, un malinconico ponte sotto un tetto di edilizia. Fuori lui, sempre lui, quel nemico schifoso e maramaldo, rotto a perseguitare un avversario di gran lunga inferiore, senza vergognarsi di questa sproporzione. Il giovane è sulle spine, gli scotta il terreno sotto i piedi: quando, poco dopo aver messo il naso fuori, se n’è accorto, intravedendolo a distanza, è rientrato istintivamente, e sta ancora dentro, tappato nel locale, però sa bene che se non scappa è in trappola, il suo destino è segnato. Obtorto collo prepara in fretta e furia qualche bagaglio e, dopo aver spiato da una finestra, per essere certo che Moloch sia ancora a distanza di sicurezza, apre la porta d’ingresso, si gira verso i libri, salutandoli e dicendogli idealmente che questo congedo è solo un arrivederci, e fugge, correndo come un razzo.
Vaga senza una meta, pensando a quale possa essere una seconda alternativa alla ‘Capanna della Ribellione’. Bene che gli vada sarà comunque un altro surrogato, un ricovero a cui adattarsi, e/ma il problema maggiore, in questa novella odissea, è un timore ch’egli nutre avendo la sensazione che sia un’amara certezza: il drago se lo ritroverà alle calcagna se egli opti per un altro alloggio alla luce del sole. Se il talentuoso boy vuole continuare a volare alto nei suoi studi sperimentali, qual genio autodidatta che, in una residenza così così, escogiti un’impresa capace di stravolgere positivamente il fluire delle società -collega, dunque, di miti come HP, Apple, Google, Amazon e compagnia bella-, si deve parzialmente nascondere, per impedire a quella bestia di fiutarlo e rintracciarlo. Non solo questo aspetto muta nei suoi programmi. Il protagonista da molti punti di vista muta atteggiamento, in un working progress più che oculato. È infatti palesemente stolido un soggetto che metta nero su bianco, all’inizio di un’importante e delicata esperienza, una road map e poi pretenda ch’essa resti immutata nei secoli dei secoli. Un attore sociale ha da commisurarsi sempre, di volta in volta, alla situazione (in cui si trova), forgiata ovviamente anche da altri e anche da fattori del tutto indipendenti dalla sua volontà. Essa, pertanto, può in qualsiasi momento risultare parzialmente incoerente al primigenio brogliaccio, e appunto esigere ch’esso venga un po’ alterato, se l’eroe voglia davvero vincere la sua battaglia. Giacinto, quando ha iniziato a scimmiottare il duo all’opera nel leggendario garage Apple ignorava al mille per cento Moloch. La sua apparizione ha innescato, in un fastidiosissimo effetto domino, una sequela di accidenti che, su questo non ci piove, rendono adesso necessario un radicale mutamento dei piani. Il Fine resta, lassù, indefettibile e inconcusso, ma i mezzi per perseguirlo e conseguirlo abbisognano di un profondo restyling.
   Anzi, a dirla tutta, la stessa Meta va leggermente ritoccata, non nella sua intrinseca inseità, per carità!, mai sia, ma nella temporalità in cui l’aspirante antesignano di un nuovo orizzonte culturale la insegua con opportuna ragionevolezza. Giacinto, che ha pur sempre sul collo la testa in e con cui vuole innovare il mondo, ormai riesce a comprendere che l’impresa in cui s’è coraggiosamente e poeticamente tuffato, gettando il cuore oltre la siepe, deve essere tentata entro e non oltre una determinata data. Il sogno non può durare all’infinito, anche perché ci sono questioni terra terra come le bollette da pagare, nella promozione di un’avventizia fonte di reddito a cespite eterno, per potersi sistemare e non apparire ai vicini un pirla che insegue, zuzzurellone, aquiloni e farfalle. Il fan dell”Apple garage’ prende una solenne decisione: o lo emula entro qualche settimana, al massimo qualche mese, oppure rinuncia all’utopia, e con le pive nel sacco se ne ritorna mogio mogio nell’aurea mediocritas in cui tanti suoi amici stanno bene, anzi benone, come topi in un magazzino di ghiotti formaggi. Si dà un termine, il suo Dream, come ogni pacco dei suoi biscotti preferiti, ha una data di scadenza -sia pur attenuata, in modo vagamente paraculo, dall’avverbio ‘preferibilmente’-. Questa la generale cornice in cui egli inquadra la sua suddetta intenzione di trovare un nuovo rifugio ma optando stavolta per una soluzione segreta, possibilmente sotterranea, magari fuori mano, in capo al mondo, per stornare a priori il rischio che le froge del drago, precise quasi come e quanto Google Maps, lo rintraccino ancora una volta.
   Il ragazzo si allontana dal suo studio in uno stato d’animo inclusivo di pulsioni ed emozioni eterogenee. Un melting pot che non ha mai ospitato prima, tant’è che nemmeno lui sa come esattamente si sente. È arrabbiato, perché il nemico lo bracca e non gli dà tregua, costringendolo a un secondo, convulso trasloco, e lo odia con tutte le sue forze, prova per quel cattivo gigante un’idiosincrasia mai albeggiata in precedenza nella sua interiorità. Malinconico, anche perché tutti quei libri per terra, dopo che lui li aveva ordinati con precisione maniacale e amorevole sulle scaffalature, simboleggiano in modo vago l’interruzione, traumatica e patologica, di un’armonia umanistica, l’irruzione, nel suo cammino, di un’emergenza choc. È altresì deluso, dato che inizia a sospettare che la sua Meta, ossia il progetto di mettere al mondo una nuovissima scena di pensiero, porti leggermente sfortuna in senso metafisico. Questo suo timore, va da sé, è un po’ superstizioso, tuttavia, a parte il fatto che ognuno a casa propria, cioè nel proprio cervello, è libero di avere le credenze che più gli piacciano, secondo lui la cultura lo autorizza, con Icaro o Prometeo, a pensare che un uomo che voglia elevarsi a superman, senza limitarsi a una normale sete di sapere, possa andare incontro a strane vicissitudini. Comunque nel suo attuale mood questa inquietudine gioca un ruolo molto limitato, egli essendo, al netto di qualche esaltazione pseudomitologica, un soggetto sostanzialmente razionale. Pesante è invece, nella sua ferita attualità, la preoccupazione inerente all’alternativa ch’egli deve assolutamente trovare se voglia fregare il drago. Ha da nascondersi, inficiandone la capacità di ostinato e performante segugio: o.k., su questo non ci piove, però dove trovare un posto a prova di suo inseguimento? Vattelappesca! Solo un sardanapalo, come il boss di Amazon, può permettersi un bunker su misura, stracolmo di domotica, a quattro chilometri sotto il livello del mare, o nelle viscere della Terra, con un ascensore che vada su e giù con la stessa velocità d’una navicella spaziale. Il povero, tapino, sfigato Giacinto con quel paperone, che ha rivoluzionato la sfera del commercio internazionale, ha in comune solo la passione per il concetto di garage. Per il resto i due sono distanti anni luce, perché mettendo insieme tutti i risparmi del pischello si ottiene un gruzzolo che quel boss reputerebbe troppo basso per poter fungere da mancia a un cameriere in un ristorante. Giacinto è ricco solo di poesia, ma dal punto di vista finanziario è solo un attore sociale squattrinato. Mentre cammina, comunque, si esorta a non mollare, si sprona a cercare comunque, almeno nei voli del suo volenteroso pensiero, questo altrove. Inutile mettere il carro davanti ai buoi, magari riesce a trovarlo pur con i pochi soldi che gli consente il suo lavoro nella fabbrica che produce Verde. Si ferma, si accomoda su una panchina, in un parco pubblico, nei paraggi di un palazzo, soprannominato, non solo in questo rione, ‘Block’.

‘THERE IS PEACE IN THE BLOCK’ (‘SPOKOJ PANUJE W BLOKU’), BY YACEK YERKA

   Lì, al penultimo piano, abita Paolo, che non vede da molto tempo. In passato, quando erano poco più che bambini, si frequentavano assiduamente, giocavano insieme, andavano molto d’accordo, poi, dal liceo in poi, la solfa è cambiata, ma comunque il diradamento materiale dei rapporti non ha mai spento la fiammella dell’amicizia. Osserva l’edificio e pian pianino si fa strada nel suo animo il desiderio di rivedere il compagno di tante bravate. Detto fatto: citofona, “Sì, chi è?”, “Ciao, Paolo, sono Giacinto”, “Ehi, Cinto, che sorpresa! Sali!” e su, dopo baci e pacche e abbracci, e fra abbozzi d’un cameratesco amarcord, si può facilmente immaginare come il padrone di casa ‘pretenda’ che l’ospite resti a cena, “non transigo, vietato declinare, se no m’incazzo e ti meno”. E così sia. Giacinto trascorre ore serene, anche perché l’anfitrione -a cena gli offre di tutto e di più- gli fa pure fare un mezzo tour nello stabile, per presentargli una dozzina di simpatici tipi, che per lui sono molto più che meri vicini di casa. Nel condominio aleggia una bella atmosfera -tant’è che Paolo ha fondato, insieme ad alcuni di loro, una fanzine, ‘Lotta senza Quartier Caporale’, di stampo satirico-, si respira un clima di concordia, che viene positivamente percepita dallo stesso Giacinto. Il quale, quando, dopo una partitella a carte nella fase postprandiale, si ritira nella camera messa a sua disposizione dal padrone, e riprende, poco prima di addormentarsi, la sua riflessione sul da farsi, forse deve proprio al relax interiore regalatogli dalla pace nel casermone, che ha domato catarticamente ogni sua mezza ansia, il baluginare d’una soluzione facile facile. Non subito, è ovvio.
   Nei primi minuti non cava un ragno dal buco. Inizia a scervellarsi, vuole a tutti i costi farsi venire un’idea vincente, e per un quarto d’ora la sua mente è uno sterile guazzabuglio di ipotesi campate in aria, un tourbillon di illazioni senza né arte né parte. La fantasia è bella, anzi bellissima, ma certe volte, come strumento per risolvere problemi, fa un buco nell’acqua. Quando il viandante è a un passo dal gettare la spugna, aggiogato da un frustrante senso di loffia impotenza -ma, appunto, senza mai perdere una calma olimpica-, gli balugina, wow!, la via d’uscita. E che soluzione! ‘È vero, sorbole!, come ho fatto a non ricordarmene prima?’, pensa tra sé e sé, mentre si frega le mani, convinto di aver scacciato, con una pedata magnifica, lo spauracchio d’una Crisi con la maiuscola. Improvvisamente gli è balenata l’immagine di un territorio di sua proprietà. Nulla d’importante su un piano economico, e infatti solo una volta, tanto tempo fa, vi ha portato una ragazza, una bionda a cui faceva in quel periodo il filo, nella speranza che i suoi asset di successo nel corteggiamento potessero lievitare, e la fata, una nolimetangere con la puzza sotto il naso, è rimasta del tutto indifferente, anzi per un pelo non gli ha riso in faccia. Lo ha guardato con un’espressione intermedia tra perplessità e indifferenza e nausea, quasi volendogli comunicare ‘Tutto qui?’. Un’umiliazione che il suo animo ha stentato a metabolizzare e smaltire. Forse strada facendo, dopo quella figura barbina, ha finito con l’obliare quel podere in un processo di rimozione, avvertendo disagio in un ricordo che, per libere associazioni, implicava la memoria di quel volto così sprezzante. Adesso quel paio di ettari si trasforma, si nobilita, come un brutto anatroccolo che diventi cigno, o un rospo assurga allo status di principe.
Esso ha, nel proprio ombelico, fra sette alberi, un’area che rappresenta il tetto di una rustica costruzione, ‘Subconscious Tower’…

‘SUBCONSCIOUS TOWER’ (‘WIEZA PODSWIADOMOSCI’), BY YACEK YERKA

Walter Galasso