DI WALTER GALASSO
* * *
Dugentesca narrativa in versi, opera parzialmente nascosta dietro un notarile documento del 1277 -Pergamena Papafava-, in quel di Padova, ma forse, a dispetto del titolo, questa è la maggiore componente patavina di questi 108 novenari. Chi revoca in discussione la liceità di questo frame geografico fa leva, per esempio, sul fatto che la protagonista, che nel verso 30 dichiara “Eo men sto sola en camarela”, un vano che nella sua Stimmung equivale alla sede d’una detenzione domiciliare, al trentaseiesimo dice “Eo guardo en ça, de verso el mare”, e il pelago da quella bella città non si vede, come nota, Cicero pro domo sua, il veneziano Diego Valeri. Marginalia. Premesso che comunque questo poemetto, di Autore Anonimo, è gemma di cultura veneta, a livello contenutistico il punto è un altro: il motivo per cui la donna ha deciso di tapparsi in casa.
Hikikomori ante litteram, ella dedica questa volontaria clausura a meditazioni legate a uno slancio introverso e lamentoso, quantunque mai querulo. La protagonista patisce la lontananza del marito, probabilmente un combattente, crociato in Terra Santa. Tale aspetto ha determinato l’inserimento di questo componimento di genere cortigiano, forse partorito in un ambito di letteratura giullaresca, fra le ‘Canzoni contro la guerra’. Un’interpretazione rafforzata dal legame di questi versi con Silvio Omizzolo, che in un tragico anno bellico, nel 1941, li ha musicati, nella composizione di cui al video della presente pubblicazione.
Questo monologo non è affatto banale, come qualche prevenuto detrattore potrebbe pensare. La sua ricchezza culturale si estrinseca pure su un piano squisitamente teoretico, sin dall’incipit. Qui una Frixa -la sua presenza nel primo verso le è valso l’onore di figurare nel sottotitolo attribuito dal CNR- vuole mettersi in evidenza con un consiglio paradossale: dacci un taglio col magone, bando a ogni spleen, sursum corda!, gonfia le gomme a terra, nella capacità di vedere il bicchiere mezzo pieno -concetto che molti secoli dopo, cioè oggigiorno, spiccherà il volo nel firmamento dei tormentoni cool e abusati-. Tu, le fa capire l’amica signora, soffri perché la tua dolce metà è là, lontana, strappata alle delizie sentimentali del vostro ménage da orribili doveri mavorzi. Ne hai ben donde, ci sta, però vedi l’altra faccia della medaglia. Soffri nella misura in cui sei un soggetto del verbo ‘amare’, meraviglioso predicato. Psicologicamente metti l’accento su questo valore, non sul duolo che la suddetta lontananza inietta in te.
La sposa sembra voler tenere testa, quanto a squisita originalità mentale, a questa Ninfa Egeria, tanto desiderosa di fare la splendida con parole utilissime e peregrine. E ci riesce, pur fra tesi ordinarie. Premette che il suo muliebre Io pendola fra la paura che il compagno non ritorni e la romantica speranza di riabbracciarlo quanto prima. Purtroppo, in questo annoso braccio di ferro tra pessimismo e ottimismo i bicipiti e il polso del primo vincono, sia pur non in un walk-over, l’epica tenzone. E lei si busca una brutta depressione, un sole nero che la aliena da ogni mirror, perché, con lui in quella situazione, a lei non interessa monitorare lo stato della propria bellezza. Non si fa vedere da se stessa come da nessun’altra persona, appunto barricata nella sua maison, apatica e addolorata, un po’ borderline, a un passo da una misantropia dovuta al fatto che il soggetto a cui più tiene è andato via. Fin qui normale amministrazione d’una penna antica.
Ma l’insipida bonaccia di routiniere idee comincia a scricchiolare quando la signora sferra un attacco cognitivo, creando uno spunto moderno e alternativo. La distanza tra sé e il coniuge è una dolente regola dello spazio, e cagiona un urticante guidalesco nella sua fragile interiorità, però… Però lei, nella forza dei suoi sentimenti e nell’intensità in cui lo immagina, riesce ad attingere, in un gioco di prestigio della sua teoresi, la sensazione ch’egli le sia accanto. Al netto del mero e negativo dato di fatto dei chilometri in mezzo ai loro baci, la (sua) mente, con la creatività insita in un affetto senza confini e diaframmi, erige una soggettivistica eccezione, verdissima e ubertosa, sul brullo e desertico terreno della dura realtà.
Un altro exploit è in un concetto presente già in un secondo, anzi terzo titolo di questo “Frammento Papafava”, id est “Detto della bona çilosia”. C’è gelosia e gelosia. La loro non fa rima con patologia, non sclera, non passa la guadagnata, perché ambedue, pure l’uomo, tutt’altro che un Otello, (si) amano, mica degenerano per un maledetto orgoglio o per un’imperialistica volontà di potenza. Una lezione proveniente da un’era remota della meravigliosa Letteratura Italiana, uno schiaffo morale a chi, addirittura nel Millennio successivo, risulta ancorato a lurida arroganza travestita da pseudoattaccamento affettivo. È tutt’altro che superfluo sottolineare il distinguo tra una gelosia buona e una cattiva, quest’ultima essendo ancora molto diffusa e cagionando tremende tragedie.
Questi amanti “Çilusi i gera entranbidui”, ma nell’ambito d’una pacifica e razionale armonia, ché “Çamai penser no vose avere / se non com se poes plaxere / et el a lei et ela a lui”. Particolarmente pregevole l’idea che in due amanti permeati di sana, buona, lecita gelosia questo sentimento rampolli da poetiche affinità elettive e ragionamenti eleganti, “mai no miga de rea creença”. Davvero un tocco di lucida classe: creença, come belief, è termine che include colpevolezza se, radicandosi in un soggettivismo arbitrario, sia scevro di doverosa oggettività, potendo così sfociare nell’infezione del pregiudizio, nella patologia d’una mente obnubilata da una marcia autoreferenzialità.
Un Otello è un delinquente in questo black-out: “El sueño de la razón produce monstruos”, insegna Francisco Goya, un pioniere dell’arte moderna. Un titolo di alto pregio filosofico. Il sonno della ragione genera mostri, anche, talvolta soprattutto, in degenerate forme di un sedicente amore, che tale non è nella sua depravazione, nella sua somiglianza con una ferina forma di possesso, dominio, potere. Amore? No, orrore.
L’amore è un’altra cosa. È, per esempio, il legame fra questi due coniugi del XII secolo. Ognuno anela a non essere tradito nel contesto di un dolce, pacifico affiatamento: “entrambi era d’una sentença,” “k’i gera entrambi d’un sol core”, e questa unità di idee e di sentimenti esclude a priori, va da sé, ogni forma di violenza. “No ave’ mai tençon né ira, / ké ben tegnis da terça a sera”.
Carino connubio, civile liaison, e il fato contenuto nella mente dell’Autore regala alla coppia il ritorno a casa dell’eroe: un premio alla fedeltà d’una moglie innamorata.
Lo scrittore si priva, per donare alle sue creature la felicità che i loro cuori meritano, di un colpo di scena brutto per loro e buono per la vivacità drammatica della trama, ma recupera il sale perduto con l’ambiguità di un misterioso pellegrino, che si materializza dopo il loro ricongiungimento. A distanza di secoli permane, nell’universale interpretazione di questa opera, un dubbio: forse è un terzo protagonista, o forse è lo stesso sposo. È lui o non è lui? Lo scafato e birichino giullare probabilmente lo fa apposta e ci marcia, aggiungendo al testo un profumo e un sapore modernissimi.
Comunque questo essere umano di sesso maschile, non importa se sia il marito o un aspirante amante, è il campione di un’ ammirazione (per la donna) e una sottomissione (alla sua incantevole superiorità) che fanno scuola. Non dorme mai -“Ela è de tal beltae complia, / k’el no è miga maraveja / s’el pelegrin per lei se sveja. / An no devrav’el mai dormire”- ed è, di fronte alla sua regina, con il capo chino. Un paradigma per l’eternità. Così un vero uomo deve stare di fronte all’amata, e a ogni donna: “col cavo enclino”.
Walter Galasso
Complimenti Walter Galasso per aver saputo trarre da un documento così antico un insegnamento di alta caratura etica, attuale e potente per i nostri tempi, espresso in una lingua cristallina e carismatica.