DI WALTER GALASSO
In un’elitaria struttura alberghiera, caratterizzata da tariffe stratosferiche in ogni periodo dell’anno, Mietta Tornabuoni, dipendente modello, stacanovista nel suo deontologico culto del proprio job, eccezionalmente si concede un brevissimo break, allontanandosi dalla reception. Ovviamente intanto indulge a questo peccato veniale in quanto in questo momento non ci sono clienti nell’hotel, e lei vuole solo stare qualche secondo sul suo limitare, per inalare fresco ossigeno esterno, fumare una sigaretta elettronica e gettare uno sguardo al viavai, e di turisti e di indigeni, sulla via.
Non appena s’affaccia, coi piedi esattamente sull’ideale frontiera tra la dimensione indoor e quella en plein air, vede, all’inizio della street, Gino, molto noto in questo quartiere, fratello di uno dei più carismatici artigiani, Marco, anzi don Marco, come lo chiamano tutti a queste latitudine e longitudine, il decano nel suo settore professionale. Marco è un tipo davvero in gamba, uno scafato volpone, asso di cazzimma, falegname e maestro d’ascia a sublimi livelli, e pure insigne titolare d’una mitica bottega d’antiquariato. È assurto recentemente agli onori della cronaca, intervistato da inviati di diverse testate giornalistiche, per un episodio che ha dell’incredibile. Egli ha venduto a un avventore una scultura, aumm aumm, senza ricevuta e fattura, facendogli uno sconto, proprio per le modalità in nero della transazione, ricavando all’incirca ottocento euro. Un bel po’ di quattrini, però a posteriori, durante perizie su quell’opera d’arte, demandate dal nuovo proprietario a un think tank di esperti, s’è scoperto che essa è stata forgiata demiurgicamente dalle mani di uno dei più affermati scultori europei dell’Ottocento. Morale della favola: è stata quotata 3 milioni di euro. Wow! La stampa internazionale ha inserito ‘sta clamorosa notizia fra le news più eclatanti e strane, nel campo del commercio artistico e/ma non solo. Ovviamente l’esercizio del signor Marco s’è ritrovato sotto i riflettori e, già tradizionalmente rinomato, lo è diventato ancora di più.
Molti suoi avventori -fra cui contano anche diversi alti papaveri del gotha finanziario- hanno citato l’evento come l’ennesima prova provata dell’aria che si respira al suo interno. Un negozio dove, grazie al corrusco talento del suo titolare, tu -tu generico- puoi entrare e quando meno te l’aspetti imbatterti in un capolavoro di Michelangelo. Ovviamente chi vuole bene a Marco, o chi, Cicero pro domo sua, ha tutto l’interesse a stamburarne le virtù, ha esagerato nel suo peana, nondimeno, facendo la tara a queste sviolinate, resta il fatto che lui è un vincente, un protagonista, ci sa fare, arriva a vendemmiare risultati che tanti suoi competitor possono solo sognare in qualche rêverie. Gino, invece…
Una frana, una schiappa, un brocco tondo come la O di Giotto. È un perdente praticamente da sempre, ma oggi Mietta, che lo conosce di vista, resta di stucco nel vederlo palesemente e nettamente peggiorato. ‘Ma che cosa è successo a quel pistola?’, si chiede istintivamente mentre lui si avvicina. Le sue gambe fanno giacomo giacomo, i capelli, brizzolati e stranissimi, sono più disordinati e unti del solito. Nel suo sguardo è stampata una singolare alienazione, egli sembrando un matto evaso da una prigione e a zonzo nella Via Lattea, senza una precisa meta. Se tanto alla squinzia dà tanto, quello, così sciroccato, entro un’ebdomada sarà ricoverato d’urgenza in un nosocomio, ovviamente nel reparto di neurologia, e il fratello, che se la tira con pavonesco narcisismo e si crede er mejo, vergognandosi di lui lo rinnegherà in modo meschino, facendo finta di non conoscerlo. Gino, nella sua abulica camminata, sembra un robot, o un ilota non più compos sui. Quando passa davanti alla ragazza non solo non la saluta -mentre in genere si scambiano un ‘ciao’, secondo un implicito galateo di buon vicinato-: nemmeno la nota, guardando, in modo quasi ossessivo, davanti. Da un lato fa ridere, dall’altro può suscitare pietà.
Viene notato anche da nove turisti, assembrati davanti a un notissimo panificio del centro. Dentro hanno acquistato tranci di una mitica focaccia -il fiore all’occhiello della produzione di questo locale: loro ne sono venuti al corrente leggendo un Baedeker redatto con acribia da tre grandi conoscitori della città- e adesso li stanno mangiando con golosa avidità, in un’area davanti all’entrata del negozio. Mentre il palato di tutti gode nel percepire un sapore stratosferico, uhm!, gnam gnam!, slurp!, quello che sembra il leader di fatto della comitiva, un biondo sbruffone di nome Federico, s’accorge del povero Gino, ne capta la patente défaillance, a livello sia fisico che psicologico, e “ragazzi, guardate quel pirla, ah ah!, è proprio ridicolo!”, e, con la bocca quasi piena, si sbellica dalle risate. ‘Sto ganassa, un tamarro pieno di soldi, parvenu arricchitosi con metodi non sempre leciti, crede che per la sua ricchezza egli rappresenti, nella cosa pubblica dello Stato, un eroe positivo. Un tipo che, con la testa sul collo e i piedi per terra, dopo iniziali difficoltà -ch’egli gabella per dura gavetta: in realtà hanno avuto una brevissima durata-, dagli oggi e dagli domani, lavorando sodo (omette di precisare ‘e ogni tanto fottendo allegramente le leggi’) ha finito con il trionfare.
Si sente un maggiorente borghese, un frizzante mandrake, attore sociale positivo, maschio alfa, yuppie tre punto zero, mentre quelli come Gino ai suoi occhi sono rincoglioniti pezzenti, svitati emarginati. Prova per loro quasi ribrezzo, non gli balugina, nemmeno nell’anticamera del cervello, che qualcuno di quei reietti versi in pessime condizioni per sfortuna, congenita fragilità del proprio Io o, peggio ancora, per qualche sopruso perpetrato ai suoi danni da qualche boss da operetta, rispettato e riverito in un ‘carisma delle banane’, per così dire. Nella sua bieca, rozza visione del mondo la sfera pubblica è una giungla dove vige la legge del più forte, e questa situazione rappresenta un’esaltante tenzone, mica una brutta riedizione di ‘homo homini lupus’. Lui ha vinto, anzi stravinto, e vai!, Gino è fra i miserabili imbecilli che hanno perso, che le hanno prese, finendo al tappeto, kappaò. Ergo di se stesso Fede pensa ogni bene, salendo su un ideale piedistallo da cui si gode un panorama wonderful, mentre di quel personaggio, che sta deambulando con oscillazioni da ubriacone sbronzo e denota una stupidaggine paradigmatica, inizia a dirne di ogni, prendendolo (con crudeltà) per i fondelli.
I suoi compagni di merende pendono dalle sue labbra, tenendogli bordone in questo maleducato sfottò. Capta casualmente il persiflage Mino Pollesi, detto ‘Il Toro’, un tremendo guappo del rione, carissimo amico di Marco, e molto legato pure a questo suo fratello scemo. Big Bull viene, vede e vince, nel senso che mena di brutto ‘sto buffone e maramaldo, che con il bullismo della sua presa in giro ha infierito su una vittima in difficoltà. Il ‘Mino Tauro’ viene arrestato dopo qualche ora: fin qui, ovviamente, tutto o.k., è giusto che paghi per le botte che ha dato. Federico, invece, non è accusato di nulla, le percosse che ha sferrato con il suo cervello non sono concrete e in 3D; non sono 2D in qualche foto: sono un’intangibile violenza, che si può raffigurare solo in modelli 1D, privi d’una visione geometrica dell’oggetto…
Walter Galasso