FAMIGLIA ZAMMIT, MITO CHE OKKUPA UNA CUPA PECUNIA    [MICROBLOG  1   (1 giornale di New York)]

DI WALTER GALASSO

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   Una culturale moralità, intesa come etica scientifica e rigorosa, elaborata con tutti i crismi d’una seria razionalità, non deve mai essere confusa con il moralismo. Un dettame tanto inconcusso quanto ovvio, ma talvolta è bene non fidarsi al cento per cento della cosiddetta ovvietà e mettere comunque, anche perorando una tesi assiomatica, i puntini sulle i.
   Al centro della presente pubblicazione v’è una bella storia -sembra una favola, ma è verissima realtà- di Poesia versus cementificazione, parossistico utilitarismo venale, omologazione e altri disvalori del genere. Ebbene, alla luce del suddetto principio, seduto sull’incipit come un sovrano sul suo trono, avvertiamo l’esigenza, nell’introdurre la vicenda, di imbastire delle puntualizzazioni che potranno sembrare paradossali consulenze di un avvocato del diavolo e di un amico del giaguaro.
   L’erezione seriale di case, in un determinato quartiere d’una città, da parte di costruttori, forse palazzinari innamorati (con erotico trasporto) del denaro e del suo accumulo in una locupletazione superlativa, non va demonizzata tout court, in una filippica senza caveat, di stampo, appunto, moralistico. Quegli appartamenti, moderni, up-to-date, costruiti all’insegna di una performante e aggiornata tecnologia edile, potranno, perché no, risultare utili a molte persone. Inneggiare a un reset che faccia tabula rasa di quei palazzi, per vedere al loro posto milioni di fili d’erba in ubertosi prati, zero cemento e citofoni e tanta tranquillità bucolica e georgica, è una parenesi certamente nobile e squisita, ma inclusiva del rischio di danneggiare ingenuamente chi, per esempio qualche coppia d’innamorati piccioncini, in una di quelle maison potrà avere un nido in cui alloggiare nei primi anni di matrimonio, traendo, dal loro tasso di utile modernità, un piacevole comfort. Una tale impostazione preliminare della questione espelle dal suo ambito ogni pistolotto moralistico e dà a Cesare -nome che nella fattispecie sta per ogni onesto costruttore e ogni entusiasta compratore d’una sua house- quello che è di Cesare.
   È questo, in ultima analisi, il nocciolo della provocazione intellettuale “La Risposta al Ragazzo della Via Gluck”, la canzone in cui Giorgio Gaber canta il dramma di un protagonista che, felicemente fidanzato con la sua dulcinea, può con lei progettare l’agognato matrimonio anche perché hanno una casa: “lui la guardava tutto contento ed aspirava l’odor di cemento”. Lei e lui sono ormai lì lì per dirsi ‘Sì’ in classici imenei. Non manca nulla all’Evento, al romantico rito religioso, tutto è curato con meticolosità, dalle pubblicazioni alla scelta dei testimoni, “quand’ecco arriva un tipo astratto, con baffi e barba e avviso di sfratto”. Nessuno pensi che il problema sia un proprietario stronzo: il busillis è mille volte peggio, consistendo nel fatto che quell’appartamento “va demolito per farci un prato”, a tenore d’una neonata legge. Per questa implosione il promesso sposo perde non solo la casetta, ma pure le nozze, poiché, siccome “l’amore è bello ma non è tutto e per sposarsi occorre un tetto”, lei, sia pur dopo cinquecento tentennamenti e 999 scrupoli, ci ripensa: “la sua morosa lo ha abbandonato”. Un’artistica esagerazione finalizzata, evidentemente, allo scopo di enucleare qualche pro anche in mezzo a usi e costumi -falansteri che sorgono come funghi- che possono apparire come un ammasso di errori sesquipedali e Colpe con la maiuscola. Non è tutto ‘non oro’ quello che non luccica. Evviva! l’accortezza, in ogni argomentazione, di separare il grano dal loglio.
   Ciò detto, assolto il dovere di una premessa super partes, è arrivato il momento di obiurgare, sgridare in un’incazzatura urbana, chi, nel voler sostituire pura Natura con cantieri in fieri e poi ennesime costruzioni metropolitane, esula dal seminato e passa la guadagnata. Imperativo categorico number one: quando un costruttore adocchia la ‘preda’, ossia un suolo di terra (edificabile) dove poter creare tot edifici, se su quegli ettari veda, nell’ombelico d’una distesa di campagna vergine, una casetta, felicemente abitata da privati, le deve portare rispetto. Esattamente come i suoi abitanti, che magari in quell’immobile hanno vissuto tante pregnanti e indimenticabili esperienze, hanno da riflettere molto, se davvero onorano quelle stanze, prima di rinunciarvi per una mostruosa offerta economica. Il costruttore ha tutto il diritto di bussare alla loro porta, toc toc, “Buongiorno, posso entrare?”, e, accettando una cordiale tazzina di caffè su un divano nel living room, chiedere se per caso, lui offrendo un’alta cifra per acquistare la casa, loro gliela vendano. Fin qui tutto bene, ci sta. Sfiorisce però la poesia se lui, dal suo canto, insiste, assillante come una piattola, reitera il suo tentativo, bis, ter, quater, quinquies, eccetera, e man mano che si ripete offre sempre di più; e i proprietari, pensando a tutto ciò che li lega a quelle pareti, a quei metri quadrati speciali, se ne freghino, reputando le colline di banconote messe sul tavolino una pragmatica ragione più che sufficiente per alzare bandiera bianca e cedere quella loro piccola patria. Liberi di farlo, per carità, ma anche un grande poeta, prima di partorire un meraviglioso componimento, è stato libero di non scriverlo, e noi salutiamo con gioia il fatto che si sia privato di questa possibilità.
   Nel caso del suddetto costruttore, fra l’altro, c’è anche un altro problema culturale: l’omologazione. Poniamo che lui, di fronte a un chilometro quadrato di terreno edificabile, riesca ad acquistare la sua totalità meno gli ettari su cui c’è una caratteristica residenza privata: il suo Io ha il dovere di capire che se innalza intorno a quell”oasi’ un intero quartiere di palazzine tutte uguali, quella casa è un bene, rappresenta un emblema di originalità, una testimonianza di Ieri, l’edificante espressione di gente che non rinuncia alle proprie radici. Questo palazzinaro la lasci dov’è, non si dimostri -volendo costruire ‘pure’ lì, sulle sue ceneri- inferiore allo slogan di ‘Priceless’, battage di Mastercard nel 1997: “Ci sono cose che i soldi non possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard”. Quella Eccezione, quella graziosa e personalizzata villetta, una specie di enclave hors ligne in mezzo a tutto il nuovo quartiere da lui generato, lo renderà più bello, gli regalerà un tocco di fascino. Se i suoi proprietari riluttino a vendere, e arrivino a dirgli “No, grazie”, li lasci in pace, non tenti di corromperne il nobile attaccamento a quel bene con proposte economiche sempre più allettanti, come un cinico demone tentatore.
   Qualche allievo di Paperon de’ Paperoni forse può pensare che un siffatto protagonista dell’edilizia non avrà nessuna difficoltà in questa mission, ché, di fronte ai soldi che lui offrirà, saranno i proprietari a rincorrerlo per comunicargli il loro o.k., ben lieti di traslocare. Può credere che se per un immobile si offra una cifra oltremodo superiore alla sua quotazione, un prezzo magari stratosferico, undici padroni su dieci capitoleranno. Non è vero.
   Australia, Sidney, Quakers Hill, zona The Ponds. Professionisti del cemento pongono in essere un’opera faraonica, un geometrico quartiere di case fatte con lo stampo. Chi abitava prima se n’è andato, più o meno allegramente, ma senza irresolutezza, accettando di buon grado tanti schei in cambio dell’invasione. Questo monotono alveare ha, nell’ottica demiurgica di chi l’ha costruito, solo un neo: un’area di quasi due ettari, a un dipresso nel centro di questo agglomerato, e, nel centro del centro, la villa della famiglia Zammit. Gente poetica e romantica, tanto affezionata a questa residenza. Non hanno voluto venderla. Un legame carino, splendido, encomiabile. La polarità tentatrice, non arrendendosi, sferra il lenocinio d’una potente contromisura, un’offerta ch’essa ritiene irrinunciabile: 50 milioni di dollari. Reazione? Un clamoroso due di picche, perché, recita un segmento dell’articolata e fiera spiegazione, “È casa nostra. Non puoi mettere un prezzo al posto dove sei cresciuto…”. Ciliegia sulla torta, apogeo d’una meravigliosa gagliardia, un messaggio inviato indirettamente da Diane Zammit ai costruttori: “Ditegli pure che è un sogno irrealizzabile”.
   Un commovente capolavoro di poesia pratica. La famiglia Zammit è un mito che okkupa una cupa pecunia. Un beau geste che ha dato a queste persone anche l’onore di essere protagoniste d’un articolo del “New York Post”. Il loro eroico e nobile ‘No’ è un diniego ricco di luce culturale.

Walter Galasso