DI WALTER GALASSO
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Nel rapporto causa-effetto la prima polarità è ‘ancipite’, ambigua, non univoca, nel senso che essa quasi sempre, anzi ‘sempre più qualche secondo’, non è mai un solo fattore. Consiste in tantissime fonti (della conseguenza in oggetto). L’ultimissima confina con il figlio ‘effetto’, lo tocca spinge avvia, lo dà alla luce, accadendo nella parte finale del passato prossimo. La prima, invece, può risalire nientepopodimeno che al Big Bang, o alla mela di Adamo ed Eva, o ai tempi in cui la famosissima star Berta -chissà quanti autografi ha firmato- filava: comunque a un momento di un passato oltremodo remoto.
Nel lumeggiare alcune sfumature di ‘Kepler-452’, compagnia teatrale felsinea, giova alludere a un antico ambito di causalità in cui affonda le radici l’engagement della loro opera ‘Gli Altri. Indagine sui nuovissimi Mostri’. Una filiazione molto indiretta, una scaturigine più poetica che scientifica, ma, si mormora in alcuni pissi pissi d’alto livello, pare che molte volte, quando nella ‘Città della Civiltà’ si sono incontrate Poesia e Scienza a un incrocio, la prima su un meraviglioso destriero, la seconda alla guida d’una potente Ferrari, ognuna abbia estrinsecato toto corde il desiderio di dare la precedenza all’altra, con il risultato -a furia di “Prego, passa tu”, “No, ci mancherebbe, la priorità è tua”- che il vicendevole beau geste ha paralizzato il traffico per un po’ di tempo. Ben venga, dunque, una chiave di lettura che profumi di Parnaso ed Elicona.
In Internet è possibile trovare una coloratissima fotografia in bianco e nero, più che arlecchina, ché in certi approcci ermeneutici si ha la sensazione che in essa rifulgano centinaia di colori del Sistema Pantone. Al centro c’è Anton Pavlovič Čechov, intento, con magistrale e signorile solennità, a leggere il capolavoro ‘Il gabbiano’; intorno, come una rispettosa scolaresca, ascoltano, in religioso silenzio, Konstantin Sergeevič Alekseev, in arte Stanislavskij, Vladimir Nemirovič-Dančenko, attrici e attori. Il primo allievo è un mostro sacro del teatro. Somiglia, nell’artistica storia della recitazione, a Freud nella filosofia, ovviamente mutatis mutandis: per certi versi, con il suo celeberrimo Metodo, ha scoperto l’acqua calda, ma questo liquido, sotto gli occhi di tutti, da nessuno, prima di lui, era stato notato con pari esaustività. Dettami cardinali in questa branca della cultura: il personaggio merita un focus sul suo spessore psicologico, l’attore che lo incarna lo interpreterà tanto meglio quanto più si avvicinerà, empaticamente, al suo letterario universo interiore, e così via. Il suo Teatro d’Arte è una pietra miliare nell’universale teatro moderno. Questo intellettuale è stato un maestro non solo a livelli teoretici formalmente alti, ma anche nell’inaugurazione -nel tran tran routiniero di attrici e attori- di ottimi usi e costumi. Il grande teorico ha capito che era importante garantirne una confortevole privacy in una stanza ad hoc, che un protagonista in una pièce avrebbe potuto e dovuto, già nella successiva rappresentazione, retrocedere a comparsa, lasciando il posto di primadonna a un collega in precedenza arruolato come gregario: bene, bravo, bis!, quanta illuminata saggezza in questa specie di democrazia! La mia e nostra stima deve poi diventare “Chapeau!” di fronte a una meravigliosa sfumatura delle e nelle sue tante rivoluzioni: ogni attrice e attore meritava una biblioteca personale. Stanislavskij, un pensatore che ha fatto egregiamente scuola, ha insufflato nel suo importante settore preziosa e innovativa linfa.
Possibile che un tale soggetto, performante guru del pianeta ‘Palcoscenico’, e bellamente rispettoso, nella foto di cui sopra, di un grande scrittore, possa poi avergli mancato di rispetto? Possibile. Il fattaccio è accaduto in relazione all’opera ‘Il giardino dei ciliegi’. Per Čechov, colui che l’ha partorita, dunque il suo imperiale e poietico signore e padrone -essa essendo, in modo consustanziale, un’intima parte di lui- era una commedia (dunque era ed è, senza se e senza ma, una commedia, punto e basta). Il regista s’è permesso, derogando e attentando alla culturale sacralità del rapporto fra un autore e ogni sua opera, di interpretarla e dirigerla come una tragedia. Sull’enorme differenza, anche a livello di filosofia della letteratura, fra i due termini si possono scrivere diverse enciclopedie -se qualcuno ne preferisca la versione cartacea, e d’antan, può trasportarne i tomi con un montacarichi-. Lo scrittore probabilmente ha informato allo spirito d’una commedia il tema della drammatica perdita d’una cara proprietà, in un abbandono obtorto collo, per ‘diluire’ il pur grave problema nella vastità ontologica della realtà. Un dolore non è negato nella comicità, ma ampliato, come latitudine concettuale, nella contaminazione di aspetti che il mare magnum della società implica caoticamente.
Quando la compagnia, bolognese, dei Kepler-452 ha composto ‘Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso’, lo spirito letterario dello scrittore ha funto da faro nella sua navigazione artistica. Al centro della vicenda v’è infatti la storia di Annalisa e Giuliano Bianchi, residenti, in comodato, a Via Fantoni 47, in quel di Bologna, per 30 [trenta…] anni. Lo zero non è un errore, i poveretti sono stati davvero tre decenni in una casa colonica. Da certi punti di vista il Comune avrebbe potuto dire “ormai è vostra, in virtù di un’usucapione poetica: il Genius Loci di quell’immobile somiglia a un vostro selfie”. Invece li ha sfrattati, senza rispetto e senza pietà, perché era in arrivo la fabbrica FICO… Nomen omen, nel senso che il carino acronimo, Fabbrica Italiana Contadina, è anche un tentativo di nascondere dietro una foglia di fico l’ennesimo e cinico giro di quattrini senza nessuno scrupolo se fra i mezzi per raggiungere il fine ci siano lacrime umane. Paola Aiello, insieme a Lodo(vico) Guenzi, il vocalist della band ‘Lo Stato Sociale’, Nicola Borghesi, e pure i due protagonisti dello sgombero, stigmatizzano questa violenza in un ottimo slancio della loro drammaturgia. Quando Annalisa ha raccontato il brutto momento in cui ha dovuto lasciare il ‘suo’ giardino, tanta paura legata all’incerto avvenire, tantissima amarezza in relazione a un diletto passato, probabilmente qualche fortunato spettatore s’è commosso e dopo, rincasando e accarezzando la porta d’ingresso del suo nido, con una delicatezza senza precedenti, ha pensato ‘speriamo di restare sempre insieme’. Dolore, quintali di disappunto, ma questa compagnia ha scelto il nome d’un parente della Terra, Kepler-452b, pianeta simile al nostro, orbitante intorno a una stella simile al Sole, e in grado, per motivi scientifici, di includere acqua. Un’alternativa, ma in certo senso vicina, un altrove, molto in là, ma pure un po’ qui. Questi artisti vogliono uscire dal teatro per esplorare la realtà, gettando un ponte fra ‘lui’ e ‘lei’ e studiando quest’ultima nella sua fluida ed eterogenea fusione di livelli.
Questo spirito anima pure ‘Gli Altri. Indagine sui nuovissimi Mostri’. Un’analisi dell’odio social, by leoni da tastiera ma non solo -ché ci sono pure quelli che gettano fango mettendoci la faccia, la sostanza poco cambia-. Zero concettualizzazioni ‘tragiche’, di stampo teoricamente saggistico. La compagnia vuole immergersi con costruttiva curiosità, e adottando una pienezza narrativa tipicamente letteraria, in un fenomeno concreto e dilagante. Un astratto j’accuse contro chi sprigiona cattiveria monstre e la spedisce al prossimo? No. ‘Show, don’t tell’, meglio raccontare i Mostri ritraendoli nella loro quotidianità, scoprendo chi concretamente si nasconde dietro un produttore di astio, magari riuscendo paradossalmente a rendere l’idea di quanto sia stupido, oltreché malvagio, un Estraneo violento. Anche perché dirne di ogni, e dargli del demone in un saggio serioso, può sortire un effetto controproducente e indurlo a montarsi la testa, a sentirsi un eroe, sia pur negativo.
Talvolta un concetto e il suo intero quadretto teorico possono denotare il tentativo di inserire, mediante un imbuto, un mare in un recipiente di trenta litri. Un bidone due volte: come tara -il contenitore e il suo peso- e come imbroglio culturale. Un giudizio tranchant rischia di costruire, a livello cognitivo, poco: ‘peste e corna’ × 3.000.000 = corna e peste; la cristallizzazione di un misfatto in un paragrafo accademico autoreferenziale, lontano dalla vita vissuta, puzza di aria viziata in torre d’avorio. E poi la demonizzazione tout court di un satanasso, senza volerlo guardare in faccia mentre si comporta come uno stronzo, significa una specie di nevrotico tabù: voler studiare il male rimuovendo la percezione dei suoi banali dettagli. Il connubio tra filosofia e letteratura implica, invece, la necessità, o almeno l’opportunità, di guardare gli Altri cattivi, idealmente fotografati e filmati nel milieu del loro habitat, con lenta, fertile, paziente lucidità. Per condannare nel miglior modo possibile un hater, o chi violenti l’affetto fra una casa e un suo storico inquilino, bisogna innanzitutto capire perché un tale Mostro è così cretino da non realizzare nel suo cervello l’immenso Valore della Pace.
Walter Galasso