QUEL CHE RESTA D’UNA GIOVINEZZA   [Bozzetto  16]

DI WALTER GALASSO

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   Il signor Peppino Loiacono -un buffo paria, reietto in balia dell’altrui indifferenza- ozia, come un tapino perdigiorno, vicino a un distributore di benzina. Egli, pensionato e scapolo, abita nei paraggi di queste pompe, e suole rompere le scatole a Gennaro Trego, il titolare dell’esercizio, facendogli visita molte, troppe volte, piazzandosi nel suo ufficietto, attaccando bottone su argomenti terra terra, e molestie varie. Lui è un uomo sfaccendato, e non capisce che Gennaro, invece, ha da servire i clienti, e non ha tempo da perdere.
   In genere ne viene garbatamente sopportato, ché quel quarantenne ha la pazienza di Giobbe, talvolta è pio e misericordioso come uno stinco di santo, va incontro a un simile in difficoltà, e capisce che un soggetto ammalato di sfigata solitudine è bisognoso, drammaticamente, di benevola confidenza.
   Oggi, però, questo galantuomo non ne ha potuto più e ha perso le staffe. Assente un suo collaboratore -impegnato, come testimone da escutere, in un processo-, il lavoratore stava attendendo al suo dovere. C’era una fila di automobili, la maggior parte delle quali in attesa di un rifornimento di benzina senza piombo. Ci teneva a soddisfare nel migliore dei modi questi ‘ospiti’ -chiama così, con gentilezza linguistica, i suoi clienti- quando, all’improvviso, si è materializzata la curiosa figura di Peppino. Male in arnese -il suo look è di poco superiore alla mise con cui si prepara la mattina, poco dopo essersi svegliato, la prima colazione, con un pigiama da quattro soldi e pantofole parzialmente rotte, nonché puzzolenti-, i capelli arruffati in modo ridicolo. E poi con un paio di occhiali decisamente d’antan -la domanda sorge spontanea: che aspetta a cambiarli, e a prendere una montatura più trendy?-. Camminava barcollando, con le gambe che facevano giacomo giacomo, come se si fosse scolato, di prima mattina, una bottiglia di lieo. Si è appropinquato lemme lemme all’indaffarato benzinaio, che già stava andando in paranoia nel vedere ‘sto scansafatiche a un tiro di schioppo, e ha iniziato a chiedergli se avesse visto, la sera precedente, uno show in tivvù. “Te lo chiedo perché Claudio Preno, un comico che mi fa sempre sbellicare dalle risate, ha fatto una performance più esilarante del solito, e”. L’altro lo ha stoppato traumaticamente, mentre stava dando il resto al proprietario e pilota di un gioiello Mercedes: “Peppì, sto lavorando, non hai occhi per vedere? Non mi scocciare con le tue fregnacce, parliamo un’altra volta di quel guitto”. L’umiliazione è stata servita, su un piatto simile a un’arma. Una batosta senza se e senza ma, un cicchetto impietoso. La sua vittima, sbiancando, restando di stucco di fronte a questa inaspettata e scorbutica reazione, ha fatto dietrofront, avviandosi, con la coda fra le gambe, verso la sua maison. Al che il signor Trego, dispiacendosi un po’ e temendo di essere stato troppo duro, lo ha invitato a restare. “Non ti ho mica detto ‘sciò, pussa via!’ Mo pure permaloso sei diventato? Non ti bastavano tutti i difetti che hai da sempre? Stai qui, burino. L’essenziale è che non mi disturbi quando ho da fare”. Lui, nonostante il tono negativo -di sufficienza, al confine con la tolleranza che si regala, per carità cristiana, a un ilota-, ha accettato, senza dignità, questa specie di elemosina.
   E adesso cammina, avanti e indietro, nelle adiacenze di un autolavaggio inerente alla stazione di servizio, ogni tanto guardando il suolo. Che avrà da fissare? Si comporta proprio come un soggetto in preda a una squallida alienazione. Un fallito che non riesce proprio a duellare idealmente con la Noia, cercando di impreziosire il suo tempo con qualche attività che in un modo o nell’altro aumenti il livello della sua reputazione. Forse, ai margini dello Stato, lungi da qualsivoglia forma di protagonismo nella cosa pubblica, strada facendo, a furia di fare figure di merda ha smarrito pure la capacità di vergognarsi a causa d’una brutta sconfitta. Abulico, spaesato nella Via Lattea, pinco pallo che nel sistema conta meno di un punkabbestia, ‘sto personaggio s’è del tutto assuefatto alla sua debolezza sociale, e nemmeno si rende conto che gli altri lo vedono, otto volte su dieci, come un uomo da buttare, una specie di umano vuoto a perdere.
   A un certo punto questa macchietta, siccome sor Gennaro gli ha sì dato il nullaosta per restare, ma continua a non filarselo proprio, con tutti parlando meno che con lui, decide di rincasare. Meglio tardi che mai. Apre la porta della sua abitazione avendo un languorino di stomaco. Dalla residenza d’una vicina, Amelia, proviene infatti un odore di ghiotta torta, quella donna in cucina ha proprio le mani d’oro, prepara Delikatessen da leccarsi i baffi, e Giuseppe, che ne invidia il marito ‘pure’ per questa bravura culinaria, ha l’acquolina in bocca. Apre il frigorifero, un elettrodomestico che potrebbe essere esibito in un museo, tant’è grave l’indice della sua obsolescenza, e ne estrae un budino al cioccolato. Controlla la data di scadenza, tutto o.k., ne apre la confezione e comincia a divorarlo. Uhm, squisito!, slurp, chapeau! all’azienda che l’ha prodotto. Saggiamente, pur avendo ancora fame di leccornie dolci, l’uomo, paventando di poter ingrassare se non metta un freno alla sua ingordigia, decide di stoppare, per il momento, i suoi peccati di gola. Si reca nel bagno -un gabinetto alquanto fetente, ché lui non è il non plus ultra dell’igiene-, per una minzione urgente. Ah, che sollievo fare pipì! La stava trattenendo da un paio d’ore. Poi avverte l’esigenza di rinfrescare il viso. Sul lavabo, facendo giumella delle mani, si lava nervosamente la faccia, guardando en passant la propria immagine riflessa nel prospiciente mirror. Con il mento ancora un po’ bagnato esce dalla toilette e, avvertendo un cupo senso di claustrofobia per un paio di secondi -arco cronologico che nel suo tempo interiore equivale a una durata piuttosto lunga-, desidera evadere da questo immobile. È il suo nido, un guscio in cui spesso si tappa sentendosene protetto, eppure adesso lo percepisce come un’asfittica prigione. Il suo fragile animo è affetto da diverse paturnie, lui stesso, al netto delle cazzate che spara quando con qualcuno parla di sé, è consapevole di essere abbastanza nevrotico, e talvolta questa precarietà interiore viene a galla.
   Oltrepassa la soglia dell’house come un bandolero, rinchiuso in una casa circondariale, possa riuscire a scapparne calandosi con un lunghissimo e resistente lenzuolo da una finestra. Quando è di nuovo en plein air, e le sue froge percepiscono un freschissimo ossigeno, e la sua mente ha la sensazione di essere un pesce boss mentre nuota in un oceano chiamato ‘Libertà’, il suo Io, entusiasta come un bambino che giochi spensierato, tira un sospiro di sollievo. Passeggia in un podere di sua proprietà, esteso mezzo ettaro, contiguo alla sua casa. Poi si reca nel box  -lungo 518 centimetri, largo 4,11 metri-  per contemplare la sua moto di grossa cilindrata. Quando, in un passato purtroppo remoto, provava l’emozione di un infinito futuro davanti e la guidava ogni giorno, anche sotto la pioggia, aveva la sensazione d’impersonare la Grandezza. Si sente meglio: solo un po’, ma anche ‘poco’ è tanta roba in un deserto. Almeno lei, il suo cuore ne è certo, gli vuole bene. L’accarezza, la possiede da quando era un ragazzo, è quel che resta della sua giovinezza.

Walter Galasso