DI WALTER GALASSO
Calamita l’attenzione di molti pedoni, sia autoctoni che turisti, una scintillante e glamour kermesse davanti a un sibaritico hotel, a cinque, anzi cinquanta stelle. Ingioiellate sciure, agghindate in chicchere e piattini, con tanta puzza sotto il naso, certe di essere al centro d’una scena assai importante, e signori, presumibilmente dei paperoni, che nel loro look vincente e trash si atteggiano a corruschi supermen. Costoro, quasi tutti miliardari facenti parte del gotha finanziario della Città Metropolitana di Gregario, sono vip, a vario titolo, degli Studios dell”Istituto Ohlalà’, uno dei maggiori centri di realizzazione, a livello europeo, di spot. Produttori, fra cui il sardanapalo dottor Guido P., uno dei più alti papaveri di quell’establishment, e affermati registi -una pleiade d’intellettuali, fra cui Lino Paggetto, testa d’uovo, un aspirante filosofo che ha diretto diverse réclame informate a una tranche de vie-. E poi diversi attori sulla cresta dell’onda, primedonne avvezze a stare, con esaltata libido spettacolare, sotto la luce dei riflettori.
Oltre le transenne -che delimitano quest’area, off limits per la gggente normale, come diaframmi tra uno spazio ‘in’ e uno terra terra- molti fan, assiepati e adoranti, impetrano a quelle star un autografo, un selfie, un qualsiasi misericordioso contatto, e loro se ne beano, gongolano in questo mondano prestigio. Alcuni fra questi vip, pieni di altera iattanza verso quei supporter, sono invece mogi mogi, acquiescenti, simili a cani scodinzolanti dietro i rispettivi padroni, con i suddetti produttori. Cioè con gli industriali che ne foraggiano le performance, che gli danno la pappa, che scuciono i conquibus da cui dipende, in ultima analisi, la loro attività professionale. La solita storia: un ennesimo caso di soggetti forti coi deboli e deboli con i forti.
Seguono questa festa en plein air decine di giornalisti e paparazzi, qui inviati da emittenti televisive e testate della carta stampata per effettuare filmati, scattare fotografie, chiedere e possibilmente ottenere interviste, eccetera.
In mezzo alle protagoniste e ai protagonisti dell’Evento ci sono poi tutti i membri dello staff, vestiti parimenti in frac, oltremodo esaltati e boriosi per il privilegio di essere insieme a eccelse figure del jet-set. Questi comprimari credono di essere superiori a una manovalanza ch’essi reputano bassa e poco influente, ma da nessun punto di vista superano, quanto a prestigio nel leviatano, un cameriere di un ristorante o un camallo del porto di Genova o un facchino d’una ditta di traslochi. Sbagliano due volte: innanzitutto perché anche all’ultimo lavoratore sulla faccia della Terra bisogna portare rispetto; poi perché il portaborse di un divo, ovviamente, è tale e quale a Giovanni, un noto traslocatore aumm aumm -lavora sempre in nero, sul suo bianchissimo furgoncino diesel- di Gregario. Il fatto che nel loro lavoro coadiuvino star del dorato mondo dello spettacolo inietta nella loro psiche tonnellate di beata, sciocca vanagloria. Somigliano, in questo senso -ovviamente mutati i dettagli che vanno mutati- ai giannizzeri e lacchè e portaborse e sguatteri e autisti dei parlamentari e dei ministri. Pure quei lavoratori, non altro che servi in giacca e cravatta, con i loro bwana sono umili e umiliati zerbini, mentre quando ritornano nelle loro abitazioni spesso danneggiano auto parcheggiate nel loro quartiere, con la pavonesca ruota che la loro hybris non riesce proprio a non aprire. Comunque è bene sottolineare, fra parentesi tonde in cartongesso, e senza la benché minima ironia, che quando una persona si senta bene benone, sia pur in un doppio errore o una tripla colpa, è sempre un mezzo bene. La sua letizia deve suscitare solidale contentezza in chi li veda, non già animadversione.
Parole sante, ma valle a spiegare! al signor Marcello, un polemico brontolone che sta transitando nei paraggi del faraonico albergo -si sta recando col cavallo di San Francesco in uno studio di avvocati associati, per chiedergli info afferenti beghe con un vicino assai stronzo-.
Nota en passant tutto lo show, non dedicandogli alcuna forma di frivola curiosità. Lui, permeato di un orgoglio monstre, detesta la tentazione di appassionarsi in un ruolo ‘spettatorale’, per così dire. Sin da quando era un verde guaglione, brillante studente universitario, non ha mai condiviso l’atteggiamento di tipi come i tifosi nelle varie discipline sportive o i fan di dive e divi del piccolo e del grande schermo, o gli aficionados di qualche cappato cantautore. Reputa questi soggetti, che vanno in visibilio per res gesta e mirabilia altrui, delle invasate, illuse mezzeseghe.
Nella sua mentalità, a dir poco anticonformista, quando, per non fare che un esempio, una squadra di calcio attinge la palma in un campionato nazionale, o in un torneo europeo, le uniche persone che se ne possono e devono beare sono i protagonisti, id est i calciatori che scendono sul rettangolo di gioco, e il mister che li dirige in panchina, e il presidente che dall’alto mantiene, a suon di profumati schei, il club, e tutti i soggetti in qualche modo inerenti, con ruolo attivo, alla dimensione della società sportiva di football. Un ultrà, invece, sfigata e ultima ruota del carro, non ha nessun legame, salvo pseudoideali che lasciano il tempo che trovano, con la quintessenza del team per cui tifa. La sua squadra del cuore vince, lui impazzisce di gioia per il trionfo, pieno d’orgoglio e pronto a sbeffeggiare con tracotanti sfottò i tifosi dell’undici che ha perso, e Marcello, allibito di fronte a un sentimento ch’egli crede fede degna di miglior causa, prova per lui misericordia, pena, disprezzo, pietas, sofisticata nausea, compassione, voglia d’un feroce j’accuse, eccetera. Lo ritiene, cioè, un uomo fuori strada, minchione e tondo come la O di Giotto, zeppo di un’illusione patologica, un allucinato cretino che dovrebbe essere curato da uno psicanalista di fama mondiale.
A suo cugino, Mirco, un giovane perdutamente innamorato, sin da quando era un bebè, della ‘Fidelis Gregario’ -venderebbe l’anima al diavolo se la transazione desse al team un punto in più in classifica-, un fedelissimo che non si perde una partita, sempre militante nella curva, vorrebbe dire ‘giddap!, cresci, smettila di essere puerile e immaturo, dacci un taglio con questa irrazionale e alienata passione!’. Fino a questo momento, pur avendone avuto tante volte la tentazione, si è sempre astenuto dal rampognarlo, per la sua viscerale e folle fede calcistica, e dal tentare di aprirgli gli occhi, facendogli capire che se la Gregario vince la Coppa dei Campioni lui non potrà certo esibire il trofeo nel suo living room. Il suo tentativo di farlo rinsavire avrebbe sortito un risultato praticamente pari allo zero, perché Mirco piuttosto si fa condannare all’ergastolo, ma ai suoi idoli non cesserà mai di dedicare un sentimento megagalattico. Il signor Marcello lo sa, perciò rinuncia, a priori, a farlo ragionare, e ogni volta che è lì lì per sgridarlo e puntualmente il rimprovero abortisce, la sua idiosincrasia per la passione chiamata ‘tifo calcistico’ aumenta.
Tale e quale a questa avversione è quella che adesso sta provando per le e i fan -secondo lui sciacquette e deficienti- che, immerse e immersi in un’estatica contemplazione di quelle star, non vedono l’ora di averne una firma, un sorriso, magari una dedica su un quaderno o su uno zaino. C’è, per esempio, una squinzia con i capelli tinti -un tricologico casco verde, forse la signorina vuole far credere di essere residente su Marte-, una ragazza tutto pepe: chiama, con voce implorante, un trentenne, Giulio P., famoso divo in una fiction stracult, pernio dei palinsesti di ‘Tele Dardi’. Nel suo mumble mumble il ribelle inizia a picchiare duro: ‘Un cretinetti, forse non sa neppure chi sia Garibaldi, ma per quella sciroccata teen-ager quel giovane è più imponente di King Kong. Lo adora, lo guarda con feticismo… amica mia, credimi, tu sei fuori strada’. La ragazza, nel preciso momento in cui Marcello pensa ‘fuori’, urla al divo, quasi piangendo, “Giulio, Giulio! Ti prego, ti scongiuro, vieni qui, scrivi qualcosa, quello che vuoi, sulla mia agenda!”. Cello, che assiste alla scena, a un tiro di schioppo, con larvato raccapriccio, deve contare fino a mille per non avvicinarsi alla demoiselle e chiederle che cosa cambierebbe nella sua esistenza se quel fico esaudisse la sua laica preghiera. All’improvviso una svolta epocale: Giulio, gentile con l’ammiratrice, vuole vergare una dedica, ma non ha una penna e, dopo averla chiesta alla fedele, che, mannaggia, s’è dimenticata di portarsi dietro questo indispensabile attrezzo di venerazione, si gira verso Marcello, il primo essere che gli capiti a tiro, e “scusami, caro, ce l’hai tu una biro?”. Scusami… Caro… Marcello è in brodo di giuggiole, si sente al centro di un importante evento, e non vede l’ora di parlarne in famiglia, pensando, mentre a cento all’ora estrae una bic dal suo marsupio, ‘però, quant’è alla mano questo pezzo grosso!, la sua cortesia gli fa onore’. Dopo aver predicato fiele, ora razzola miele. Incoerente? Ma no!, vale anche per lui il principio di cui sopra: se è felice, e lo è, lo è, noi ne siamo contenti.
Walter Galasso
Un bozzetto di grande impatto, un ritratto amaro dei nostri tempi pennellato con straordinari toni ironici a cominciare dal titolo che trovo geniale