DI WALTER GALASSO
Buenos Aires, ultimo mese del 1951. All’inizio della pellicola “Diarios de motocicleta”, diretta dal regista Walter Salles -con un produttore speciale, Robert Redford-, albeggia uno strano tour: progettato come turismo, di fatto diventa un interiore tour de force.
L’equipaggio di questo voyage -il 4 gennaio 1952 lo start- è maggiore d’un lupo solitario e minore di una comitiva: due, il grado zero di un concetto plurale, denominato amicizia. Il più grande è Alberto Granado, e nel futuro sarà abbastanza conosciuto. L’altro, poco più che un pischello, essendo passato solo qualche anno dal suo ventesimo genetliaco, diventerà notissimo, perché si chiama Ernesto Guevara de la Serna. Non ancora il Che, è un guaglione che nella sua effervescente giovinezza vuole esplorare il Sudamerica, magari spassarsela, pur abbinando questo divertissement con un obiettivo legato ai suoi studi, gustare i mille sapori di un ‘semialtrove’ geografico, lontano ma non troppo dalla sua Argentina. Cile, Perù, Venezuela. Stabiliscono pure una sorta di plafond temporale, per così dire, una data entro la quale ultimare la mission -2 aprile, compleanno di Alberto-. Una tipica ragazzata, più comica che epica, uno scherzoso escamotage atto ad alimentare la loro motivazione -tant’è che alla fine del film Alberto confessa che compie gli anni l’8 agosto ed Ernesto non si sorprende affatto, avendolo sempre saputo-. Briosa, leggera giovanilità.
L’ingresso nell’età adulta può aspettare, ma non è contraddetto da questo viaggio, che nelle menti dei due protagonisti -il Che si sarebbe rifiutato di definire ‘deuteragonista’ un amico e compagno- gli è propedeutico. Un soggetto non può essere un saggio uomo senza aver fatto prima, in un’esistenziale rima, un preliminare e giovanile viaggio. Il lungometraggio dribbla politica, rifugge da retorica e non vuole farsi del male, in un autolesionismo masochistico, sfociando in un’atmosfera apologetica. Ernesto è solo uno studente di Medicina, rugbista, che nella vita esercita il mestiere di ragazzo, con tutte le implicazioni di questo termine. Bauscia di rango, nella sua visione del mondo un dettame imprescindibile è l’opportunità di alzare l’asticella così tanto che fra gli spettatori qualcuno si può chiedere “Non la vedo più, ma dov’è finita, forse sopra le nuvole?”.
La road map dei due guasconi parla chiaro: dovranno macinare la bellezza di ottomila chilometri in meno di 150 giorni, attraversare posti come il deserto di Atacama e aree dell’Amazzonia peruviana. L’acme del loro spirito prometeico? La pretesa di definire ‘La Poderosa’ la vettura a due ruote su cui partono, una Norton 500 M18, una moto, come dire?, leggermente meno performante di un bolide, per fotografare con un eufemismo l’esagerazione dei due centauri.
Ci sta, tutto nella norma, sono ventenni non ancora emancipati, e meno male, dai puerili giochi in cui i bambini sono capaci di trattare un triciclo come una navicella spaziale e un pupazzo a guisa di leone come un vero re della foresta.
La débâcle della moto, però, una delusione che li costringerà, in un elastico work in progress, a continuare il trip in un modo rocambolesco, non è avaria meccanica e neppure un’avania by sfiga, non denota un’involuzione dell’avventura. È invece una paradossale evoluzione -all’insegna d’una squisita sorpresa empirica-, quella in cui, a un più elevato livello d’importanza, la coscienza dei viaggiatori, altro che sballo on the road, viene stravolta dalla percezione di drammatiche realtà. Inquietanti disagi che, catalizzando la graduale trasformazione di Ernesto nel famosissimo Comandante, accelerando la loro corsa verso la maturità, educano e nutrono, come un amaro pabulo, il loro Io.
I due esploratori sono giovani borghesi, appartengono a ceti ‘bene’, ma Ernesto è negativamente colpito, strada facendo, dalla diseguaglianza tra suoi pari, gli abbienti di turno, e miserabili, torchiati paria. È turbato da contadini indigenti, da operai vessati, anche in un mobbing ante litteram, dallo stato maggiore d’una miniera. Da una coppia che sta pagando a caro prezzo le sue idee politiche. L’embrionale Che, in questa dolente vigilia della sua grandezza storica, soffre anche per drammi non tipicamente politici, segno della vastità a trecentosessanta gradi della sua inquietudine. Si duole, per esempio, del rozzo scempio commesso dagli autori, in quel di Lima, d’un brutale degrado urbano, demoni che violentano la deliziosa dimensione indigena della civiltà Inca. L’apogeo di questo suo affinamento spirituale è toccato fra i lebbrosi di San Pablo.
La colonia, con gli ammalati ghettizzati nella loro patologia, è affetta da una squallida dicotomia tra personale sanitario, che risiede a nord di un fiume, e i pazienti, a sud: una paradigmatica metafora di chi sta su e chi sta giù in società, fra un eldorado e un inferno. Ernesto non ci sta e, viaggio nel viaggio, emigra a nuoto, sfidando la sua asma, per abbandonare i privilegi dei dottori e agire nel lebbrosario, vicino a quei poveri diavoli a cui ha già regalato, nei panni di aspirante medico, il suo rifiuto d’indossare guanti nel toccarli.
Un movimento fondamentale, d’ora in poi nulla sarà più come prima. Il futuro Eroe -bravo anche a raddoppiare queste res gesta in appunti che diventeranno il mitico diario Notas de viaje (Latinoamericana)- ha deciso da che parte stare: Al otro lado del rio, come recita il titolo di un’opera di Jorge Drexler, canzone che, musica clou della colonna sonora del film, ha vinto un Premio Oscar.
Walter Galasso