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DI WALTER GALASSO
Fabio Capocchia, avvocato civilista, è il monarca di uno studio nel penthouse -nel senso di ‘attico’- di un palazzo moderno. Intorno, nella società, vigono la democrazia e la repubblica, ma lì dentro lui è il re, due lettere e un milione di poteri nella figura istituzionale che tipi egocentrici vorrebbero incarnare anche su una poltrona presidenziale, non necessariamente su un trono.
Alcuni soggetti pensano che gli studi professionali debbano risiedere ai primi piani, per non scocciare i clienti e non condannarli a perdere tempo in ascensore o, peggio, a scalare molti gradini di scale. Quest’uomo è andato controcorrente, partendo dal presupposto che non sia un handicap il fatto di lavorare in un ufficio dove sulla ringhiera d’un balcone puoi trovare un’aquila. Una persona capace di intendere e di volere non può certo escluderlo dal ruolo di suo avvocato preferito se venga a sapere che per avere udienza deve salire al nono piano. Molti suoi colleghi, invece, si sono acquartierati al primo o secondo livello, dando per scontato di andare incontro, in questa maniera, ad alcuni desiderata dei loro assistiti.
Punti di vista, scuole di pensiero, alla somma delle parcelle l’ardua sentenza: se i fan di un bureau ad altitudine bassa avranno accumulato più guadagni, la palma del vincitore gli sarà recapitata da un solerte postino con una raccomandata con ricevuta di ritorno; se invece Fabio diventerà il principe del foro più ricco della sua metropoli, allora il mondo dovrà prendere atto dell’elastica ragione che alloggia nella sua mentalità. Per il momento la singolar tenzone pare versare in una situazione di patta, come fanno pensare particolari di un certo rilievo, vedi la lunghezza della barca che ognuno di loro ha ormeggiato dietro la darsena di un porticciolo turistico e chic. Le imbarcazioni possedute dagli avvocati locali -stiamo parlando di quelli che, al pari di Fabio, fanno parte del gotha della categoria- sono più o meno equivalenti, non c’è un panfilo che surclassi tutti gli altri, e dunque se ne può arguire che gli introiti di questi legulei siano simili.
Il dottor Capocchia, quando gli capita di dover scrivere ‘Avv.’ prima del proprio nome e cognome, ogni tanto pensa che quelle tre lettere siano l’abbreviazione di ‘Avventura’. Sorride, mentre il suo cervello mente in questa maniera surreale. Si dice ‘ma che vai a pensare!’, quasi assumendo un atteggiamento razionalmente pedagogico verso le parti della sua identità che si mostrano renitenti a un rispetto scientifico della logica. Meno male che questo è un suo segreto. Egli non ha confidato a nessuno una tale ‘anfibologia’ -‘avv.’ come abbreviazione che si presta a una doppia interpretazione-, altrimenti qualcuno gli avrebbe suggerito di rivolgersi a qualche psicanalista e lui avrebbe reagito con fastidio, essendo scettico in merito all’effettiva importanza dei discepoli di Freud.
Forse questo gioco dei suoi pensieri involontari scaturisce da un cellulare che usava alcuni anni fa: quando digitava un SMS, un software di ‘predictive text’, più urticante che utile -il T9, cioè Text on 9 (Keys)- faceva scattare, dopo qualche lettera, una sequela di possibili sviluppi lessicali.
Un pomeriggio, per esempio, iniziò a scrivere ‘gra’, e quel telefono si prese la briga, con una mezza violazione della sua privacy, di regalargli -dono assolutamente non gradito- un bel po’ di parole raggiungibili a partire da quell’input, e quindi, in una successione strampalata, i suoi occhi percepirono ‘grafia, gradimento, gratta e vinci, grasso, grave, grappa…’. L’organismo del personaggio cominciò ad avere un prurito sul cuoio capelluto, per questa indebita ingerenza nella sua creatività. Tra l’altro, siccome lui aveva cominciato a costruire ‘gra’ nella prospettiva di arrivare a ‘gradasso’ -voleva infatti suggerire a un suo assistito di non fare lo spaccone nel rimarcare, in un contenzioso con un vicino, la propria apodittica ragione-, pensò <<‘sto deficiente tutto scrive meno che la parola ch’io voglio usare>>, e l’aferesi denota tutta la sua irritazione. Il professionista coronò la sua stizzita reazione con una battuta: l’apparizione di ‘grappa’ gli offrì il destro di pensare ‘una bottiglia te la sei scolata tu, egregio imbecille’. Nel suo intimo flusso di pensieri sottolineò che se proprio avesse voluto concedersi il lusso di deflettere dalla retta via, e avesse così voluto sviluppare ‘gra’ in modo diverso da quello preventivato, la sua scelta si sarebbe appuntata sul Grande Raccordo Anulare. Ecco la dinamica della deviazione: la sua psiche si prefigge di scrivere ‘gradasso’, un suo dito comincia a pigiare ‘g’, poi ‘r’, poi ‘a’ e all’improvviso, mediante un calcio della sua fantasia, ‘gra’ diventa GRA, il celeberrimo anello tangenziale che attornia l’Urbe.
Bei tempi. Questo dottore in giurisprudenza, quantunque meno affermato di adesso, era più spensierato e anche quelle schermaglie con un telefonino riflettevano un’attitudine allo scherzo e alla leggerezza. Nell’anno in corso la sua personalità risulta sensibilmente cambiata rispetto ad allora, tanto da far pensare che non sia più lo stesso, però di quell’epoca e di quegli SMS resta appunto la propensione a integrare in maniera varia e sregolata un incompleto insieme di lettere.
Avv., dunque, ovviamente impiegato come versione lampo del nome della sua professione, nella sua mente -nelle fasi in cui essa va a ruota libera- diventa ‘Avventura’, che a sua volta può denotare, nella disordinata interiorità di sue segrete pulsioni, diversi significati. Avere un rapporto sessuale con la migliore amica della fidanzata. Fare un Safari -non il browser- fra leoni, magari amici e mansueti come mici. Cambiare professione, e provare un mezzo orgasmo nel guadagnare il doppio. Recitare in un sequel del film di Michelangelo Antonioni, “L’Avventura”, o dirigerlo, sull’iconica sedia da veranda e campeggio. Solo alcuni esempi d’una distorsione che deriva da un doppio errore. Il primo: avv. inteso non come ‘avvocato’; il secondo: interpretare avv. come ‘avventura’ e non come ‘avvinazzato’.
Walter Galasso