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COVER
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DI WALTER GALASSO
Straniero sì, ma canta in italiano, mentre i suoni, della sua chitarra come di ogni strumento, sono internazionali. In questo punto del corridoio alita un forte vento, frutto di folate incrociate. Lo si può definire irruento ma non troppo, essendo una corsa a diversi nodi, baldanzosa e minacciosa per chi sia sudato, quantunque questo improprio wind non arrivi all’intensità dei soffi percepibili talvolta quando, su una banchina della metro, sta per giungere una vettura -si legge sul display un rassicurante ‘in arrivo’- e in alcuni punti l’apparato sensoriale degli utenti registra una corrente impetuosa. Diciamo che il cespuglioso crine di Henrik è sottoposto a diverse oscillazioni, e soprattutto un insieme di fogli su cui questo artista legge alcuni testi -delle canzoni che intona e che evidentemente non ricorda a memoria- rischia di spiccare un disordinato volo e fuggire dalla vista del giovane. Queste pagine sono state posizionate su un leggio artigianale, dal supporto alquanto corto, e il norvegese le sbircia come a teatro un attore può, con la coda dell’occhio, mutuare da un gobbo le esatte parole che deve recitare nella pièce in corso.
Nessuno si scandalizzi, è una pratica piuttosto in voga, spesso anche in spettacoli televisivi succede -anche se gli spettatori da casa non se ne accorgono- che su un grande monitor i cantanti sul proscenio possano comodamente leggere le frasi che costituiscono la teoresi di una loro canzone. Per non parlare del gioco del karaoke: persone assolutamente all’oscuro dell’esatto testo di un brano possono cantarlo partitamente, dall’inizio alla fine, vedendo su uno schermo, grande o piccolo che sia, tutta la breve opera letteraria di cui esso consta.
E del resto, a parte questi esempi, non si contano tutte le circostanze sociali in cui sembra che un soggetto stia andando a braccio, stia improvvisando, stia esprimendosi con parole sue, e invece, in modo patente o attraverso sotterfugi di occulta ‘copiatura’, fa come una cocorita che ripeta pedissequamente quel che sia stato pronunciato nei suoi paraggi da qualche persona. Tante fette di mondo pullulano di gente che, nel dire tot parole, le legge su qualche superficie amica, e la stessa tendenza ad allinearsi fortemente con una certa tradizione, nel terrore di deflettere da ciò che più troneggi nell’attuale conformismo, è una maniera di prendere ordini da un’opera preesistente, di genuflettersi di fronte a un consolidato discorso che faccia testo. Invece che inventare nuove strade, magari in prode attrito con lo status quo, tanti si mettono sull’attenti di fronte a un ideale libro sociale, una immensa pagina su cui è stampata una sequela di imperativi graditi al sistema, e il cittadino ligio alla tradizione ne legge ogni parte, con una fedeltà che rasenta l’effetto fotocopia, e ogniqualvolta si ritrova davanti a una virgola dice al pubblico ‘virgola’, tanto è forte in lui la voglia di essere adattato.
Il copyright di questa digressione è dello stesso Henrik, che sta spiegando il perché di quei fogli a una ragazza, fermatasi ad ascoltarlo e incuriosita dal fatto che il giovane non abbia bisogno di una partitura su cui seguire note, ma non possa prescindere dall’ausilio di quei testi. La bionda, in sostanza, gli ha chiesto come mai, così bravo a ricordarsi ogni croma e biscroma, ogni bemolle e diesis, debba poi avvertire il bisogno di spiare quel ‘gobbo’ cartaceo: “ma sbaglia pure le parole, che fa!”. Il norvegese, dopo aver interrotto il suo concerto e aver messo la sua guitar da parte, ha cominciato a dirle che riprovevole non è un artista che esempli la sua prosa su un modello scritto e cartaceo, ma un cittadino che rispetti ogni moda in maniera acritica, come se tutti i paradigmi dell’attualità siano il Testo e una persona che debba agire nel loro contesto sia in gamba se si infeuda al loro contenuto senza alcuno slancio libertario e rivoluzionario.
Un discorso alquanto ingarbugliato, per certi versi pretestuoso, eppur non privo di una sua opportunità. Possiamo ravvisare in questa divagazione forse un tentativo del giovane di provarci, di attaccare bottone, e altresì la scelta, per inseguire il sogno di fare breccia nella considerazione della girl, di un discorso che immediatamente le faccia capire di che pasta sia fatta la sua tempra. Vuole, con le sue sorprendenti parole, fare subito colpo, a costo di allontanarsi, nella risposta alla domanda della romana, dal senso più preciso dell’osservazione fattagli da Paola -così si chiama la bionda, ché un’amica, insieme a lei, le ha detto, dopo che Henrik ha iniziato il suo intervento orale, “dai Paola, andiamo, ché il negozio poi chiude”-.
A parte la maniera in cui l’istrione ha commentato il suo rapporto con il pittoresco leggio e quei fogli A4 pieni di parole, a parte quindi il nesso, più o meno calzante, fra un artista che non canta le proprie canzoni a memoria, leggendole da qualche parte, e il cittadino che si uniformi a tutte, ma proprio tutte, le regole della società in cui egli è affaccendato, diciamo che il cantastorie norvegese non può essere tacciato di chissà quale colpa dal punto di vista della potenza della sua memoria. In fondo questo pensatore, proveniente dall’atmosfera scandinava e coraggiosamente propenso a esprimersi in una lingua straniera, è perciò giustificato. Guai a lui se uno dei preziosi fogli spicchi il volo come un uccello esca da una gabbia e il suo amico uomo che lo ospita a casa propria lo veda scomparire all’orizzonte, senza potersi rivolgere a qualcuno per essere aiutato a ritrovarlo. È già tanto che si sforzi di esprimersi nella lingua del Paese in cui è emigrato, visto che molti fanno l’esatto contrario, cioè cantano in una lingua diversa dalla propria per darsi un tono, per far vedere che sono internazionali, esotici, muniti di suggestivi addentellati in un altrove glamour.
Henrik sta dimostrando di andare incontro alla gente autoctona e anche di tenere molto a farsi capire da chi lo ascolta, di credere fortemente in quello che dice nelle sue canzoni e di nutrire uno spiccato anelito a inviare al maggior numero possibile di persone questi pensieri. Vuole comunicare davvero, emanare messaggi che giungano forti e chiari a destinazione, e quindi canta in italiano mentre è in Italia, e consulta dei fogli affinché riduca al minimo il rischio di sbagliare qualcosa nella sua oratoria di musicista impegnato.
L’amica di Paola, Selvaggia, la donna che poco fa ha tentato di dissuadere la compagna di shopping dal dare troppa confidenza a questo tipo, deve prendere atto del mezzo successo che costui sta riscuotendo con la sua interlocutrice, la quale non arriva ad annuire platealmente, anzi non ha nemmeno capito che cosa questo beat voglia dire con esattezza, però ha intuito che non è fesso e gli sta dando corda. Forse le parole sono un pretesto, forse la ragazza è interessata allo straniero dal punto di vista erotico e qualsiasi cosa lui dica è propensa a non contraddirlo. O forse no. Saperlo è impossibile. Un cronista di un giornale, però, si sentirebbe in dovere -qualora per assurdo il suo caporedattore gli intimasse di origliare ben bene un discorso fra un artista di strada e una passeggera della Metro- di riferire alla sua testata che la donna, anche se stia qui soprattutto per attrazione amorosa, rispetta il suo nuovo amico.
Quel paragone fra chi su un proscenio spia un gobbo teatrale e un cittadino che legga sull’attenti la Tradizione, confronto che nella prosa del musicista è sfociato in un’accusa del conformismo, l’ha spiazzata: non le è arrivato in maniera nitida, però in qualche modo le è piaciuto. Ci vuole vivacità mentale per imbastire un’allegoria del genere, e pazienza se non sia perfetta a livello logico, in fondo questo Henrik mica vuole vincere un premio letterario. E poi, non si può negare, una ragazza come Paola -ricca dentro, assai intelligente, curiosa- tende ad ammirare un uomo alternativo, uno che in maniera temeraria sfidi le convenzioni, fugga -veloce come una lepre e ardito come una tigre- dal rischio di una sterile aurea mediocritas.
La donna, quindi, decide di fermarsi qualche minuto e di continuare questa chiacchierata, anche se cambia relativamente argomento, restando nell’ambito di discorsi ‘contro’, ma dando alle proprie parole una piega più semplice. Così concilia l’utile e il dilettevole, seguita a imbastire un cicaleccio di qualità e imbocca un sentiero meno criptico. Selvaggia capisce e se ne va, si arrende: il suo tentativo di screditare questo straccione è andato a vuoto, allora dice all’amica che lei intanto si incammina, poi si sentiranno al telefono e, se ancora si ritrovi nel negozio, l’aspetterà davanti a quegli abiti costosi, altrimenti si aggiorneranno a data da destinarsi. Henrik batte Selvaggia 1 – 0, e senza nemmeno la necessità di disputare i tempi supplementari. L’avvenente strega ha perso, lui può gustarsi qualche altro minuto in compagnia di questa affascinante e sensibile bionda, che, in mezzo a tanta gente indifferente alla sua voce e alla sua chitarra, lo ha degnato di attenzione, ed è già tanto.
Paola, dopo il rito delle presentazioni, gli dice che l’altro giorno una sua conoscente l’ha combinata grossa. Si parlava del più e del meno, la conversazione è scivolata sul cognome ‘Paganini’ e, per farla breve, costei lo ha associato solo ed esclusivamente a un giocatore. Lei, racconta a un esterrefatto Henrik, le ha detto: “Ma stai scherzando? Ma davvero ti viene in mente solo un giocatore quando senti questo nome?”. Ebbene sì, la tizia le ha ribadito che non capiva a chi volesse alludere, se non a quello sportivo. Il norvegese -nel frattempo si è ovviamente alzato e tutto il suo apparato di apparecchi musicali è in stand-by- allarga enfaticamente le braccia, poi esclama “No!!!, non è possibile!”. Fra i due, insomma, c’è un po’ di feeling, si sono sintonizzati sulla medesima frequenza, lei sta pigiando il tasto della diffusione di ignoranza banale, d’insensibilità artistica, una lacuna talmente bieca da addivenire a una forma pazzesca d’incultura cosmica.
Il suo cervello, prima di selezionare nel database di possibili argomenti questo aneddoto, probabilmente ha pensato di far felice il suo destinatario, a maggior ragione se si consideri l’indole musicale della citazione. Lui, è vero, non milita nella musica classica, però sicuramente non può che inchinarsi di fronte alla maestà di un violinista così eccelso e non può che inorridire innanzi al fatto, davvero assurdo, che qualcuno possa non conoscerlo. La storiella amalgama ancor di più questa coppia, stringe i due giovani in una solidarietà dotta e all’avanguardia, contestataria e al tempo stesso ‘apollinea’. W la cultura, quali che siano i suoi contenuti di volta in volta esaltati da atleti della sua venustà.
Lungo questo crinale diventa facile intrattenersi ancora molti minuti in tale interscambio teoretico. Non solo risulta vinto ogni possibile imbarazzo -dovuto alla conoscenza così acerba-, ma addirittura si arriva a una situazione nella quale congedarsi reciprocamente sarebbe più innaturale che permanere in questo dialogo. Come si fa a troncare, ex abrupto, cotanta riflessione? Starebbe male, dopo aver sfiorato i massimi sistemi, dirsi ‘beh, allora ti saluto, buona fortuna, bye-bye’ e convenevoli vari. E infatti continua per ben dieci minuti il mutuo stage -quando si parla seriamente, e non in modo superficiale e insincero, ognuno impara sempre dall’altro-. Il bla bla fra i due può dunque procrastinare il proprio ‘The End’ e andare a gonfie vele. Intorno alla coppia un flusso nervoso di gente diretta ai binari, o da essi proveniente e a caccia della via d’uscita, impazza come una copiosa quantità di azioni indirizzate a un urgente fine, a uno scopo sociale che, talvolta, può tenere sotto scopa la loro serenità poetica.
Walter Galasso