FITZCARRALDO:  CHI SOGNA PUÒ SPOSTARE LE MONTAGNE

DI WALTER GALASSO

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FITZCARRALDO  #trailer  –  YouTube – ripleysfilm – 22 nov 2022

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Fitzcarraldo | Il 16 settembre 2022 a Roma… – Facebook – Colori Vivaci Magazine – 9 nov 2022

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   Il modo in cui il drammatico film “Fitzcarraldo”, del 1982, albeggia nella mente di Werner Herzog   -Regista, Autore, Sceneggiatore, Produttore…-  è già di per sé, intrinsecamente, una pregiata opera d’arte.
   Fra le componenti di questa poietica aurora non manca un’avventurosa dose di serendipità. L’uomo si dà da fare in un’altra direzione progettuale, cerca -qual voyager a caccia d’una peregrina location naturalistica per una sequenza di “L’enigma di Kaspar Hauser”- un sito percosso da invisibili sberle di vento. Mette nel mirino un posto ma, in un pragmatico work in progress, siccome quello spicchio d’universo non è facilmente raggiungibile, egli esorta se stesso ad accontentarsi di un altro. Un surrogato dell’originale? Ma quale surrogato d’Egitto, anzi di Bretagna! L’inquieto, sbarazzino, serissimo, curioso Werner parcheggia in un’area inerente a Carnac e, forse mentre distrattamente si stiracchia e non esclude di farsi una proletaria pennichella a quattro ruote, gli si squaderna uno spettacolo incredibile. I suoi occhi, così spalancati che gli fanno male le palpebre, con le pupille che proiettano sull’indirizzo (degli estatici sguardi) una luce più intensa della torcia d’uno smartphone, percepiscono un battaglione di titaniche pietre neolitiche, chiamate menhir. Sulla fortuna d’aver trovato un tesoro per mero caso, senza alcuna possibilità di ringraziare se stesso per l’avvistamento, s’innesta un’emozione che vale molto nell’economia psichica di questo artista: Stupore. Quello che ha già provato, per non fare che un esempio, in quel di Creta, di fronte ai mulini a vento. Stranezza esponenziale: tutto questo pathos emozionale, dopo le prime ricerche su quei colossi, si abbina ben presto con una puntigliosa, forzuta, irremovibile istanza di razionalità. Il regista, infatti, nel pescare info relative ai menhir, e soprattutto al loro eccezionale peso -il record è di uno che se salga su una bilancia ne fa arrivare l’ago a cento tonnellate-, legge pseudospiegazioni che lo indignano. Troppo pesanti per poter derivare da antico lavoro umano, se tanto dà tanto a loro tempo sono scaturiti da un dono di extraterrestri d’una remota galassia. Sbrigativo il commento di Herzog: “Una scemenza assoluta”. Il suo tenace e temerario Io si mette all’opera per enucleare il perché e il percome del processo genetico in cui essi hanno visto la luce.
   In questa meditazione alligna una radice del film in oggetto, un originale lungometraggio inclusivo, appunto, d’un trasporto a dir poco eccezionale: una nave su una montagna.
   La storia, poetica e rocambolesca, arriva a questa impresa a partire da un commovente omaggio psicologico all’Arte. In un periodo a cavaliere tra Ottocento e Novecento, e in uno spazio inerente alla speciale suggestione dell’Amazzonia, dà spettacolo l’animo del protagonista, il signor Fitzgerald -gli indigeni, siccome spesso s’impappinano nel pronunciare ‘sto cognome, per non incazzarsi recidono il nodo gordiano e lo chiamano a modo loro, con l’alias Fitzcarraldo-. Egli coltiva un sogno: erigere un sontuoso Teatro dell’Opera nientepopodimeno che a Iquitos, una city nota, anche a prescindere da questa pellicola, per essere in certo senso in capo al mondo. Tante persone, non solo i cultori della geografia, sanno ch’essa ha una peculiarità da Guinness World Records: è l’unica città non insulare che non possa essere raggiunta mediante qualche strada. Al centro peruviano, infatti, incastonato in una densissima giungla, si può arrivare o con un aereo o attraverso il Rio delle Amazzoni. Qualcuno, con assennata e ordinaria personalità, può chiedersi: ma proprio lì questo protagonista, tanto melomane quanto megalomane, vuole innalzare un musicale tempio dedicato alla Lirica? Proprio lì.
   Nella ferace creatività di Herzog, però, non è da questo anelito che rampolla il contenuto clou dell’opera. Tutto (il meglio della suspense) nasce dalle difficoltà economiche insite in questa mezza utopia. Fitz abbisogna di tanta, tanta grana per finanziare la realizzazione del suo beau geste. Che fare? Qui, in questo aspetto tematico, scatta l’equivalenza di questo personaggio di fantasia con un uomo reale, il barone del caucciù Carlos Fermín Fitzcarrald. Werner ne viene a conoscenza grazie a Joe Koechlin, che gli racconta diversi aneddoti su questo affarista. Di primo acchito lo giudica solo “uno squallido sfruttatore”. Non cambia idea, però… Viene a sapere che questo tizio è stato capace di (far) trasportare una nave di tante tonnellate da un fiume a un altro, attraverso uno spazio di terraferma. Tutti i radar della sua intuizione entrano in eccitata funzione. La mente del creativo sa separare il grano dal loglio. Quel tipo, in mezzo a evidente negatività, ha regalato alla Storia una piccola impresa rivoluzionaria, e l’eroe del film si avvia, nella suddetta pianificazione del lodevole Teatro, a farne un bis. Assetato di schei, atti a tradurre in realtà il suo dream controcorrente, aggiunge al già curioso core business della sua attività economica proprio la redditizia coltivazione del caucciù. Un bengodi, in questa tipologia di produzione, è in una zona bagnata dal corso d’acqua Ucayali, il principale affluente del Rio delle Amazzoni. C’è solo un gigantesco problemino: non è consigliabile arrivare là navigando ininterrottamente su questo fiume, perché a un certo punto subentrano turbolenze pazzesche. Ergo l’eroe, che non ha alcuna intenzione di abdicare alla sua regale illusione, in un volenteroso mumble mumble s’interroga su una possibile alternativa. Vattelappesca? Non proprio. La sua vulcanica mente esclama “Eureka!” quando concepisce l’idea di trasferire la nave, poco prima che inizi il liquido inferno e in un tratto dove l’Ucayali è vicinissimo al Rio, proprio su questo big, il corso d’acqua più lungo del mondo. Per realizzare tale spostamento l’imbarcazione, la Molly-Aida, dovrà essere trasportata in cima al poggio che si erge sull’intermedio tratto di terra, previo disboscamento della balza, per poi, dopo la tremenda salita, percorrere una correlativa discesa (verso il Rio). Quest’ultima, step 2 del trasferimento, apparirà un gioco da ragazzi, ma il primo gradino, la salita, presenta, va da sé, un mostruoso indice di difficoltà.
   Trainare una nave su, in cima a una montagna, nella prospettiva di spingerla giù, dall’altra parte, affinché sul grandissimo river possa navigare facilmente verso la cornucopia d’un caucciù à gogo: questa la Mission, difficilissima, ma non impossibile. Nella testa di Werner così i menhir come quella nave.
   È chiaro che questa Impresa funge da film nel film. In certo senso ruba la scena al prima e al dopo, al nobile desiderio del Teatro come alla conditio sine qua non per finanziarlo, cioè il raggiungimento di piantagioni oltremodo convenienti. Il fulcro di tutto è la Molly-Aida tirata, con peripezie quasi inenarrabili, in un posto dove una mente ordinaria non immagina possa arrivare.
   Ciliegia sulla torta del capolavoro: Fitzcarraldo, con la sua tensione egregiamente rappresentata dagli occhi, alquanto ‘spiritati’, di Klaus Kinski, è tale e quale al suo demiurgo. Il regista, infatti, andando incontro a una marea di ostacoli, duellando con produttori privi del suo élan, vuole che tutto, dall’alfa all’omega, sia reale e realistico. Zero aiuti tecnologici, al bando ogni effetto speciale, la nave ha da essere traslocata in quel Nord davvero, altrimenti non è all’altezza dei menhir.
   L’avversione industriale a cui va incontro il regista è sorella dell’ostilità che oppongono a Fitz gli affaristi che non lo aiutano economicamente. Un diniego peggiore di una prudenza sparagnina, perché lorsignori arrivano a distruggere, in faccia al sognatore, soldi. Della serie: ti diciamo No perché disprezziamo il tuo idealismo, non per problemi finanziari. Fitzcarraldo se ne impipa, fa quel che deve, va avanti, e poco importa se la nave, a un passo dal piantare la sua bandiera in cima alla vetta, ritorni drammaticamente indietro. No problem se qualcosa va storto nella trama dell’opera o se il regista perde denaro nell’esecuzione del suo progetto artistico. Il fulcro di questa doppia avventura, dell’autore e della sua creatura, è la bellezza, etica e poetica, di res gesta oniriche.
   Un monte, magari proprio quello sfidato da Fitzcarraldo e la sua nave, può diventare leggero come una piuma nel galattico potere della fantasia. Nelle sale cinematografiche dove si è proiettata quest’opera, gemma nel mondo della celluloide, le orecchie hanno percepito musica ‘endogena’, proveniente dal loro animo, e le narici profumo quando il grande schermo ha irradiato un sublime insegnamento, centro di tutta la storia: chi sogna può spostare le montagne.

Walter Galasso