FOBIA PER CANI ARCANI:  PIÙ MIRROR CHE HORROR   [Racconto  4]

DI WALTER GALASSO

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   Una molesta cappa di umidità grava sui chilometri quadrati di un centro urbano ed esercita sulla maratona di Renato, che sta facendo una lunga passeggiata a tarda ora, un”esogena’ e dispettosa pressione, paragonabile alla negatività di un’angheria subita in piena democrazia. Lui eroga energia a iosa, sfida a duello la possibilità della fatica, macina chilometri con stoico sprezzo della scomodità, ma sente addosso quest’atmosfera appiccicaticcia e un po’ fredda, che stona nel tripudio della sua volontà, mette un bastone fra le sue ruote, complica il progetto di raggiungere la sua auto il più presto possibile.
    Ogni tanto si guarda intorno, con circospezione, spia alcuni poderi laterali, da cui può sbucare qualche quadrupede randagio e pericoloso. Una volta, più o meno allo stesso orario, mentre era impegnato in un’altra scarpinata, scorse in lontananza un cane: deglutì la saliva come succede quando si ha paura di qualcosa, il suo gozzo oscillò leggermente, nei suoi pensieri si affacciarono domande circa il tasso di emergenza da attribuire a quell’imprevisto. E se quella belva è feroce? E se i suoi denti sono zanne pronte a ferire? Interrogativi intasati di pezzetti d’ansia, pronti a espugnare la roccaforte della sua serenità.
   Ripassò le lezioncine che aveva tempo prima imparate da un articolo incentrato sull’argomento ‘cosa fare quando ti imbatti in una fiera’. Si ricordò che in tali casi non devi mostrarti terrorizzato, devi evitare una fuga repentina e agitata, ché l’avversario può interpretare i tuoi inconsulti movimenti come una minaccia, pensando che essi esprimano, invece che una perdente apprensione, una forma di aggressività contro la sua presenza. Tu, in altri termini, ti mostri un fifone matricolato, scappi, con la codarda priorità di una non battagliera salvaguardia della tua incolumità, e quell’animale, in un paradossale fraintendimento della tua debolezza, istintivamente valuta la tua condotta in modo esattamente contrario alla verità. Pure in casi simili il falso è in agguato nei percorsi della conoscenza, sia quella umana, di serie A, che quella della fauna, a livelli meno alti: comune denominatore fra l’ingegno di una persona e il cervello di un alano è l’equivoco, il prendere lucciole per lanterne, l’essere fuorviato da apparenze ingannevoli. Poi lesse che non bisogna mai guardare negli occhi -se putacaso ti imbatti in un branco di pastori tedeschi, implicitamente subordinati a un capintesta- una di queste belve, soprattutto il boss, perché questo incontro di sguardi può essere percepito come un atto di sfida, una larvata mancanza di rispetto. Devi, invece, far finta di niente: se quella canea è a est, dirigi il tuo piglio a ovest. Non ti salti in mente di osservarli con bonomia, per dirgli <<ti, vi sono amico, fumo il calumet della pace, alzo bandiera bianchissima, domani mi adopero affinché a ognuno di voi venga tributato un premio, e a te, ringhiante capitano dell’intera gang, faccio assegnare l’onorificenza più prestigiosa, con tanto di premiazione in un teatro chic>>. Quelli, feroci ma anche ingenui, non capiscono un’acca di questa tua mogia prassi, la scambiano per un guanto di sfida, un invito a epica tenzone, e sono cavoli tuoi, se sei disarmato e solo, nella problematica situazione di sentire, se gridi ‘aiuto!’, solo l’eco del punto esclamativo. La lettura di quel mediatico vademecum lo sorprese e preoccupò, capì, già al ventesimo rigo dell’articolessa, che in un siffatto frangente abbisogni di doti recitative, è d’uopo la facoltà di simulare e dissimulare, estrinsecare l’emozione Z mentre alberga in te quella A, comunicare omega mentre alfa ti permea in maniera intensa.
   Tutta questa teoria, che rispolverò in una decina di secondi dopo l’avvistamento di quel dog, non gli servì a niente, non perché esso attaccò Renato a prescindere dalla sua applicazione delle suddette norme, ma, al contrario, per l’innocuità che emerse dal comportamento di quella specie di fox-terrier: non fece bau bau, non digrignò denti aguzzi come stalattiti e stalagmiti mignon, non palesò ferocia con occhi cattivi, ma si mostrò timido, arrivando addirittura a nascondersi dietro un albero. Si verificò, insomma, un duello fra paure, quella di un uomo versus quella di un animale e viceversa, e Re comprese che, almeno per quella volta, un’abbondante dose di fortuna lo aveva baciato.
   Stanotte, però, rimembra non quel cane, quel pacifico incontro vis-à-vis, ma il precedente studio sulla tattica da adottare nel caso in cui ci si ritrovi dirimpettai di una bestia belligerante, partendo dal presupposto che non sempre le cose possano andare benone. L’esemplare di quella notte era un pezzo di pane, ma oggi, in questa flebile e selenica luminosità che emana dalla Luna e lambisce i profili di questo Comune, può succedere che arrivi un suo collega meno mansueto. Meglio spaventarsi a priori, nei palpiti di una notevole e saggia tremarella.
   Sbircia, con la coda dell’occhio, fazzoletti di ubertosa terra, che talvolta si stendono fra caseggiati come agricole appendici della loro struttura urbana, oppure monitora porzioni di territorio totalmente scevre d’insediamenti umani, chiazze di selvaggia natura in piena città e, con i battiti cardiaci leggermente accelerati in una specie d’aritmia, figlia di panico, teme che da un momento all’altro possa uscirne qualche animale selvatico, senza un guinzaglio che ne denoti l’addomesticata appartenenza a qualche persona. Simultaneamente si ricorda di quell’abbiccì, generosamente partecipato da quel giornalista ai suoi lettori -anzi: togliamo l’avverbio ‘generosamente’, ché quello ha dato quei consigli nella misura in cui la sua testata lo ha pagato profumatamente per redigere quel pezzo-. Renato suggerisce così a se stesso di applicare quelle regole di prudenza qualora qualche bestione compaia in modo subitaneo, forse abbaiando, oppure senza nessun verso ma con occhi che la dicono lunga sulle sue cattive intenzioni. Si ripete che non deve fissarlo nelle pupille, prescindendo dalla smania di una fuga che gli possa sembrare assalto e non resa, indietreggiando al ralenti, per non urtare la sua sensibilità -‘e che diamine, che caratteraccio che hanno queste bestie, basta un nonnulla e si arrabbiano come se tu avessi sputato sulle loro orecchie!’, pensa con capricciosa irritazione-.
   Per qualche secondo sogna (a occhi aperti) di essere il detentore di eccezionali poteri: lo fronteggia all’improvviso non un cane, ma addirittura una tigre, mentre lui incede nel viale principale di un paese dove abita una ragazza che gli piace tanto, con i capelli chiari; il grande felino spalanca le sue fauci, mentre la bionda è presente e assiste alla pugna. Renato, impavido, combatte e non fugge, e addirittura vince, in mezzo all’ovazione della folla, dopo aver mandato al tappeto quel mostro, sulla cui sconfitta nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Si gira verso Tiziana -così si chiama la sua musa- e riceve l’ammirazione del suo bellissimo sguardo.
   Questa filmica cazzata della sua fantasia è effimera. Tramonta dopo qualche secondo -ne resta solo una scialba delusione- in concomitanza della metaforica alba di un’ulteriore paura del nero che impera ai lati dell’asfalto, torbida fonte d’una potenziale minaccia. Certo, hic et nunc non sta sentendo nessun decibel di invisibili fiere e poetico arcano, tuttavia quella rebussistica oscurità, potenzialmente ostile, determina nella sua psiche, in questa notte di energia erogata quando tanti altri russano, un’irrazionale suggestione, e gli sembra quasi che sorgano in questo mentre le percezioni di un fantomatico ‘cignale’ -come in Toscana si può appellare il noto animale degli Artiodattili- o di un cagnone zannuto.
   L’ambiente di quest’uomo versa in una situazione di provvisorio divorzio fra la città e il lavoro, pochi i rumori, pochissime le auto che circolano, e fra queste i veicoli di metronotte, vigilantes intenti a sperare che il Comune, quando loro sono in servizio, sia pieno di Bene e privo di vizio, così la loro pistola resta nella fondina, il loro eroismo in sordina e la loro sicurezza nella cassaforte della pace universale. Tanta umidità nell’aria, dai palazzi qualche luce di poca gente insonne, giovinastri che scorrazzano, chi in utilitarie di seconda mano, chi in lussuose macchine, non comprate dai loro portafogli. Qualcuno, abbassando il finestrino, ride e urla verso un passante, come un teddy boy che si burli del primo concittadino che gli capiti a tiro, perché il rispetto non è un numero a effetto. Sono pronti, se una pattuglia della polizia li fermi e gli chieda i documenti, a esibirli mentre uno di loro, in un angolo dell’abitacolo, fuma con fare provocatorio, per dire ‘io ti sfido, ti prendo per i fondelli, sbirro dei miei stivali a punta, e tu non mi puoi arrestare, perché ufficialmente sto solo consumando una sigaretta’.
   Negozi tutti chiusi, saracinesche abbassate come in un segreto la verità si occulta senza fatica. In alcune vetrine le luci sono rimaste accese, così, mentre le vendite dormono, la pubblicità rimbocca le loro coperte. Da qualche locale provengono voci di avventori su di giri, qualcuno alticcio, altri solo allegri nel fare bisboccia durante ore piccole. E, opposto a queste miniature di un caravanserraglio, si srotola l’asfalto delle vie, il manto stradale che sembra quasi felice di non essere torturato da impazzite congestioni di traffico. Renato lo guarda, mentre cammina, e talvolta quel prodotto di catrame gli sembra simile alla buccia di arance, anche se questa è colorata e ‘Via Nilo’, invece, in bianco e nero.
   In teoria case private dove si nascondano membri della mala, o pub dove un branco faccia un pieno di alcolico carburante prima di viaggiare nel teppismo, o ladri pronti ad arietare con un mezzo cingolato uno dei suddetti shops, magari una gioielleria, per poi trafugarne merce preziosa, dovrebbero incutergli un terrore maggiore della paura che sente e patisce quando si trova a passare vicino a ecologici vuoti urbanistici -come qualche tratto pieno di verde e senza edifici-. Nondimeno vicino a queste aree selvagge prova, è più forte di lui, uno spavento speciale, quantunque talvolta di tipo solo potenziale e latente.
   Il mostro di cui si parlava in quell’articolo, scritto da un sapiente allenatore dell’umano autocontrollo; o qualche dog che nel passato Renato si è ritrovato improvvisamente a un tiro di schioppo, quadrupede selvaggio e lontano da un padrone e da un veterinario; o qualche altra fiera lungi dal galateo di un animale addomesticato, estranea a un’enciclopedia dove le fotografie di qualche esemplare sono immagini che non mordono nemmeno se con una piuma fai il solletico alla loro superficie: queste e simili figure ritornano in siffatto soggetto, come topoi dei suoi fiumi interiori di sensazioni.
   Adesso, per esempio, è di nuovo in un punto metropolitano dove non è arrivato nessun tipo di cementificazione, né quello a tenore di legge, guidato da un Piano Regolatore, né quello dell’abusivismo edilizio. Ai suoi lati vi sono alberi altissimi, e mancano villette a due piani o grattacieli con l’attico fra le nuvole, spiazzi senza una fontana o una statua al centro, nati quasi per caso a seguito di pazzi lavori immobiliari, e anche cose come una caserma, o un opificio -in funzione o abbandonato, nella cosiddetta archeologia industriale-, o una ferramenta, o una stazione ferroviaria, o qualsiasi altra antitesi alla Natura vergine. Questo podere ai suoi lati è simile a come questo spazio fu nell’età della pietra. Addirittura le orecchie del viandante percepiscono un pimpante quanto lene gorgogliare di sbarazzine acque, appartenenti, secondo la nomenclatura in cui la civiltà le ha inserite, a un fiume locale che non compare sulle cartine geografiche, ma è noto a tutti i cittadini di questa comunità.
   Mister Renato potrebbe godersi questa musichetta, che pare un gargarismo di tale fazzoletto di zolle feraci, oppure un aperto rubinetto in una casa, fatta di sola aria, dove abita un gigante, ora all’estero per motivi di lavoro. Potrebbe inventare edificanti favole per riempire di bei contenuti quel verde WWF, senza il WWW (di un computer connesso) ma comunque universale, ché la Natura è tutta collegata, sulla Terra e nell’Universo intero. E invece no, riemerge nella sua psiche la fobia per il mostro randagio, per la fauna feroce che sbuchi dal buio e lo aggredisca. È solo, intorno nemmeno un rapinatore a cui lanciare l’SOS nella speranza che quello, mettendo fra parentesi la propria vocazione a delinquere, si commuova e con il suo mitra, sparando in aria senza colpire nessun uccello, metta in fuga la bestia feroce. Da quelle tenebre può provenire, da un momento all’altro, la minaccia di denti aguzzi come pugnali, che producano un mezzo riflesso quando quella bocca cattiva si spalanchi e un raggio selenico raggiunga i canini del guappo a quattro zampe. L’uomo accelera, allunga il passo, mentre aumentano leggermente i suoi battiti cardiaci: non arriva a una vera e propria tachicardia, però è inquieto.
   A un certo punto la svolta. La sua mente, quasi per caso, inizia involontariamente -e nella rima si sente benone- a riflettere su una telefonata che ha ricevuto avantieri da un amico, quasi ex. Non lo sentiva da tempo, gli ha fatto piacere ascoltare il suo ‘Ciao’ e soprattutto ricevere, da quell’audio dentro il suo cellulare, parole di stima e di vicinanza morale. Marcello gli ha detto che ha di lui un ottimo ricordo, che non si è dimenticato del suo nome perché le persone perbene restano impresse, eccetera eccetera. Nel ripensare al secondo di questi ‘ecc.’ Renato non si rende conto che non alberga più in lui nemmeno un filo di paura, e che gli angoli di foresta da cui è attorniato sono ridiventati meri angoli di foresta, pieni di buio pesto ma non per questo forieri di chissà quale guaio. Pensieri a lui cari, capaci di trasmettergli calore di concetti e senso di pace, lo hanno tranquillizzato e hanno insufflato nella sua coscienza una maggiore padronanza di sé.
   Sorge dunque il sospetto che gli arcani cani, da cui ogni tanto è ossessionato quando, di sera o di notte, si trova vicino a un podere dentro la città, e in genere il timore che si mostrino mostri randagi, siano più uno specchio dove si riflettono sue insicurezze interiori, soprattutto inconsce, che un giustificato terrore. Immagini di mirror, dunque, più che veri motivi di horror.

Walter Galasso