UN PEDONE  ‘PEONE’  IN TURBE E UNA TURBOPIETAS  [Bozzetto 1;  Comune: Roma]

DI WALTER GALASSO

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   Su un marciapiede al lato di Via Radicofani, a Roma, in zona Fidene, passeggia come un automa un curioso personaggio, il signor Geppo Pataliota. In questo suo moto en plein air pare affetto da turbe nevrotiche. Lo sguardo è allucinato, la cera sintomatica di una brutta alienazione, lo stesso look denota qualcosa che non va a livello psicologico. Calpesta suolo, solo soletto, in una deambulazione ossessiva. Tanti anni fa, ai tempi in cui Berta filava, egli era solito spostarsi in città con il cavallo di San Francesco per un motivo sano e addirittura gagliardo, cioè per fare sport all’aria aperta, per tenersi in costante allenamento, giovando alla sua silhouette, a valenti istanze di performante fitness, allo smalto dell’apparenza fisica, eccetera. Altri tempi. Adesso ogni sua promenade è solo un’ammorbata coazione a ripetere, perché, per cause in fase di accertamento -da parte dello psicanalista che lo ha in cura-, questo perdente sprofonda in angoscia se non faccia così. Addirittura la sua psiche, mentre egli cammina in mezzo agli altri, ha bisogno di contare, con maniacale acribia, i passi. Se, in un eccezionale ed effimero ritorno alla e della normalità, si dimenticasse di effettuare questa strampalata operazione, limitandosi a una marcia non accompagnata da siffatta matematica interiore, dopo un po’ sarebbe azzannato dal panico, avrebbe quasi la sensazione di un grave soqquadro nella sua interiorità. Si sentirebbe nel mezzo di un pazzesco maelstrom, in balia di cattivi flussi ondivaghi, spaesato nell’universo mondo, naufrago alla mercé di un infinito oceano, astronauta uscito dalla sua navicella, per fare quattro passi nello Spazio, e non più in grado di rientrare nel veicolo. ‘Sto ‘pirla’ -è stato apostrofato così, fino a ieri, trentuno volte-  ha qualche problema, va da sé, e purtroppo molti suoi concittadini, al corrente del suo squilibrio mentale, non gli regalano pietà e compassione, sovente alle sue spalle lo prendono per i fondelli, si sbellicano dalle risate nel vedere questo ‘minchione’ -da loro reputato una sorta di scemo del villaggio- così schiavo di se stesso. Talvolta è stato definito ‘un tipo da neuro’. Ironia della sorte: è un ‘camminatore’ anche a livello lavorativo, essendo un usciere, in un ufficio amministrativo, incaricato di portare documenti da una stanza all’altra. Forse affonda le radici in una sua frustrazione professionale il suo disagio. È affetto da manie come un pedone ‘peone’.
   Arriva in Piazza dei Vocazionisti, rasentando la bianca statua di don Giustino Maria Russolillo, un’opera, di Alvaro Passeri, apparsa anni fa, anche in Internet, con una maschera antigas e un enorme ‘Arbre Magique’: iniziativa di ambientalisti che, in un engagement vivace, volevano sferrare un sarcastico j’accuse versus l’inquinamento di un impianto di Trattamento Meccanico Biologico, il TMB Salario.

   Geppo non ne ha mai saputo nulla. In quel periodo passeggiava altrove, e già allora seguiva poco i mass media. Anzi, a dirla tutta, se anche gli fosse capitato di transitare in questa square nell’arco cronologico di quel travestimento -una sorta di fermo immagine di un flash mob surreale-, probabilmente non se ne sarebbe neppure accorto, perché quando è immerso in una patologica camminata, come qui ed ora, il suo Io è concentrato sull’interiore inferno che lo attanaglia invisibilmente. La sua lucidità geografica spesso si limita alla volontà di arrivare fino a un preciso punto, ch’egli, all’inizio della scarpinata, abbia eletto a Meta, da raggiungere assolutamente, senza se e senza ma, altrimenti si sente nel mezzo di un insuccesso pesante, un fallimento brutto e cattivo, un non senso nella sua giornata.
   Oggi, per esempio, nella sua implicita e assurda ‘road map’, per così dire, ha da viaggiare fino al Parco Stefano Di Bonaventura. Su questo non transige. Poi, se si allunghi fino al Parco Angelo Musco, in zona Serpentara, tanto di guadagnato, mette a segno addirittura un exploit -e nell’occasione vede come sta il campo di basket e se il Municipio ha rifatto il playground-, però l’uomo è buono con se stesso, questo extra non è d’obbligo. Il minimo sindacale del suo ‘dovere’ è la prima oasi verde: già lì potrà fare dietrofront, per ritornare in Via San Gennaro, dove risiede.
   In questo momento Geppo, in procinto di emigrare da un lato della strada all’altro, mentre sul suo asfalto impazza un traffico in tilt, sembra turbato dall’ambaradan di vetture. Le guarda con uno strano terrore, come se esse siano armi di un nemico puntate contro, pronte a fare fuoco, bang bang!, ad attentare alla sua incolumità. Nella sua precaria, ridicola soggettività è affetto da insecuritas, abbisogna in modo spasmodico di un usbergo, gli altri gli incutono paura, e una parte di sé vorrebbe tanto urlare, lanciare un SOS a qualche Übermensch in grado, dall’alto dei suoi poteri speciali, di proteggerlo. L’autista d’una berlina suona ripetutamente il clacson, contro un altro automobilista che, davanti a lui, procede lemme lemme: mister Pataliota, percependolo in un drammatico sussulto, va in crisi. Quel rumore ha cagionato nella sua fragile psiche un assurdo guidalesco. Ha funto, come aggressivo condizionamento ‘esogeno’, da input di un’agitazione elettrica, capace di gettarlo nello sconforto, di farlo sentire un inerme verme, debolissimo e con scadente dignità.
   Dire che questo cittadino sia esaurito è dir poco. Intorno un passante, Peppe -un impiegato oggi a spasso in una parentesi di tempo libero-, nota la fifa blu dipinta sul suo volto, le pupille perse nel vuoto, l’espressione di chi è lì lì per scoppiare in un ‘pianto a secco’: il testimone, invece di dispiacersi per la crisi di quell’estraneo, con crudeltà lo sfotte. Questo stronzo, ben poco pio e colto, nel prenderlo in giro, nel dileggiarlo per le sue palesi paturnie, si bea della propria normalità, del décalage, in termini di rendimento mentale, fra la propria, sana intelligenza e la penosa demenza di quel matto. Il quale, in certo senso, gli serve e giova come negativo contraltare alla propria salute psicologica. Un cinico, sadico, maledetto atteggiamento che, rampollando innanzitutto da una sua personalissima cattiveria, è al tempo stesso una spia d’un vizio della parte meno solidale della società. Una giungla dove vige la legge del più forte, v’è uno scarso welfare a beneficio dei soggetti più svantaggiati. Molti attori sociali, rispetto alla débâcle umanitaria di questi deboli, se ne impipano allegramente, lasciano che siano le loro sofferenze morali e psichiche, nell’alveo di una gelida Indifferenza.
   Ovviamente non è il caso di generalizzare, di fare di tutte le erbe un fascio. Abbiamo stigmatizzato un dato tendenziale, ma non mancano certo le eccezioni. In questo momento, verbigrazia, esce da un palazzo, ubicato in Via Eugenio Montale, il dottor Alviro Efelide, un intellettuale molto sensibile poeticamente, un galantuomo che, fra le sue tante virtù, ha anche un altruismo simile a un eroico donchisciottismo. Egli ha sempre dimostrato di possedere, sin dai tempi in cui era un guaglione liceale, un altissimo tasso di solidarietà verso i deboli. Se ne veda uno non resta insensibile alla sua precarietà. Prova subito una compassione scria scria, il desiderio di poter fare qualcosa pro lui, e in cuor suo gli augura un pronto riscatto, ogni bene, un futuro zeppo di gioie. Lui crede che giochi un ruolo cardinale in questa sua forma mentis il suo tradizionale engagement politico. Questo pozzo di carità, infatti, è un sessantottino, un uomo di sinistra, un trinariciuto propugnacolo di valori della gauche. Ha pure partecipato a un Premio Letterario Poetico con l’opera ‘Il Maggio francese’ -purtroppo arrivando penultimo-. Nella sua rossa ‘Eurovisione del mondo’ un concittadino emarginato è un ‘fratello’ a cui bisogna prestare soccorso, una vittima (di scalogna) meritevole di essere protetta da chi nello Stato se la passi meglio. Per lui l’egoismo è una lue dell’onore, un viziaccio, accio davvero, da cui un gentleman, noblesse oblige, deve restare sempre alieno. Sua moglie, che vota diversamente, pensa invece che la sua dolce metà sia filantropica solo perché di buon cuore, e cita, a supporto di questa chiave di lettura, il fatto ch’egli, quando frequentava la scuola elementare, cioè quand’era ancora un pupo pre-politico, divideva sempre la propria merenda con la peste Giggi, compagno sì ma solo di banco -gliel’ha detto lui, una cinquantina di volte da quando si sono dati il primo bacio, solo per farle capire perché Giggi sia da sempre il suo migliore amico-. Comunque sia, Alviro è uno squisito pezzo di pane, dedito alla beneficenza, da sempre impegnato a favore di iloti -dai clochard allo sbaraglio a tapini falliti, facenti parte di un sottoproletariato urbano, lontani anni luce dall’opulento comfort delle classi più in-. Questo asso di generosità detesta chi, yuppie immerso nell’arrivismo egoistico, di fronte a un altro essere umano palesemente in difficoltà non muova un dito per promuoverne un’emancipazione da uno struggente disagio.
   Alviro, se la sua situazione economica fosse più felice, senza esitazioni erogherebbe cifre monstre in favore dei diseredati. Purtroppo non è un paperone, non nuota nell’oro, e nemmeno nell’argento -‘cogita (e rompe), ergo ha molti nemici…’-, né, a parte la normalità della sua locupletazione, è un campione di forza politica. Questi limiti gli impediscono di realizzare appieno la sua voglia di bonificare l’esistenza di soggetti come Geppo, ch’egli sta osservando con tanta pena nel cuore. Lo vede prigioniero di qualche misterioso trauma psichico, tragicamente smarrito in una solitudine sociale più fredda d’un frigorifero o una siberia, impossibilitato a evadere, magari con una mossa del cavallo, dall’invisibile e allegorica casa circondariale in cui è recluso. Vorrebbe tirarlo fuori da quella geenna, se avesse tanti milioni di euro sul conto corrente non ci penserebbe due volte: raggiungerebbe uno sportello ATM Bancomat al fine di prelevare tanti conquibus, per poi avvicinarsi al signor Pataliota e donarglieli, esortandolo a farsi una vacanza da mille e una notte, come meraviglioso antidoto al suo stress e, più in genere, alla défaillance del suo animo. Però…
   Però fa comunque un beau geste, davvero molto carino. Geppo, mentre attraversa in modo buffo, altamente spaesato, la strada, lo vede e prova uno zinzino di vergogna, in quella piccolissima luce in cui la sua razionalità è ancora in grado di capire che nel comportarsi così egli fa una figura barbina. Cerca di bluffare, chiedendo ad Alviro che ore siano. Vuole così far credere che ci sia un sensato motivo dietro il suo sguardo tesissimo. Chi dica una balla, si sa, deve tenere sotto controllo ad angolo giro tutta la sua situazione -‘sua’ = ‘della panzana’-, ogni dettaglio che le sia direttamente o indirettamente collegato, altrimenti la bugia ha le gambe corte. Il tapino Geppo, in questa farsa, non si rende conto che intorno a un suo polso c’è un orologio. Il signor Efelide lo nota con la coda dell’occhio, ma simula di non accorgersene, e gli risponde serio, anzi serissimo, perché dopo avergli detto “Le sette e dieci”, fa una precisazione, “Quasi. Per l’esattezza sono le sette e otto minuti”. Pignoleria? No, un escamotage per assecondarlo, per far pensare, a questo sfortunato fratello con il cognome diverso, che ha preso sul serio la sua ammalata domanda… Il camminatore nevrotico è stato soccorso da un microscopico bel gesto, un pedone in turbe ha incontrato una turbopietas.

Walter Galasso