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DI WALTER GALASSO
Un ottimate, Ambrogio, appartenente al gotha della finanza nella sua città, è sovrappeso, con la pappagorgia, una pancia che lo costringe, nell’uso della cintura, a inserire l’ardiglione della fibbia nel primo dei buchi della ‘cinghia’. Lui preferisce questa terminologia per riferirsi a questo capo di abbigliamento, poiché nel suo cervello risuona, con ripetitività quasi ossessiva, l’espressione ‘tirare la cinghia’, ricordandosi di quando non era ricco come adesso. L’aspetto più curioso ed esilarante di questo suo linguaggio è che da un lato oggigiorno per lui costituirebbe l’attingimento di un sublime valore la possibilità di stringere la cinta; dall’altro, in una caratteristica che dimostra come i luoghi comuni possano essere sbagliati, anche quando non era diventato un sardanapalo il comm. era comunque grosso, onusto di adipe, così ‘overweight’ da poter essere presentato, da qualche dietologo intento a delucidare un buon regime alimentare di fronte a un paziente, come un modello da ‘non’ imitare.
Non si è tenuto conto di queste contraddizioni quando, dopo una certa sedimentazione, si è cristallizzata l’espressione ‘tirare la cinghia’, per alludere a una persona che, indigente, mangi poco, e per questo dimagrisca troppo e debba inserire il dardillon -per dirla all’antica maniera provenzale- in un buco molto distante dall’inizio della striscia. Questo imprenditore anche quando guadagnava solo spiccioli mangiava discretamente, ghiotto di bombe caloriche come Delikatessen e frutta secca, ed era obeso, doveva ricorrere alle cosiddette taglie forti, non riusciva a essere atletico nelle sue movenze. Dopo aver scalato le vette del suo successo finanziario -sia pur con qualche problema con la giustizia, soprattutto per una storiaccia di aggiotaggio- si ritrova, in questo suo odierno appesantimento, a non doversi certo rallegrare per la sua impossibilità di stringere il maledetto ‘serpente’.
Del resto l’incongruenza di questa espressione è a monte, perché appare lapalissiano che il dover praticare ulteriori fori rispetto a quelli già presenti nella cintura, per usare il primo da destra, è un grande valore, altro che disvalore! Ambrogio, al contrario, non può permettersi di acquistare una ‘belt’ di taglia unica: la ricerca commerciale di questo accessorio -da lui effettuata in genere presso store di alta moda- implica per forza la richiesta di una misura extra-large, come minimo 130 -il suo record è 139-, numero che lui quasi bisbiglia alle commesse di turno, evidentemente vergognandosene.
Gli addetti alle vendite presso una boutique tendono, nei casi più politically correct, a non battere ciglio quando un facoltoso cliente, in palese sovrappeso, sia a caccia di taglie comode. Con tatto reagiscono alle domande dell’avventore recitando la parte di chi interpreta quelle misure come cifre normali, diverse e non inferiori rispetto a quelle che si attagliano ai grissini. Fanno bene, anzi benissimo, è un imperativo categorico il dovere di rifuggire a priori da colpe come il body shaming. Sono muniti di buona creanza e razionalità, trattano un cliente non magro con bon ton, evitando di ferirne l’orgoglio.
Nel caso di Ambrogio, però, è la sua psiche a farsi del male. Il suo complesso d’inferiorità lo induce a reputare l’onore di macho inversamente proporzionale alla stazza: il peso aumenta e la fierezza diminuisce. I venditori, muniti anche di qualche slancio da psicologi dilettanti, cercano di regalare consolazione ad Ambrogio o alla sua consorte, anch’ella non ‘acciuga’, per dirla eufemisticamente, essendo definita da perfide e villane amiche una ‘balena’. Tuttavia queste premure non sono sufficienti a guarire la scarsa autostima di questi poveretti, che restano complessati, non si sentono nel proprio elemento, hanno l’impressione di muoversi nella galassia con goffaggine.
Mister Ambrogio ha l’affanno, è più alenante in senso fisico che anelante a livello morale. Quando conciona in pubblico i vocaboli della sua retorica sono inficiati da un gaglioffo fiatone. Nella sua comitiva -una sorta di ‘demi-monde’- gli amici lo bersagliano di battute sovente relative alla sua alimentazione: asseriscono in modo ridanciano che lui è una buona forchetta, gli danno del buongustaio, sostengono che se lui mette piede in un ristorante, questo locale, nel giro di un’ora, entra in crisi, egli svuotandone la cambusa. Amenità, proferite spesso lungo un crinale di simpatico umorismo. Non vogliono offenderlo, anche perché pensano che ormai il suo essere un omaccione sia un dato ampiamente metabolizzato, a livello mentale, dalla sua capacità di sdrammatizzare i propri limiti sportivi. Non sanno che, nonostante il suo fare buon viso a cattivo gioco -egli ride quando loro lo sfottono su questo argomento-, in cuor suo ci rimane male. Ogniqualvolta è fatto segno di queste prese in giro -che per lui esprimono uno sciocco spirito di patate- cova risentimento, non riesce a prenderla con filosofia -e del resto è allergico a questo termine!-, pensa che, dietro l’apparenza di innocue celie, queste cafone boutades rispondano al deliberato proposito di umiliarlo.
Quando, in qualche televendita, percepisce un miracoloso prodotto dietetico, sponsorizzato come una panacea per chi abbia il problema di dover dimagrire, inveisce contro queste truffe mediatiche, dato che ha già fatto assegnamento più volte su queste porcherie e mai la sua decisione di assumerle -spesso facendo smorfie di nausea nell’atto di berle o mangiarle- ha prodotto i frutti sperati.
Tirare la cinghia? Beh, se da un lato questa espressione gli ricorda i tempi in cui era a corto di quattrini, da un altro gli fa pensare: ‘Magari!’.
Walter Galasso