EMANCIPAZIONE DELL’ ARTE, EMANCIPAZIONE DELL’ ARTISTA   [ESTATI PIOVOSE – Introduzione]

EMANCIPAZIONE DELL’ ARTE, EMANCIPAZIONE DELL’ ARTISTA   [ESTATI PIOVOSE – Introduzione]

EMANCIPAZIONE DELL’ ARTE, EMANCIPAZIONE DELL’ ARTISTA   [ESTATI PIOVOSE – Introduzione]

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COVER

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DI GABRIELE BOCCIA


Quando ci si appresta a scrivere una poesia, per lo meno nel mio caso, la si considera come un unicum, una naturale trasposizione in caratteri di ciò che l’autore prova o pensa in un momento di particolare ispirazione; l’arte è contingente e ogni anima artistica dovrebbe approfittare di ogni singolo momento in cui percepisce una più profonda connessione con se stesso e con il mondo, l’attimo in cui la sua profonda sensibilità gli o le permette di comprendere qualcosa.
Il mondo artistico contemporaneo è decisamente complicato, mutaforme ed incerto; ciò deriva dal fatto che è diventato un mondo più accessibile, una realtà in cui tutti potenzialmente possono fare arte, e questo ha condotto sia ad ottimi che pessimi risultati, ma soprattutto ha condotto ad un’arte più commercializzata, orientata ad un pubblico sempre più ampio e che mira più al guadagno che alla realizzazione dell’opera. Per farsi strada nel panorama culturale ci si deve muovere con forza e decisione, per poter mostrare quello che si vuole dare al mondo.
Ma questi concetti, triti e ritriti, di un’ideale emancipazione dell’arte dallo stato di merce in cui si trova rimarrà semplicemente questo, un ideale: le leggi scientifiche del guadagno vincono, se non in casi isolati in cui un’opera fuori dagli schemi riesce a fare breccia negli animi del pubblico o dei lettori.
Io ho vissuto per abbastanza tempo in zone di degrado culturale per smettere di credere fermamente in quel che io, e molti altri artisti e letterati come me, sogno ovvero che per raggiungere l’emancipazione dell’arte dovremmo prima ottenere l’emancipazione di un pubblico che non riconosce il valore del mondo. Questo è impossibile.

Allora a cosa è servito ripetere nuovamente queste parole? È servito a me come promemoria di ciò che voglio fare con questo lavoro, un modo di aver chiaro su cosa impiego i miei sforzi. Mi ero ritrovato però con una serie di poesie sconnesse, non pensate per essere in un unico volume, per questo organizzarle è stato particolarmente ostico: molti autori hanno un’idea quando realizzano una raccolta, c’è una visione unitaria che li guida, un intento già definito. Non è il caso di quest’opera, anzi tutto questo è nato come confusione più totale che solo successivamente ha preso una forma più delineata.
Queste liriche sono tutte state scritte nel periodo compreso tra gennaio e settembre 2024, che potrei definire come oltremodo assurdo; un periodo di cambiamento, di crescita e sperimentazione, un periodo di impegno ancora maggiore alla vita, un periodo di scoperta, in cui cercavo di capire il mondo e di capire me stesso. Ho scoperto che sarà impossibile comprendere a pieno il mondo, ma che non sussiste motivo per non provarci, ho scoperto che forse ho qualcosa da dire, a prescindere da chi ascolterà.
Ho compreso che in realtà anche nel caos riusciamo a trovare un filo di Arianna che ci guidi verso una direzione, ma probabilmente è proprio questa l’abilità degli artisti: tracciare una mappa all’interno della loro troppa vasta mente, comprendersi prima di essere eventualmente compresi dal pubblico. Un processo che noi diamo spesso per scontato.

Mettendo le mani avanti confesso di non aver avuto una formazione classica, ma solamente una grande passione dalla mia parte, e, soprattutto, rimanendo molto influenzato dagli argomenti studiati superficialmente in ambito scolastico, questi versi risultano molto vari nello stile utilizzato più che nei temi trattati. Sono poesie della gioventù, l’estate della nostra vita che sembra ad oggi privata di qualsiasi forza ed in cui anche i valori più essenziali sembrano svuotati. Parlo dell’amore, dell’amicizia, dell’ardore per la vita davanti a sé; no, non vedo niente di tutto questo nei miei coetanei, vedo solo un branco di giovani disperati, che si fasciano prima ancora di farsi male; poesie di un cuore che si dispera perché vede tante giovani esistenze vissute nella banalità, e vede un mondo che vuole esattamente questo: era troppo pericoloso quando le persone desideravano sapere, bisogna far sì che siano le nuove generazioni stesse a desiderare l’ignoranza. Non per attaccare un gigante letterario come Leopardi, ma mi permetto di contraddire quanto egli affermò nelle “Operette morali”, perché sì, le vite ignoranti saranno più felici rispetto a quelle di chi ha un minimo di conoscenza, e coscienza, ma cosa ne è di un mondo in cui le persone ignorano pure le strade ove camminano? Davvero non riusciremmo a sopportare un minimo di peso proveniente dalla cultura e dal sapere?

Dovremmo ricercare la nostra forza, imporci per plasmare il mondo che abbiamo davanti, invece quasi nessuno ha a cura il futuro; molti ne fanno un vanto, gli altri fingono ipocriti che gli interessi qualcosa (e tutti, chi più e chi meno, rientriamo in una di queste due categorie).
Dunque, queste sono poesie per me, per trovare questa forza, e per gli altri, sono poesie sul malinconico passare del tempo e la paura di star sprecando gli anni in cui si potrebbe dare di più, poesie sul senso di una realtà che sembra sempre più fittizia e artificiosa, sulla difficoltà di comunicare con onestà e consapevolezza in un mondo in cui ognuno può dire qualsiasi cosa in qualsiasi momento.
Poesie per ricordarmi da dove sono partito, e che forse un giorno rileggerò con nostalgia amara e tenera.

Ma soprattutto sono poesie di un giovane pazzo che aspira a diventare qualcuno, senza sapere però chi. Tra tutti probabilmente sono il più disorientato, ringrazio però per il dono di saper scrutare ciò che mi circonda con sguardo lucido per apprendere ogni giorno quanto esso sia diventato senza senso e privo di valore. Forse è per questo che siamo tutti persi, alcuni con più consapevolezza di altri.

(“Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.”

GIACOMO LEOPARDI)

Gabriele Boccia