DI WALTER GALASSO
Un esercente, Arnalo Torige, dopo anni di prosperosa bazza, di incassi da favola grazie alla sua sibaritica boutique di haute-couture, oggi, sigh, ne abbassa per l’ultima, definitiva volta la saracinesca. Pure lui, uno dei decani del commercio in questa via, alza bandiera bianca, va kappaò, messo al tappeto da una serie di scalognati fattori -da un recente aggravio fiscale, deliberato da abitanti, per lui assai stronzi, della stanza dei bottoni, a una iella monella-.
Questo personaggio, per carità, soggetto capace, all’uopo, d’una sana autocritica, recita il mea culpa ed è pronto ad ammettere che, almeno nel corso dell’anno corrente, ha sicuramente commesso qualche errore. Però, perdindirindina!, da qualche mese a questa parte la fortuna non lo ha aiutato. Ci mancava solo la simultanea apertura, in questo rione, di due esercizi simili al suo, dopo che il proprietario dei rispettivi locali, che per anni ha giurato sul proprio onore che li avrebbe voluti dare in affitto a banche e non a botteghe, ha cambiato idea. E così per questo notorio, tradizionale campione di cazzimma, che sin dai tempi in cui Berta filava è stato considerato, da queste parti, il commerciante per antonomasia, ha imboccato un tunnel da cui non è riuscito a evadere. E la scorsa settimana, con un invisibile groppo alla gola, ha deciso, prima che il patatrac peggiorasse e lui si ritrovasse in mezzo a debiti e usurai, di stoppare la sua attività, di decretarne il ‘The End’. La notizia s’è sparsa da tempo in questo spicchio di città. Boatos e rumors dei soliti bene informati hanno comunicato a molti ignari residenti che pure Arnalo, asso di denari, filone espertissimo nell’arte di intascare nummi à gogo, era giunto al capolinea.
Qualche suo aficionado, restando di princisbecco, ha interpretato questo tam tam come la becera circolazione di fake news. Gino, per esempio, un avvocato, un mezzo sardanapalo, la cui moglie ha comprato in quell’atelier un sacco di capi dernier cri, è arrivato, sentendo in una caffetteria un avventore mentre sosteneva che il signor Torige era lì lì per fallire, a investirlo di improperi. Lo ha esortato a non mettere in circolazione calunniose fanfaluche, probabilmente destituite di fondamento, frutto di frivolo gossip, e sicuramente lesive dell’eroica reputazione di quel Mercante con la maiuscola. Un j’accuse istintivo, rampollato dalla specie di affetto, in senso lato, che ormai prova per Arnalo, uno che non solo ha venduto alla sua signora tante chicche, ma l’ha pure e sempre instradata nelle sue scelte, come una persona che volesse il suo bene, non certo Cicero pro domo sua.
Destituite di fondamento? Magari! Le suddette voci di popolo erano purtroppo non vere: di più, verissime. Tant’è, appunto, che in questo momento il prestigioso bottegaio, paparazzato da due fotografi, appartenenti rispettivamente al ‘Corriere del Mediterraneo’ e ‘Tele Via Lattea’, chiude per sempre la sua amata creatura, ‘L’Olimpo della Moda’. Si gira verso un capannello di curiosi, testimoni oculari del brutto evento, e quando questi, all’unisono, iniziano a tributargli un commosso e commovente applauso, in segno di rispettosa stima eterna, scoppia a piangere, come un bambino che abbia comunicato ai genitori tot desiderata e non sia stato accontentato. Molte altre persone, oltre ai suindicati fan, si dispiacciono, il signor Guido Propilene, affacciato a un balcone al primo piano d’un vicino palazzo, quando vede quel mezzo mito in preda allo sconforto, aggredito anche da sberle di larvata malinconia, grida “Campione, ad maiora, si chiude una porta e si apre un portone!, sursum corda!”.
Non se ne frega niente, invece, anzi diciamo pure che sta quasi godendo, Cello Pino, il titolare di un avviato bistrot, ubicato nelle vicinanze. Fra i due da tempo non corre buon sangue, v’è ruggine, pare -anzi PARE, per evidenziare che in merito non v’è alcuna certezza assiomatica- per una storia, pruriginosa, d’una donna contesa. Loro, i diretti interessati, hanno sempre smentito categoricamente questa voce, forse per proteggere nel miglior modo possibile, a priori, la privacy della signora. Però la tabaccaia Gina Pulizia, una strepitosa e informatissima pettegola rionale, più sul pezzo del migliore giornalista del Corsera, li ha sempre confutati, non peritandosi di sostenere che i due galli sono stati lì lì, in più d’una circostanza, per sfidarsi nientepopodimeno che a duello, come usava un tempo. Vero o falso? Esatta info o leggenda metropolitana? Vattelappesca la risposta esatta. Può pure darsi che la loro rivalità sia non in amore ma in un match denominato ‘leadership nella street’. Anche Cello, infatti, nel suo settore è sempre stato un mandrake. Il suo ‘Ambrosia dei Vincenti’, infatti, è un celebre ritrovo di mandarini indigeni. Otto ottimati di questo Comune su dieci, infatti, lo amano, quasi con idolatria feticistica. Si radunano ogni tanto, per non dire spesso, nel locale di questo imprenditore, magari nel bellissimo dehors, ridendo e scherzando e, fra una barzelletta spinta e una ridanciana gara di rutti, parlano di politica o di sport o di finanza, citano qualche dotto wellerismo, qualcuno si vanta di una scappatella con una donna più giovane -e solo i tavoli del locale non credono che dica balle, ma solo perché i mobili ancora non sanno pensare-, eccetera. L’esercizio è stracult, calamita vip, è una tappa obbligata per i borghesi che in questo capoluogo contano o aspirano a contare. Per conseguenza il dottor Pino -sì, ha conseguito in gioventù il massimo titolo di studio, anche se poi, per un’eterogenea serie di motivi, ha bruciato la sua laurea in Giurisprudenza- è un boss di questa strada, la mitica Via Garibaldi, topica arteria urbanistica. Idem Arnalo, sia pur in una branca del tutto diversa.
Senza dubbio dei parigrado possono coabitare, su un ampio piedistallo c’è posto anche per un duo, ma chi, in un’eventuale tenzone fra giganti, avrebbe potuto assurgere al ruolo di ‘primus inter pares’? Una bella gara, impossibile che potesse diventare un walk-over, bravo e carismatico l’uno, carismatico e bravo l’altro. Da questa situazione, nessuno dei due essendo disposto a rispettare l’antagonista come un gentleman ricco di fair play, è scaturito un elettrico attrito fra le due polarità. Entrambi fuoriclasse tre punto zero, ognuno rispettato e riverito da un battaglione di ultrà, molto noti in città, titolari di un ghiotto posto nei salotti buoni, parimenti corteggiati dalla politica, sono stati per anni l’un contro l’altro armato -in un senso lato, si intende, dell’espressione-, protagonisti di una viscerale e reciproca idiosincrasia. Una partita finita sempre, fino a poco fa, in pareggio, con scorno di ambedue, frustrati, ognuno a suo modo, nella e dalla propria incapacità di battere e umiliare il nemico.
Adesso questo stallo sta tramontando, Arnalo chiude, dunque perde, le busca in una waterloo senza appello, mentre Cello vince, anzi stravince. Il suo business sta andando più che mai a gonfie vele, il locale è una bonanza. Si frega le mani, non è in orgasmo ma poco ci manca. Si sente in brodo di giuggiole e prova Schadenfreude. Traduzione del parolone: gode come un ‘urchin’, alias riccio di mare, nella maligna felicità causata dall’infelicità altrui. Questo sadismo nell’ottica di Arthur Schopenhauer è diabolico, ‘teuflisch’; nella bassa bergamasca, invece, viene visto come un’asinata da chi detiene i diritti di copyright relativi al vernacolare modo di dire “La cuntentèsa d’enn’asent a l’è éden annöter annàa ‘n malùra”, cioè la contentezza di un asino è vedere un altro andare in malora. Non è dato di sapere come possa essere con esattezza un malvagio e ibrido incrocio tra una somara cattivella e un riccio. Una cosa è certa: somiglia a Cello.
Walter Galasso