DA UN  ‘VERSUS’  DI GUAPPERIA A UN VERSO DI POESIA   [Racconto  7]

DI WALTER GALASSO

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   Guapperia in periferia, e i testimoni, un po’ cronisti di una testata invisibile, un po’ impiccioni, non riescono ad arguire se essa sia un colpo di scena nato ex abrupto davanti a un sonnecchiante bar, oppure se sia l’acme di un graduale e lungo processo di antagonismo fra uomini che non si sopportano e che risultano divisi da un’annosa ruggine. Un’oziosa discussione, zeppa di minutaglie e senza nessuno che attenda a un solenne ministero di cultura, finché si dà fuoco a una strana miccia. L’alterco parte quasi in sordina, due tizi battibeccano per strada. Il volume della diatriba sale gradualmente, in un’escalation non solo di odio ma anche di decibel, e in questo la popolana zuffa somiglia al celeberrimo Bolero di Ravel.
   Nei paraggi dei duellanti alcuni ne paiono intimoriti, e la loro fifa è come la lorica di un armadillo che si chiuda a guisa di palla in un frangente da lui percepito come pericoloso. A nessuno viene in mente di fungere da paciere, la storia della cronaca gronda di aneddoti in cui un missionario, nell’atto di dirimere un’elettrica e delinquenziale tenzone fra briganti, mosso da commovente filantropia, ha sì stoppato il loro attrito, ma solo perché i due rivali hanno smesso di picchiarsi per picchiare lui. Quando infuria il livore meglio non immischiarsi fra chi lo produce come un’industria di cattivi sentimenti: questo il dettame che sta governando la condotta dei cittadini presenti alla scena.
   Sugli orologi scoccano le venti, ora in cui molti cenano, alcuni tradiscono la moglie, altri degustano un aperitivo in qualche locale alla moda, e certi, in zone del mondo ad altre latitudini e longitudini, lavorano sodo nel cuore della mattina. Questo succede quando sono diversi i fusi orari, ‘fusi’ come quei due, pensa un astante che cerca di origliarne la sgangherata e inconsulta prosa e riesce a capire solo che non hanno niente in comune, salvo l’essere tipi malfamati e, appunto, con poco fosforo nella testa. Nel vocabolario di questo spettatore, un glossario miscidato e con molte importazioni da slang dernier cri, fuso sta per scemo, sballato, e nella sua ottica nessun aggettivo al mondo si può attagliare meglio di questo a quel duo di squinternati. ‘Ma perché non andate a praticare salto in alto fosbury, invece di urlare in mezzo a una via?’, pensa altresì questo signore, con uno slancio mentale alquanto bizzarro. In effetti lo sport può costituire pure una palestra di eleganza morale, di civiltà, di tolleranza del prossimo, di ponti eretti non con acciaio o cemento bensì con fair play.
   L’austero profilo di molti casermoni si staglia in questo quartiere. Piani su piani, balconi a pochi metri dalla strada e attici vicini al passaggio di elicotteri, al rumore reboante della rotazione delle loro pale. Alcuni li definiscono piccionaie, altri ammirano la loro guisa altamente metropolitana, ma chi ci abita non si cura né degli uni né degli altri, ha scelto di risiedere in questi grattacieli perché ha reputato che una parte della loro spazialità possa ospitare benone il proprio ménage famigliare: questo sembra trasparire dalle luci artificiali che emanano da tante finestre. Par di immaginare -dietro quei serramenti adesso blindati in un ermetismo che sfida il freddo invernale-  famiglie intente a cenare in serenità, con la tavola imbandita e un televisore acceso in un angolo mediatico. Formaggi, pastasciutta, panini con la mortadella, battute qualunquiste, genitori bravi a fare domande ai figli e questi bravissimi a non rispondere o a far finta di esaudire quella curiosità didattica.
   Nella fase postprandiale qualche cittadino sovrappeso si accinge a guardare un banale film spaghetti-western, il cui protagonista è il suo attore preferito perché assume un’aria da duro come lui vorrebbe fare:  si sdraia su un divano di quindici anni, con la testa su uno stropicciato cuscino, e contempla a distanza la moglie, che sparecchia e gli parla della sua scoperta, in mattinata, di un supermercato ancora più economico di quello dove essi si recano abitualmente. E poi, vicino a un cane pronto a essere portato a spasso, qualche rutto dalla bocca di un parente, che vuole abbandonarsi a un umorismo di serie C, oppure c’è uno studente liceale, dall’aria intellettuale, che invece partorisce qualche battuta polita, farcita di raffinato humour di matrice britannica.
   Lì dentro, in quelle abitazioni, chi le osserva dal basso immagina questi spaccati di quieta quotidianità, e li contrappone ai due avanzi di galera, attori di una discussione che se non corresse il rischio di degenerare in una scazzottata, e non eccedesse i limiti di una batracomiomachia fra deficienti, farebbe solo ridere. Invece ‘sti gaglioffi sembrano prossimi a prendere le distanze dai dettami del pacifismo, hanno i nervi tesi e superano, quanto a belligeranza, quegli strateghi che si dedicavano alla poliorcetica per studiare la maniera migliore di espugnare una roccaforte nemica.
   Difficile, per chi non li conosca, stabilire il casus belli. Qualcuno ipotizza che, ex ladri in combutta, non si siano accordati sulla maniera più equa di spartire il grisbi. Altri, meno prevenuto, esclude che appartengano alla mala, e si limita a congetturare che uno dei due aveva promesso all’altro di aiutarlo a trovare una buona greppia, magari presentandolo a un politico di sua conoscenza, e poi ha derogato a questo impegno, sicché ora viene tacciato di essere fedifrago più di un marinaio che garantisca una fideiussione a un amico e poi si rimangi quel che ha detto, esclamando ‘Io fare il mallevadore del prestito che hai chiesto alla banca? Ma quando mai!’. Appurare una verità è spesso un’impresa ardua: capire perché due giovinastri siano in procinto di una colluttazione può essere complicato come stabilire la quintessenza del contrasto fra Bene e male.
   I potenziali pugili sono davanti a un locale pubblico, in uno spazio occasionalmente adibito a informale ring. È probabile che ne siano usciti poco fa, proseguendo fuori un’accesa discussione iniziata dentro, ma la popolazione di quel pubblico esercizio si guarda bene dal dare confidenza a questi riottosi personaggi. Le loro urla e i loro grugniti stanno lievitando in un climax teppista e il titolare dell’attività commerciale, Stefano Prenzi, asserragliato dietro l’ingresso, fa finta di niente. Se questa vertenza retrocede a fatto di cronaca nera, e le forze dell’ordine vengono a porgli qualche domanda, lui probabilmente rimpinguerà la già copiosa schiera di persone omertose.
   La dialettica scarseggia, cominciano a volare parole grosse, il tono dell’abboccamento ha qualcosa in comune con una tauromachia, ma non si capisce a chi spetterà il ruolo del bovino, mentre il manesco vicino faccia il vincente torero. Discutono con inconsulta animosità e si spostano, gradatamente, e si avvicinano al bar di Stefano, poveraccio, che nel frattempo stava auspicando l’esatto contrario, cioè che si trasferissero in un’altra strada, in un altro quartiere, in un’altra città, in un’altra Regione. Tanti i motivi di questo auspicio, quantunque, in teoria, l’esercente e barman non dovrebbe sentirsi parte in causa. In effetti non lo è, però lui teme di esserne coinvolto in qualche modo. E se sparano, e un proiettile vagante arriva a fare un foro nella sua incolumità? E se lanciano un sasso a mo’ di pugno nello stomaco e, per un mix di aberratio delicti e aberratio ictus, la pietra colpisce non il mirato bersaglio ma lui, e invece di far male solo un po’ gli rompe addirittura la testa?
   Detto per inciso, quest’uomo si è iscritto anni fa a Giurisprudenza, anche se non si è mai laureato, e forse quei suoi studi, a suo tempo abortiti, adesso fungono da parziale matrice di queste preoccupate ipotesi. Evidentemente, però, a parte la colta consapevolezza delle ‘aberrazioni’ in cui può confluire un eventuale reato di quei facinorosi, questo cittadino attualmente versa soprattutto in uno stato di allerta pavido, avido di troppi antifurti nella sua voglia di sentirsi al riparo da qualche ente o evento.
   Non si può negare che il suo atteggiamento tradisca molecole di vigliaccheria. Qualcuno, se fosse capace di leggere nei suoi pensieri, potrebbe sostenere che somigli a un coniglio, il mansueto e fifone quadrupede che, a detta di tanti, si spaventa pure del vento. Se in questo momento al posto di Stefano ci fosse Garibaldi, con la sua coraggiosissima barba, certo non si comporterebbe così, e dichiarerebbe guerra, in nome della pace, alla violenza di entrambi i litiganti, prendendoli a ceffoni su due piedi. E dire che il signor ‘Steno’ spesso fa il duro quando, in compagnia di Mara, la sua donna, le ostenta gagliardia.
   Un quartiere che venga presentato da molti come uno spazio malfamato è certo una sentina di rischi, però fino ad ora questa mezza rissa, che il marito di Mara sperava fosse solo uno scontro ‘orizzontale’ fra illegali caimani -match fra pari rapaci e non offesa a una preda da parte di un predatore-, tale è rimasta. In quel duo ognuno vuol male all’altro e basta, si stanno limitando a fronteggiarsi come due montoni che confliggano corna a corna, e lo stanno facendo non in un locale pubblico, o in mezzo alla folla, o dicendo a qualcuno “tu, bastardo, che hai da guardare, mo ti spacco la faccia!”, ma in mezzo alla strada, lontano dalla gente, e quindi anche da Stefano, che ne fa parte. Dunque perché questi è inquieto? Perché, appunto, nel suo cuore e nella sua mente alberga ‘anche’ il contrario del coraggio.
   Anche: la sua interiorità, infatti, in questo mentre è una sorta di miscellanea fra disparati elementi. Alla legittima preoccupazione di un’aberratio, e all’illegittima paura di una minaccia troppo vaga per essere vera, si aggiungono come minimo tre contenuti di coscienza.
   Primo: a parte la sua paura fisica, lui teme che, se questo duello vada a finire male, e lui sta lì, spettatore suo malgrado, la Polizia e poi la Magistratura possano escutere la sua testimonianza, e la sua parte più cheta non vuole rogne. E se uno dei due uccide l’altro? Chissà quante volte lo convocherebbero in un Tribunale per fargli dire e ripetere la sua versione dei fatti, e per chiedergli se le sue orecchie e i suoi occhi si ricordino chi dei due ha iniziato, e se l’omicida, prima di diventare tale, abbia esternato un progetto assassino, oppure se abbia solo gridato ‘ti mando all’ospedale’ e poi la situazione gli è sfuggita di mano -ci risiamo con le ipotesi di un reato perpetrato in modo diverso rispetto alle originarie intenzioni-. Stefano non c’entrerebbe, per carità, però gli piace anche l’idea di non entrare mai in un Foro, nemmeno nelle vesti di teste, preferisce non essere coinvolto in nessun modo in una storiaccia e nei suoi derivati legali.
   Secondo: nonostante le sue eterogenee ansie, vi è anche, nella parte più torbida del suo Io, una morbosa e positiva pulsione, che lo spinge a guardare con interesse quell’alterco. La prospettiva che arrivino a picchiarsi lo intriga, gli piace vedere uno che dà botte e uno che le prende, qualche schiaffo, o addirittura pugno, un naso rotto, un occhio pesto.
   Terzo -e qui scatta forse il maggior colpo di scena, perché questo punto è quasi in perfetta antinomia col precedente-: è anche turbato e dispiaciuto all’idea che un uomo possa soffrire. Lo spettatore che teme per la propria incolumità, che vuole evitare il dovere di deporre davanti a un giudice, che sadicamente gusta la violenza patita da altri -come un tempo tanti godevano nel vedere un gladiatore combattere contro un collega o un leone, nella speranza di un macabro esito della gara nell’agone-, è pure, e forse soprattutto, capace di sperare la pace.
   Pace alla fine non è, ma nemmeno corrida, con un espada che, impietoso matador, umilia un cornuto toro senza nemmeno l’aiuto d’una banderilla e d’un picador. Quando il volume del bolero di ira -diciamo pure, coniando un nuovo termine, ‘bolira’- giunge al diapason, tanto che molti, nei palazzoni di cui sopra, si affacciano al proprio balcone, il bullo più robusto spintona l’altro, poi sferra un mezzo pugno -ma sembra più un allenamento preliminare a un successivo e più aspro assalto che non un preciso lancio di un danno-. Infine gli mette una mano in faccia, e questa è l’offesa che più somiglia a un’arma. O forse no, perché la maggiore crudeltà è fatta di parole: “Attento a quello che fai, giuro che ti ammazzo, sporco tossico”. Un suo compare, che lo aspetta in un’auto, abbassa il finestrino e gli dice “Max, lascia stare, dai, andiamo”, e Massimo è d’accordo, salendo a bordo con arrogante nervosismo.
   Mentre quel veicolo sgommando se ne va, Stefano, prima ancora di pensare ‘finalmente’, prova un’inquieta compassione per l’altro giovane, quello che ha perso. Non ha preso botte dal rivale, poteva andargli peggio, però, a giudicare da quell’insulto, è una persona che sta male. Adesso il barman sa che è un drogato, e gli dispiace. Questa nobile somma di solidarietà e pietà, che continua a serpeggiare in lui mentre abbassa la saracinesca del bar, è il momento migliore di tutta la sua reazione. La collera, poco dopo l’acme della sua progressione, vira a qualcosa che somiglia al parnaso, il ‘versus’ fra antagonisti in una periferica guapperia si trasforma in certo senso in un verso, simile a quello di un sonetto, perché la fratellanza è sempre una forma di pratica poesia. Un letterato, uno scrittore che ama il pacifismo anche quando narra la malavita e non la utilizza per avere successo, potrebbe titolare: “Certe volte il ‘level’ dell’ira sale, tale e quale il Bolero di Ravel, ma poi vira a solidale lira”.

Walter Galasso