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COVER
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INCONTRO
FRANCESCO GUCCINI
E correndo mi incontrò lungo le scale
Quasi nulla mi sembrò cambiato in lei
La tristezza poi ci avvolse come miele
Per il tempo scivolato su noi due
Il sole che calava già rosseggiava la città
Già nostra e ora straniera e incredibile e fredda
Come un istante “déjà vu”
Ombra della gioventù, ci circondava la nebbia
Auto ferme ci guardavano in silenzio
Vecchi muri proponevan nuovi eroi
Dieci anni da narrare l’uno all’altra ma
Le frasi rimanevan dentro in noi
“Cosa fai ora? Ti ricordi
Eran belli i nostri tempi
Ti ho scritto è un anno
Mi han detto che eri ancor via”
E poi la cena a casa sua
La mia nuova cortesia
Stoviglie color nostalgia
E le frasi, quasi fossimo due vecchi
Rincorrevan solo il tempo dietro a noi
Per la prima volta vidi quegli specchi
Capii i quadri, i soprammobili ed i suoi
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway
Il sentirsi nuovi
Le cose sognate e ora viste
La mia america e la sua diventate nella via
La nostra città tanto triste
Carte e vento volan via nella stazione
Freddo e luci accesi forse per noi lì
Ed infine, in breve, la sua situazione
Uguale quasi a tanti nostri film
Come in un libro scritto male
Lui s’era ucciso per Natale
Ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi
Ed io i miei in un solo saluto
E pensavo dondolato dal vagone
“Cara amica il tempo prende, il tempo dà
Noi corriamo sempre in una direzione
Ma qual sia e che senso abbia chi lo sa
Restano i sogni senza tempo
Le impressioni di un momento
Le luci nel buio di case intraviste da un treno
Siamo qualcosa che non resta
Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”
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DI WALTER GALASSO
Un film-documentario, “Francesco Guccini – Fra la Via Emilia e il West” (Nexo Studios), una rievocazione d’una session -con diversi colleghi di Guccini e artisti come Vince Tempera- che ha fatto storia. In quel remoto 21 giugno 1984 per la prima volta una piazza, come teatro di performances d’un cantautore, pullulò di un’oceanica folla. Il protagonista celebrava due decenni di carriera, e adesso si festeggia il leggendario evento a una distanza, 40 anni, che rappresenta il doppio di quella durata. Amarcord, corde vocali e di chitarra, il tempo che come un’invisibile scimitarra sega senza tregua l’attualità, man man ch’essa, sempre in fieri, diventa passato, come un fiume dopo un delta sfocia in pelago, in un mare che talvolta cagiona amare sensazioni.
Nella canzone che di quel concerto io privilegio in questa sede, “Incontro”, tratta dall’album “Radici” (1972), Guccini tocca pure questo complesso argomento ontologico, il Tempo che passa e fluendo scassa ogni tanto moti di gioia, e frustra un’utopica istanza d’eterna pienezza. Vi allude verso l’explicit, e nel parlare del tempo che magnanimo dona e cinicamente scippa, all’insegna del metodo ‘il bastone e la carota’, sfiora nientepopodimeno che un filosofo del calibro di Edmund Husserl, Maestro della Fenomenologia, invitato nel testo mediante il ‘brokeraggio’ dello studioso Anceschi. Il Tempo sfreccia verso una direzione, e con lui chi nella sua corsa esiste e progetta, ma essa, la Meta, è avviluppata in un’aura di rebussistico, arcano, impenetrabile mistero. Potere monco, a livello gnoseologico, dell’umana mente, ma il punto non è questo.
La canzone, anche poesia, è imperniata su un incontro dell’Autore con una Lei. Francesco, l’uomo, ci dirà che era una sua aficionada, spasimante ma non tanto ricambiata. Il poeta, però, non vuole che nell’opera ci siano tracce e una eco di sbieco di questa unilateralità. Non solo e non tanto per cavalleresco bon ton: senza l’omissis l’atmosfera, del testo e del resto, avrebbe perso qualche punto nello score del suo rendimento teoretico. Noi non sappiamo, noi lettori non dobbiamo sapere quel che fra loro c’è stato, prima del rendez-vous a posteriori -che funge da quintessenza della trama-, a livello di affinità elettive. Amor platonico, solo cuore senza sesso, o eros hard-core non ha importanza: l’accento è sul dopo del dopo, su un rapporto che albeggia a distanza di molti anni dal ‘The End’ della loro relazione umana, quale che sia (stata).
Lei cammina a molti chilometri all’ora su steps evidentemente ammantati d’una valenza simbolica, non ci è dato di sapere il perché e il percome, e nemmeno l’esatto dove di questa acrobatica corsa; s’imbatte in lui, che di primo acchito ha la sensazione che la donna sia rimasta più o meno la stessa. Meno? O più? Francesco si rende ben presto conto che nel suo giudizio d’emblée ha commesso un indiretto errore. L’amica, forse un’ex, sarà pure tale e quale a come fu, ma ci vuole una geniale pennellata di Leonard Cohen, quello di “Suzanne”, per ben fotografare una paradossale sensazione che sgorga poco dopo il reciproco riconoscimento: una splenetica potenza di tristezza li aggioga, ma come miele.
Un ossimoro che è diventato celebre, spesso notato per l’ardito cozzo insito nell’ibrido legame, eppur non è poi così ‘eretico’ rispetto alla laica sacralità, per così dire, della logica. È in fondo chiaro che la malinconia si nutre parzialmente del suo contrario: essa è, e nuoce, nella misura in cui è memoria di Bene, è rievocazione d’un piacere, sia pur in gran parte perduto.
Il ‘maestrone’, a partire da questo chiarissimo caos pulsionale, inizia a lumeggiare le loro emozioni in un simbolico gioco di specchi con il frame della sua amata città, con la metropolitana situazione -intesa nella sua accezione più precisa- del loro emozionatissimo stato d’animo.
Il Sole cala… uhm, questo crepuscolare inchino non è foriero di slancio gioviale sotto quel cielo, anche se si fa finta, in un mezzo bluff, che si sia solo in un ricorso storico simile, in piccolo, cioè fra due persone, a una ‘rimpatriata’ d’una classe liceale quando tutti sono ormai matusa boomers. La città, che è loro -perdindirindina, quanto lo è!-, in metafisici capricci, rampollati da un Genius Loci cattivello, ora all’improvviso pare a lui, e chissà se pure a lei, forestiera. Aleggia il gelo del turbamento interiore, fa freddo nella nostalgia, e causa un pizzico di illuminata allucinazione, quando la propria patria campanilistica pare alienarsi in un lontanissimo altrove a due passi da sé. ‘Ieri’ ritorna in déjà-vu, e questo non so che di già visto, in un flashback della perduta gioventù, è molestia d’una nebbia allegorica.
Il soqquadro interiore è, però, simile a un quadro impressionista in cui la verosimiglianza sia sostituita dal modo in cui quel che gli occhi di Francesco percepiscono, in una vista senza commenti, si trasfigura nello sguardo dell’animo. Un’alma che lavora di fantasia, spinta come da un motore dal parziale choc di questo incontro galeotto. Ha inizio un miracoloso show, in cui le automobili li guardano e i muri antichi, istoriati con segni odierni ed eroici nel loro essere up-to-date, ricordano a tutti che il futuro si appoggia sul preterito, come due fratelli sanno di avere lo stesso sangue.
“Dieci anni da narrare” -l’amore di Guccini per la letteratura non perde un colpo-, ma abortisce la Mission degli animi romanzieri, le frasi sono intrappolate in involontari omissis. E in fondo non è il caso di farne un dramma, la storia -ci sta- vira verso il minimalismo d’una prassi cordiale e semplicissima: un ameno bla bla, la cena a casa sua.
Il cantautore non per questo abbandona il suo spirito letterario, che viene a galla, con dolce prepotenza, o prepotente dolcezza, in un descrittivo omaggio a Guido Gozzano: quando il poeta di Modena scrive e canta “Stoviglie color nostalgia” sembra che dalla superficie di forchette coltelli e cucchiai parta come una gibigiana il riflesso dell’opera “La signorina Felicita ovvero la Felicità”.
Ci può essere sconfitta anche in una vittoria? Ebbene sì, perché nel chiacchierare, e nel fare un punto della situazione, emerge l’evoluzione dei sogni di avantieri, visti ieri, ma oggi, nel parlare dei passi in avanti fatti dall’ultima volta in cui si sono incontrati prima di questo abboccamento -un progresso esistenziale splendidamente cristallizzato in “la scoperta di Hemingway”-, non è tutto oro quel che luccica. I due hanno scoperto un’America, ma qui ed ora sono cinti d’assedio da chiazze di magone in una città diventata “tanto triste”. Gli anni in più, anche se sono nel contempo frutti in più, equivalgono comunque a sorrisi in meno quando la psiche faccia mente locale sulla carta d’identità.
Come se la cava il poeta in questo frangente? Sdrammatizzando il problema con e nell’allusione al décalage fra il contenuto -lei addirittura racconta una tragedia- e una minimalistica tranche de vie, con una spruzzata di sottile, appena percettibile ironia. Il buio ingoia i racconti; la situazione dell’amica non è poi molto diversa da un film; dieci anni, così di lei come di lui, compressi -e depauperati di struggimento- in poche frasi e in un saluto. Sagace, Francesco: dribbla il pathos che fa male chiedendo aiuto alla sostanziale semplicità della situazione. Da un lato non rimuove in escapismo, dall’altro non osa sfidare a duello consapevolezze che possono far male con troppa luce addosso. Ottima, pragmatica medietas.
È arrivato il momento, nella trama della canzone, della citazione, indirettamente husserliana, di cui sopra. Il Tempo, che va verso…, ma la meta è a metà, l’indirizzo è mezzo, ché tutto non è possibile saperne.
Il socratico pensatore, però, cade nello scetticismo ma in piedi, e si amareggia nel dubbio, ma solo un po’. Perché in fondo il suddetto Tempo corridore somiglia al treno su cui il cantautore sale. E perché se è vero che ci sono frasi vuote nella testa, è ancora più vero che, ottimistico contraltare a quel pessimismo, il cuore è pieno di simboli e l’animo ospita sogni senza tempo, eterni, vincenti.
Guccini è sempre Guccini. Questa sua poesia emana luce, e m’induce a un’esortazione. Francesco, fammi un favore, scrivi una nuova opera, un altro capolavoro, magari nella semplice cucina della tua casa, dove ti ho visto in più di un’occasione. Fai vedere a certi personaggi, tuoi pseudocolleghi in facili e immeritate regge, come si fa…
Walter Galasso