LO STRABISMO PER VENERE   [Bozzetto  14]

DI WALTER GALASSO

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   Un artigiano, Lino Nolo, un pallone gonfiato che si crede un fico, cazzeggia, in un break, davanti alla sua bottega, confabulando del più e del meno con Venere Rodomonte, titolare di un vicino negozio. L’uomo, atteggiandosi a scafato piacione, cerca di fare colpo. Ufficialmente fra i due v’è solo amicizia, ma in questo rione il suo interesse per quella sensuale vamp è un segreto di Pulcinella.
   Probabilmente questo aspirante playboy dissimula il suo innamoramento perché paventa di andare incontro a un cocente due di picche. Lui è single, scapolo obtorto collo, dopo che la sua compagna, ormai ex, l’ha prima tradito ben bene con uno stallone di un’altra Regione e poi scaricato senza pietà, dicendogli a muso duro che aveva trovato di meglio. Lei, invece, è felicemente sposata con un mandarino locale, Pinuccio Griso, uno stretto collaboratore del sindaco in carica, suo braccio destro e fulcro del suo inner circle. Insieme sin dai tempi in cui Berta filava, quando, coetanei e compagni di classe al liceo, erano reputati dei fidanzati indissolubili, hanno continuato ad amarsi alla follia, sposandosi, mettendo su con euforia una famiglia, protagonisti di un ménage zeppo di gioie e scevro di attriti. Insomma, la donna è legatissima al suo principe azzurro, lo ritiene un’anima gemella wonderful, ergo molti pensano, con un intenso adynaton, che lei lo tradirà quando il Sole andrà a fare la nanna a mezzogiorno. Lino, sigh, un (larvato) drudo che venderebbe l’anima al diavolo per andare a letto con l’amica e diventarne il nuovo partner, sa bene che questo sogno è quasi un’utopia. Quasi perché ‘mai dire mai’, espressione che lui considera il suo mantra numero uno, però, al netto di sempre possibili miracoli, la sua speranza è piccola piccola, c’è bisogno di un microscopio o una lente d’ingrandimento per percepirla. E allora, barricato in una prudenza che rampolla dalla sua orgogliosa voglia di non fare figure di merda, recita con Venere -di nome e di fatto, essendo molto bella- il ruolo di mero amicone: sempre meglio del nulla, tanta roba rispetto al disvalore ‘niente’.
   Mentre lui s’impegna in un banale bla bla bla, cercando pure, quando possibile, di parlare in punta di forchetta, per apparire un mandrake di eloquenza, tre esercenti ambulanti stranieri, a circa cinquanta metri da loro, esprimono idee, belle, che al cervello di Calogero, un vicino razzista, molto brutto, paiono cazzate sesquipedali. Il leader del trio, Ugochukwu -molti in Italia lo chiamano brevemente Ugo-, un vu cumprà che dà l’idea d’essere un maschio alfa alquanto carismatico, continuando a parlare si china, ghermisce una lunga statua, il pezzo forte della sua merce, e la solleva, nella prospettiva di posizionarla in bella evidenza sul suo carretto. Nel compiere questo gesto non si accorge che la parte finale della scultura colpisce, fortunatamente appena appena, un soggetto in transito, Rocco Papandreo, caro amico di Calogero.
   ‘Sto folcloristico essere è un collaboratore del decano dei commercianti di questa via. Rocco, soprannominato ‘er pigmeo’, ovviamente per la sua bassa statura, è molto conosciuto da queste parti. Lavora nel negozio del suo boss, Gennaro Insigne, da una vita, ne è stato assunto quando era un pischello, e ora è già entrato negli ‘anta’, avendo per la precisione quarantaquattro anni -quantunque non li dimostri-. Il fatto di avere in zona un job da tanto tempo contribuisce a farlo sentire un protagonista di questo quartiere. E poi è un tipo avvezzo ad attaccare bottone, quando passeggia dispensa saluti a destra e a manca, stringe mani, entra in tanti negozi, per dire la sua, scherzare con i titolari e/o i loro dipendenti, raccontare qualche barzelletta -spesso ride di gusto solo lui-, eccetera. Pensa così di essere un personaggio, uno che conta, vanagloriosa presunzione che ha avuto un’escalation quando gli inviati di un’emittente locale, venuti per effettuare un servizio su questa street, lo hanno intervistato, presentandolo come una specie di mascotte dei proletari che sgobbano nelle botteghe dell’artigianato locale. Lui s’è montato la testa, da allora sprizza vanità da tutti i pori, avendo scambiato un quarto d’ora di scadente popolarità per vera gloria.
   Alla luce di questo background si spiega facilmente la sua spropositata e sproporzionata reazione alla disattenzione di Ugo, ‘reo’ di averlo colpito con la sua merce. Come! Passa lui, il mitico Rocco, una star a queste latitudine e longitudine, e quella testa di rapa si permette di arrecargli un guidalesco? Apriti cielo! Il reuccio, pur non avendo subito chissà quale nocumento, per principio s’incazza di brutto, reputando uno ‘sgarro’ il colpo.
   “E che cavolo! Ma dove hai la testa, perbacco! Fai attenzione, nemmeno gli animali si comportano così!”, e inizia a eruttare parolacce, con una brutta cera. Lo straniero all’inizio conta fino a mille, porta pazienza, si scusa gentilmente, “amico, mi dispiace, non l’ho fatto mica apposta, capita”. Siccome il suo signorile bon ton non riesce ad ammansire l’altro, che anzi perde sempre di più le staffe, e inveisce e borbotta e sproloquia e, scriviamolo pure, esula dal seminato e la fa sporca, Ugochukwu, non potendone più, interrompe il suo aplomb. Ha fumato invano il calumet della pace, ‘sto peracottaio non merita rispetto, e ormai pensa che sia solo una masochistica finezza dare ghiande ai porci. “Stammi a sentire, tigre di carta, bulletto da quattro soldi: se non la smetti prima di adesso, se non ci dai un taglio, ti faccio vedere i sorci verdi. M’hai rotto i coglioni con le tue menate, fai meno il ganassa, ché caschi male”. Zero risultati, il nemico persevera, pretende scuse ufficiali, magari fatte ginocchioni, grida allo scandalo.
   Se la cerca. Il marcantonio opta per una prosa brutale: gli dice, additando uno scatolone, che sta per chiuderlo lì dentro, indiretto modo di chiamarlo ‘tappo’, di sfotterlo per la sua statura. Intorno ai duellanti s’è adunata una piccola folla, tanti curiosi che, nei panni di sadici e volgari spettatori, sperano di veder scorrere il sangue.
   Il dottor Giulio Airone, che è da poco uscito dalla sua abitazione e si ritrova davanti a questo potenziale ring on the road, non prova invece nessun interesse verso il focolaio di violenza metropolitana. E, in cuor suo, stigmatizza tutte le persone che seguono, con attenzione trash e scostumata, il climax di antagonismo fra i due galli, invece di dividerli, indurli a un embrassons nous. Va oltre, nauseato da questo litigio.
   Dopo aver percorso una settantina di metri s’accorge che cinque persone, sedute sul bordo d’una fontana, probabilmente turisti, dato che uno spaesato signore stringe in una mano un Baedeker, stanno guardando, ma con scarsa attenzione, il match fra Ugo e Rocco. Vitupera pure questo tipo di reazione. Costoro, infatti, da un lato non commettono il colpevole errore di sperare che quel battibecco si trasformi in un fattaccio di cronaca nera, dall’altro, con i loro occhi pieni di abulica indifferenza, sintomatici di personalità che non se ne possono fregare di meno, denotano di essere affetti da una disdicevole forma di menefreghismo, chiusi a riccio nei fatti loro.
   Meno male che c’è Lino, il quale, spronato a res gesta dalla vicinanza di Venere, pensa di fare un figurone fungendo da paciere tra i litiganti. Il paciere, però, viene aggredito, per quello strano processo che induce certi duellanti, all’arrivo di un missionario che li voglia dividere, a prendersela più col portatore di pace che con l’avversario. Paradossalmente nella sventura è fortunato. La moglie di Pinuccio, infatti, vedendolo malconcio dopo essersi buscato tre cazzotti in faccia dallo straniero, lo soccorre e coccola. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, una pupilla di Lino è orientata verso odio per chi lo ha picchiato e ha ferito il suo orgoglio; l’altra, invece, verso il proverbio ‘non tutti i mali vengono per nuocere’, e forse invia un messaggio per Ugo Ugochukwu: “per favore, mi meni ancora?”. Si può in certo senso dire che si verifichi in lui lo ‘strabismo per Venere’, una variazione sul tema di una nota patologia.

Walter Galasso