DI WALTER GALASSO
Nella signorina Benvenuti, italiana non forte perché fortissima, Liliana fa rima con partigiana. Persona speciale, ragazza fiorentina con la libertà nelle vene ventenni. La giovinezza sprizza frizzanti esigenze, è rovente energia pulsionale, agitato inconscio -mosso come pelago in burrasca- sotto idee chiarissime. La sua spensieratezza è stata imprigionata dagli eventi intorno. Ma la ibrida campionessa, agile come farfalla -votata a una fulgida avventura nella Natura- ed energica come felina leonessa, è romanticamente testarda, non rinuncia a sé, sogna a occhi chiusi di notte, quando il colore dell’aria somiglia alle tenebre in cui versa la società, e a occhi aperti di giorno, nell’aere della Toscana.
Lo Stato è a brandelli in un lancinante, tragico soqquadro, draghi alti come grattacieli americani paiono materializzarsi all’orizzonte. Un gelo siberiano, incluso in insopportabili sacrifici, morde fragili animi, percuote -pari a sberle pesanti quintali- la voglia d’una cheta normalità. Quella in cui non si attinge chissà quale traguardo, non si fanno i salti di gioia per performances da Guinnes dei Primati, non ci si dà alla pazza gioia, ma almeno ci si può pacificamente dedicare a una routine fatta di appagante completezza del tenore di vita. Qui ed ora, invece, nell’esistenza di Liliana l’avverbio ‘pacificamente’ è devastato da una tremenda guerra in corso.
Buchi grandi come burroni record nella quotidianità, impossibili anche minuscole comodità. Infuria l’inferno, il buon senso del mondo è infermo, alle corde, prostrato, avvilito, obiurgato, e la bellica crisi della razionalità arreca tormenti e supplizi all’ubi consistam di una ragazza che non si può rassegnare alla proliferazione d’una violenza pazza, irrazionale, cattivissima, del tutto scevra di luce culturale.
La creatura di Compiobbi, frazione di Fiesole, lo spicchio toscano che include Villa Le Falle, nel 1943 è a Firenze, grande sede di Cultura, ma il periodo non risparmia nessun Comune, pure nel milieu di questa città potentissimi gioielli di civiltà, come Letteratura e Arte, possono non bastare, a una giovanissima donna, per garantire nella sua delicata alma un clima di sostanziale equilibrio, una fede nei Valori -bombardati dalla malvagità-, un usbergo che difenda dai dilaganti crimini contro l’umanità. Un soggetto abbisogna, per restare ottimista, lucido, propositivo, dalla parte del senno eterno, d’una personalissima facoltà, proveniente dall’imo del suo sfortunato Io, un privato pabulo che nutra la sua energica disinvoltura in mezzo a dannate e internazionali fabbriche di obbrobrioso nichilismo. Liliana la possiede.
Ma questo non vuol dire che ella sia un’eroina mitica, leggendaria, amazzone dotata di superpoteri, marziana di un altro pianeta. No, lei è una ragazza semplicissima e con mille paure, ma, addomesticandole come una domatrice renda mansuete delle bestie feroci, pur ospitandole nella sua muliebre sensibilità sa, all’uopo, ergersi a personaggio insigne, meritevole di entrare nella Storia con la maiuscola.
Liliana è soprannominata ‘Angela’ da compagni antifascisti, nickname -un nome di copertura- dovuto alla sua manifesta religiosità. Abita sì in una famigliare casa di Via Ghibellina, al civico 24, ma nell’Universo esercita la temeraria e patriottica ‘professione’ di STAFFETTA. E qui cominciano a serpeggiare brividi anche in chi non sia ferrato in branche dello scibile afferenti la seconda guerra mondiale. Si sa che cosa voglia dire il termine. Ella s’incarica, con encomiabile coraggio, d’essere dinamica latrice di utili risorse -come messaggi documenti o addirittura armi- a partigiani occultati in siti montani, o a gappisti in città. Consegne ad altissimo tasso di rischio. La campionessa, in questo moto da… a…, deve attraversare atroci minacce di nazifascisti. Grintosa pasionaria nel tourbillon e nel maelstrom della Resistenza, la patriota non si perita, in una tenzone piena di tensione e adrenalina, di accollarsi queste sfide, incarnando perfettamente le principali capacità che già in teoria una ‘staffetta’ non può non avere, come estrema mimesi in souplesse, abilità nell’eludere con furbizia un ostile fuoriprogramma, sangue freddo in eventuali controlli da parte dei nemici.
Liliana Angela stupisce forse anche se stessa quando porta aiuti -il denaro frutto d’una rapina- sotto le mentite spoglie di sposa -del falso marito Antonio Bernieri- nel bel mezzo d’imenei in corso. O quando, saltato un ponte prima di andare da una parte all’altra di un fiume, non esita, in un work in progress ante litteram, a rimboccarsi idealmente le maniche e a guadare l’Arno (in corrispondenza delle Cascine), immergendosi nel ‘tutto scorre’ di quelle acque con lo slancio di un’italiana che ama il suo Paese, la democrazia, la libertà, l’etica. Tanto paradossale quando degno, a posteriori, d’essere detto e ridetto -con legittimo orgoglio- l’episodio in cui ella raggira così tanto la persecuzione di nemici tedeschi che il suo veicolo, con qualche problema nel corso d’un loro controllo, ne viene spinto e aiutato a riprendere la sua velocità di marcia.
Duttile, in gamba, occhi aperti e fifa rimossa -in una repressione che equivale al favore del vento per la spedita crociera di un’imbarcazione a vela-, Angela ha, pur in mezzo a questa poliedricità strumentale, una privilegiata modalità di spostamento: la bicicletta, icona di ogni donna staffetta. E sulla sella della sua, una cara amica nella procella, un veicolo che quando le serve sembra che le sorrida in un miracolo della poesia, l’intrepida fiorentina attende a un drammatico andirivieni. Da Firenze a rifugi montani di partigiani, e viceversa. La struggente attrice attraversa il pericolo con sprezzo del suo ricatto. Pedala, ogni piede un’ala, spinta, come da un motore fatto di idee, da una visione del mondo in cui la Pace d’una democratica convivenza fra i popoli è pernio luminosissimo, cardine fulgido, fondamenta di una morale enciclopedia a tanti piani. L’impegnata ciclista porta seco soprattutto biglietti, gestendo, con dissimulato disagio, le tante preoccupazioni insite in ogni sua missione.
Può cambiare abbigliamento, ma v’è un denominatore comune fra ogni suo look: una rosa rossa nei suoi scuri capelli. Un fiore ricco di significati. È anche cassaforte dei messaggi, serve per includerli -col massimo ermetismo possibile- e sottrarli agli sguardi di eventuali controlli.
Qualche psicanalista, complicando la spiegazione, reputa che le serva per esorcizzare, con un orpello vagamente apotropaico, l’acido mix di paura, soggettiva, e pericoli, oggettivi.
Lei vorrà, in un futuro migliore, imboccare un antitetico sentiero analitico, semplificando al massimo il motivo e dichiarando ufficialmente, con un minimalismo atto a sdrammatizzare il suo protagonismo, che la rossa rosa le era consustanziale nella misura in cui le consentiva di “essere più bellina”.
Liliana Angela Benvenuti, gran signora anche in questo, ha voluto minimizzare l’epos di quell’addobbo. Ci ha pensato un graffito a Milano, in Via Giovanni Battista Sammartini, a enunciare tutta la verità, dando a questa eroina la grandezza che lei, con carina modestia, non ha voluto ostentare: “In quel fiore ci nascondevo il mondo”.
Walter Galasso