L’ ABITO NON FA IL MONA   [Bozzetto  5]

DI WALTER GALASSO

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   Un vivace capannello di gggente su un marciapiede, con molte piastrelle in pessime condizioni, ai lati di via Garibaldi, una sorta di pezzo forte nella vasta gamma di eleganti strade nel centro d’una cittadina. Questi compagni di bla bla bla -una comitiva che fa parte dell’Associazione Culturale ‘Eravamo tot bis al bistrot’- confabulano con una foga forse degna di miglior causa. Credono che abbiano un notevole valore l’argomento in oggetto e il modo in cui lo stanno affrontando, ma esso, checché ‘sti esaltati possano pensare al riguardo, è tutto sommato una batracomiomachia.
   In questo momento tiene banco, nella caciara del cicaleccio en plein air, il signor Guido P., un gasato ganassa che da certi punti di vista funge da implicito leader del gruppo. Conciona, esprimendosi in punta di forchetta. Nel parlare dei vizi e delle virtù del loro primo cittadino -di centrodestra, mentre loro si piccano d’essere dei trinariciuti aficionados della gauche internazionale-, cerca di fare lo splendido, di eccellere in signorilità. Gli preme apparire, al netto della sua ideologica passione per la Sinistra, un pensatore che quando giudica un uomo politico resta sempre nell’adamantino alveo di una wonderful onestà intellettuale, campione illuministico di rispetto verso chi non la pensi come lui, gentleman au-dessus de la mêlée. Gli amici, che lo stanno ascoltando in religioso silenzio, restano di stucco quando l’oratore, essi aspettandosi che vituperi con analitica violenza il sindaco, il dottor P. Malachite, inizia a spezzare lance in suo favore.
   La loro Associazione, sin dai suoi albori, è sempre stata una nemica giurata del partito in cui milita quello stronzo, un riccastro che si è presentato alle ultime elezioni amministrative solo per inseguire l’obiettivo di procacciarsi, se eventualmente eletto, ulteriori quattrini.
   Guido, come una specie di amico del giaguaro, sta intessendo un focus su presunti meriti di quel personaggio, mentre ogni membro del suo uditorio, quando lui ha principiato a esprimere giudizi su quel cornuto, si aspettava che ne dicesse di ogni, che gli scagliasse addosso un j’accuse al vetriolo e al fulmicotone. Mister P., non pago delle sorprendenti sviolinate che ha già regalato a quel potente paperone, seguita imperterrito nella sua mezza apologia, sostenendo ch’egli, fra i suoi tanti meriti, ha pure la capacità, quando veda la mala parata e sia lì lì per subire un allegorico scacco matto da qualche avversario, di uscire dall’impasse grazie a qualche astuta mossa del cavallo. E poi che dire della sua nobile esigenza, nell’espletamento delle sue delicate funzioni, di fare assegnamento su qualche think tank di esperti? “Bene, bravo, bis! Hip, hip, hip, hurrà! Magari fossero tutti così gli ottimati che ci governano nella stanza dei bottoni! Il nostro archimandrita non vuole essere un uomo solo al comando, ché, con autentico spirto democratico, ha ben capito l’importanza di valorizzare le altrui competenze”. Pausa, per estrarre dalla tasca ladra un fazzoletto e pulirsi il naso. Poi “Possiamo ben dire, anche se magari a noi sanculotti possa dar fastidio, che il dottore all’uopo sa, socraticamente, di non sapere”. Al che l’ascoltatore meno carismatico, l’impiegato Rocco C., che fino a questo momento si è più volte morso la lingua per non sbottare in un virulento dissenso, perde le staffe e contesta toto corde il pacchiano peana.
   Crede di averne ben donde. Però, a prescindere dal tasso di ragione ch’egli ha in questa reazione, sbaglia nella scelta dei vocaboli. Chiede infatti all’autore di cotanti complimenti se per caso il capo della città non gli abbia dato, aumm aumm, tot schei per comprare i suoi apprezzamenti.
   Apriti cielo! Il bersaglio di questa grave insinuazione s’incazza come una tigre alla quale un imprudente minchione abbia tirato la coda. Minaccia nientepopodimeno che una querela, gli dice che deve reputarsi fortunato per l’impossibilità, nell’odierna Repubblica del Bel Paese, di sfidare legalmente qualcuno a duello, e poi lo investe con una gragnola di cattivi improperi. Guido -giova precisare, parenteticamente, che è insita nel suo DNA una quantità monstre di permalosità- non abbozza come un pappataci, non si tiene offese imperdonabili e applica in senso lato la legge del taglione. Insulta l’avversario, sferrando anche colpi bassi.
   Il volume della loro voce sale, in una drammatica escalation di acredine, mentre gli altri, muti come pesci o forse più, evitano di ingerirsi nella tenzone outdoor e di parteggiare per l’uno o per l’altro. Il loro eclatante battibecco, potenzialmente foriero di un cozzo più grave, a suon di botte e non solo di parole, può disturbare chi stia nei paraggi, soprattutto gli esercenti che faticano nelle botteghe adiacenti.
   E infatti la porta d’ingresso d’una libreria, varata con soldi guadagnati in passato a Las Vegas, si spalanca e si materializza sulla sua soglia la figura di un giovane e grintoso giovanotto, alquanto chic, Pier Maria Lolli. Elegantemente ammantato d’un griffato completo, in giacca e cravatta Marinella: è più raffinato di Ludovica, agente immobiliare, operativa in un locale limitrofo al suo negozio, con un atteggiamento da nolimetangere snob. Pier la batte. Lo yuppie, senza diplomatici peli sulla lingua, fa ai rumorosi buzzurri un severo cicchetto. Gli imputa un casino che causa un uggioso inquinamento acustico, gli ricorda, fissando i due litiganti con un’occhiataccia tremenda, che dentro il loro store si lavora, e pure con encomiabile stacanovismo, mica si cazzeggia, ergo i loro incivili schiamazzi a fortiori cagionano un disturbo intollerabile. L’explicit della rampogna è un ultimatum senza se e senza ma: o la smettono precipitevolissimevolmente, ci danno un taglio e si comportano come cristiani ammodo, oppure lui chiama le forze dell’ordine e poi sono cavoli loro.
   Il draconiano aut aut, un messaggio pesantissimo, viene recepito immediatamente, forte e chiaro. Gli uomini zittiscono, Guido si sente in dovere, come un lord, di chiedere scusa, e tutti, mogi mogi, si allontanano dalla scena del baccano.
   Il ‘dottor’ Lolli -ha conseguito una laurea brevissima, da remoto-, beandosi non tanto dell’efficacia del suo diktat quanto del figurone fatto in mezzo a molti spettatori -crede di essere apparso un campione di buona educazione-, mentre quei tamarri attraversano la strada, con la coda fra le gambe, fra sé e sé li prende per i fondelli, pensando ‘ecco, bravi, andate altrove, sciò, pussa via!, tornate nel periferico ghetto in cui, se tanto mi dà tanto, ognuno di voi abita’.
   Un tipo, dunque, razzista, un imbecille propenso a credere, se qualche persona pecchi in bon ton, che ella risieda in outskirts e non in centro: una cazzata magna, ché in ogni parte d’una città ci possono essere gran signori e maleducati. P. M. L. -il personaggio spesso demanda al suo sarto di fiducia l’incarico di cucire questo acronimo su qualche giacca su misura- in questo giudizio interiore, altamente offensivo, ha sparato una greve fregnaccia, sintomatica della presenza, nella sua visione del mondo, di ottusi pregiudizi. Eppure questo vizio, grave falla nella sua etica e spia di stupidità, non appare fenomenologicamente a chi lo veda per la prima volta, o comunque senza conoscerlo bene. Il suo look, zeppo di firmate sciccherie, occulta vizio e falla e stoltezza. L’abito non fa il mona.

Walter Galasso