NELL’ ALTRUISMO È STATO COME COMO:  IMPORTANTE   [DA CRONACA  A  RACCONTO;  Comune:  COMO;  1  VIDEO]

NELL’ ALTRUISMO È STATO COME COMO:  IMPORTANTE   [DA CRONACA  A  RACCONTO;  Comune:  COMO;  1  VIDEO]

NELL’ ALTRUISMO È STATO COME COMO:  IMPORTANTE   [DA CRONACA  A  RACCONTO;  Comune:  COMO;  1  VIDEO]

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COVER

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FUNICOLARE  COMO-BRUNATE

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DI WALTER GALASSO

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   Leonardo, clochard italo-uruguayano, arrivato a Como il 4 novembre, ozia in Via Dante Alighieri. È nato mezzo secolo fa, ma i suoi 50 anni contribuiscono poco all’energia della società.
   Intorno un’orchestra di vivaci, effervescenti rumori. Il motore della collettiva libido secerne versi inconfondibili, sprizza motivi efficaci, segnala mete in corso di realizzazione. Il tutto funziona a meraviglia, anche se ogni singola parte pensa egregiamente solo a sé. S’intrecciano le traiettorie, ogni atto è la pregnante sintesi di molti significati, l’euforia, ora discreta ora palese, di chi vince si coniuga, in un’atmosfera imparziale, con la mezza soddisfazione di chi pareggia, mentre Leo sta solo perdendo.
   Il meglio di sé è nel suo passato, quando è stato un giornalista. Il ricordo della perduta reputazione adesso fa più male che bene. Freddo boia sulla frontiera fra la sua consistenza fisica e il resto del mondo, che preme sui suoi confini come un lontanissimo pianeta, stranamente vicinissimo nell’inganno d’una limitrofia spaziale. Musica in sordina scende come invisibile pioggia dalle nuvole che lassù lo guardano. Una, in particolare, può apparire, a chi giochi in pareidolia, la testa di un animale che rida (per chissà quale misterioso motivo). Il cielo è uguale per tutti, stormi di agilissimi uccelli volano belli sotto la sua celeste legge, e sembrano schegge, razionalmente impazzite, di una coreografia metafisica. Superiori -per lunghezza d’apertura e per altitudine di volo- alle loro ali quelle di un aereo che attraversa, con regolare velocità, un superno tragitto, lasciando una tremolante scia, con profili imperfetti, e il disciplinato jumbo per un attimo ha il potere di attirare l’attenzione di Leo, che alza lo sguardo, ne fissa il remoto dinamismo, e la percezione espelle nella profondità della sua coscienza una sottilissima traccia.
   L’interazione spettacolare fra quella rotta e il suo sguardo dura poco. Nell’uomo, ‘non strada facendo’, si è gradatamente indebolita la soglia d’attenzione. Indebolita non vuol dire però annullata, la fragilità è un conto, il nichilistico zero un altro. Questo strano personaggio giace, con una postura e una dignità inclinate come la Torre di Pisa, su una panchina, avviluppato in un plaid arlecchino, forse frutto di tecnica batik. Il flaccido progetto di dormire a quest’ora di punta è un’utopia minore, le orecchie, che lavorano comunque, anche se il cervello non voglia udire, remano contro, sabotano il vizio di un abbandono sterile. Il caos circostante è un metropolitano pandemonio, lo assale come un pestaggio acustico, confonde alquanto alcune sue idee, in un antagonistico attrito fra il mondo esterno e quello interiore. Nel primo abbondano quelli che stanno meglio di lui, in teoria un motivo di gigantesca invidia, ma nel secondo, l’animo che appartiene solo a Leo, quest’uomo riesce a non farne un dramma.
   Lui ha saputo, nell’involuzione della sua biografia, sviluppare un autodifensivo escamotage con un’astuzia tanto occulta quanto scafata. I mezzi (di cui la sua esistenza dispone) sono dimagriti, fino a sfociare in una patologica anoressia, ma la sua mente ha fatto assottigliare ancor di più i fini. E così, con l’ambizione afflosciata, grazie a un exploit d’una resilienza poco appariscente, questo individuo limita i danni morali e psicologici. Spera di ottenere a breve l’asilo politico in Svizzera. Questo obiettivo basta e avanza, alla sua indebolita ambizione sembra abbastanza.
   L’uomo sa pure proteggersi dalle zanne dell’indifferenza. Gli occhi degli altri lo ignorano pur avendolo talvolta a un tiro di schioppo. Simulano di non vederlo, come se lui sia ialino, come se Leo non abbia una consistenza, e questo mancato ponte non è il massimo, cova una potenziale fonte di aggressione. Un tempo, soprattutto all’epoca in cui il suo fallimento era vergine, egli se la prendeva, ci rimaneva male, il disprezzo lo feriva e gli bruciava. Quelle ferite si sono ormai cicatrizzate, l’ilota, che a qualcuno può apparire uno che non lotta, ha capito che è meglio punire l’Indifferenza con la legge del taglione, rendere la pariglia a chi divorzia dall’istanza del rispetto quando gli si trova vicino.
   Forse un punto debole nel suo sistema difensivo resta la reazione alla penuria di amici. Vorrebbe esserne circondato come ogni granello di un deserto ha intorno miliardi di gemelli. Perché nel suo DNA c’è un gran bisogno di affetto. E, del resto, chi non lo ha e prova? Anche adesso in Leonardo la mezza solitudine nuoce più del mal di testa che da stamattina lo attanaglia. E dire che fino a qualche settimana fa almeno andava d’accordo con Mattia, un punkabbestia con un caratteraccio, ma con lui gentile e fraterno. Un uomo robusto, più giovane e più forte di Leo, ma non ne ha mai approfittato, lo ha sempre trattato bene, un giorno gli ha pure detto “Leonà, tu sei nato molto prima di me, vuol dire che sei più importante”. Figurati come lo avrebbe rispettato se avesse saputo pure che l’amico è stato un cronista! Leo non gliel’ha detto: la vergogna, talvolta, è più truce d’una gogna.
   Hanno diviso il cibo, si sono confidati segreti, hanno maledetto le stesse persone. Poi il fattaccio. Mattia ha litigato con un altro senzatetto, in una battaglia fra poveri, ma nelle questioni di principio può scatenarsi il quarantotto anche se il casus belli sia una pinzillacchera. Ed era una cazzata il motivo per cui hanno fatto a botte, ma Mattia ha picchiato duro. Sono arrivati gli sbirri, hanno chiesto info a Leo, per sapere meglio come fosse andata, e Leonardo ha fatto finta di essere fesso, acqua in bocca, sguardo spaesato, perché lui non è un infame, a maggior ragione se di mezzo ci sia un quasi fratello. Il quale, prima di entrare nella pantera della madama, si è girato verso di lui. Dalle pupille usciva il fuoco, pareva un leone imprigionato in una rete di pescatori, ma i suoi occhi hanno provvisoriamente interrotto il loro astio, anche ideologico, per diventare dolci, in una virilità solidale, mentre gli diceva “Fratè, fai attenzione”, e parlava col cuore, infatti, già dentro la volante, gli ha regalato “ti voglio bene, ci rivedremo”. Quando l’auto, sgommando con freddezza, se n’è andata, Leonardo ha versato qualche lacrima: non piangeva da 18 anni.
   Sì, senza l’amico si sente quasi solo. Quasi perché comunque accanto, intorno, sopra e sotto, ovunque un enorme amico c’è sempre, si chiama Como. Lo straniero si è affezionato al capoluogo lariano. Lo vede come una città che tratta con elegante democrazia tutte le persone al suo interno, senza distinzioni, generosamente equa, e il cuore di questo clochard se ne accorge, sente addosso il suo magnanimo rispetto. È fiero di appartenerle, tanto che una volta, giorni fa, in un pomeriggio come tanti, è albeggiato in lui un pensiero come pochi, senza precedenti nella storia dei suoi mumble mumble. Leonardo, che nella sua tramontata gloria ha avuto anche la virtù d’essere un globe-trotter, s’è dispiaciuto di non essere nato qui.
   In questo coup de foudre, sentimentale ponte fra un uomo fragile e una ridente città lombarda, forse galeotta è stata, a parte la bellezza del Lago, la funicolare Como-Brunate. Wow! Leo ha fatto un solo viaggio, ma la tratta, davvero incantevole, è stata sufficiente per affezionarlo a questo territorio. L’emigrazione in Svizzera resta un suo scopo prioritario perché lì c’è un lontano parente, che gli ha detto “vieni, vediamo che si può fare, anche se non ti prometto nulla”. Egli deve, perché deve, provarci, ma se riuscirà a ottenere il benedetto asilo -lui spera entro quest’anno- comunque saluterà Como con un pizzico di malinconia forte. Già, forte, perché mica tutte le forme di malinconia sono uguali.
   Quella per un posto a cui si vuol bene, e da cui bisogna a un certo punto andarsene, è tonica, quasi gagliarda, profuma di costruzione di qualcosa. Quella per lo smarrimento di un pieno orientamento sociale, lo stato d’animo in cui quest’uomo purtroppo versa, è sintomatica di drammatica debolezza. Puzza di défaillance, inietta depressione nelle vene, simboleggia, nella gassosa materia di cui sono fatte le emozioni, disfatte e pene, disastri della reputazione e una mefitica girandola di figuracce. Leonardo la prova spesso, anche in questo momento.
   Viene colonizzato da una mozzata tristezza mentre s’incammina  -sonno stop, meglio pappa pop-  verso la mensa del povero, alla Casa Nazareth, Via Don Luigi Guanella 12. Un luogo di solidarietà, tanti lodevoli volontari e operatori, e quest’anima in pena gli è grato, però -loro non c’entrano-  un po’ gli pesa, preferirebbe una morale funicolare tra soldi nelle proprie tasche e il procacciamento del fabbisogno alimentare. Orgoglio? Può darsi, ma talvolta un nome vale l’altro. Quel che conta è il suo frustrato disagio. Gli dà fastidio mangiare grazie a carità, ci sta, e probabilmente il suo passato ad altri, se non alti, livelli contribuisce a esacerbare il suo tormento. Alcuni ‘barboni’ sono perdenti meno problematici, si sono persi nella giungla così tanto, e così velocemente, che alla fine il casino dei suoi boschi, lo scombussolamento in mezzo al fitto caos di rami selvaggi e animali predatori li urta ma non troppo. Leo, invece, ha conosciuto la cosiddetta ‘sistemazione’, e l’averla perduta in un ginepraio di errori maledetti, con tutto il suo greve e grave carico di rimpianti sicari di serenità, rende le sue psicologiche ferite più struggenti.
   A questo malloppo, di uggia inquinata e autocritica latente e tagliente, antidoto non c’è, almeno in una terapia che voglia vincere facilmente, però Leonardo è aiutato, quando il magone tende ad aumentare come un lievito in una tormenta, dal verbo ‘fumare’. C’è chi beve e si ubriaca per obliare una waterloo; lui, nei suoi slanci di drammatico escapismo, a bacco premette ‘ta’, preferisce la nicotina nella misura in cui, mediante il ‘coreografico’ rito d’una pipa, sfoga, sia pur in modo effimero e anche apparente, il suo compresso e represso nervosismo. Si sente un duro, uno che alla fine della fiera sa dire, mandando al diavolo le sconfitte, “ma sì, chi se ne frega!”. E poi la (minuscola) concentrazione ch’egli ha, e ostenta, durante ogni round di questo vizio è un modo per apparire impegnato, fedele a un’operazione, credente nel suo senso.
   Adesso, mentre transita sulla vicina carreggiata la lussuosa auto di un agiato personaggio, il senzatetto pesca un pacchetto di Marlboro, vagamente stropicciato, da una tasca, ne estrae una sigaretta, l’accende in barba ai dispetti del vento, con la mano sinistra che, curva e protettiva, funge da argine coercitivo all’arrivo di folate del Breva. Sì, il wind dell’incipit di “Piccolo mondo antico”, ma ogni vento, si sa, è privo di vanto. Il Breva che sfotte Leonardo infastidisce l’accensione del suo vizio, ma non gli fa pesare d’essere star nel capolavoro di Antonio Fogazzaro, alita e basta, umile nella sua invisibile maestà, aulente per tutto il meraviglioso profumo di cui s’impregna sull’affascinante, notissimo Lago.
   Leonardo spia, nelle sue adiacenze, la fortuna altrui, pensa e non, ora si distrae ora si ritrova in un flashback -ne ignora totalmente il perché- che lo riporta indietro nell’orologio, come in un ‘trip’ non nella droga ma in una macchina del tempo. Ma la sua fumata esorcizza il pericolo di inoltrarsi troppo in questa avventurosa retrospettiva. Vince un tabù nella tribù delle sue disordinate, e talvolta pavide, pulsioni. Il paria tronca il flash, lo stoppa sul nascere, e il suo Io continua a ‘surfare’ tra casuali percezioni, slegate e coerenti al tempo stesso. Registra molti segmenti di unione sociale, le pupille come oblò con affaccio sul prossimo, ed evita di pensare troppo, senza che il suo cervello abbia responsabilità in questa astensione: essa è un’inconscia strategia autodifensiva, un benedetto istinto di sopravvivenza della sua capacità di tirare la carretta, senza profusione di un rammarico boomerang.
   L’uomo, dopo aver consumato la porzione di tabacco, con la cicca fra le dita cerca con lo sguardo una pattumiera dove buttarla. Trova un cestino, lancia nel suo cratere il mozzicone e, con l’alito simile all’atmosfera di una sala giochi per fumatori, si dirige verso la Mensa di solidarietà. Non si sente forte come un toro, ma nemmeno mollaccione, le sue gambe, almeno fino a oggi, non hanno mai fatto giacomo giacomo. Non ha una fame da lupo, e certo la nicotina non equivale a un aperitivo, ma non importa. Nell’economia del suo tempo l’armonico ordine fra le fasi è ormai una mezza chimera.
   Quando arriva a destinazione trova, come quasi sempre, un affollamento di poveri. Si mette in fila, solo in mezzo al gruppo, pedina manovrata dalla filantropia, dipendente da…. Ma, siccome lui in fondo è un piccolo intellettuale, da quando è in questa città ha compreso, con grata lucidità, che chi, come ogni operatore della Caritas, lo supporta cerca pure, nella misura del possibile, di non farglielo pesare. Sono carini, non può che volergli bene, ma l’assistenzialismo comunque lo scoccia. Attende il suo turno con spompata pazienza, ogni tanto cambiando leggermente posizione delle gambe per alleviare la smania -un po’ stanchezza e un po’ irrequietezza psicologica- dei piedi.
   A un certo punto accade una svolta nel tran tran. Arrivano urla, femminili, una donna sta lanciando un S.O.S., ad alta voce esclama, con tutto il fiato messo a disposizione della sua agitazione dai polmoni, “Aiuto! Chiamate la polizia!”. Leo lo raccoglie. Senza esitazione si precipita fuori, si avvicina progressivamente al fulcro dell’ambaradan e assiste a un vigliacco tentativo di rapina, in Via Porro. Un giovinastro, più o meno la metà dei suoi anni, mentre una signora, non giovane -81 anni-, stava aprendo la portiera della sua auto, l’ha aggredita, e adesso tenta di sottrarle anelli, la borsa, ogni possibile parte di bottino. Una concittadina, affacciata a un balcone, con l’invocazione di soccorsi ha cercato e cerca di salvarla dalla violenza in atto.
   Leonardo accorre in aiuto della donna e, nello scontro con il criminale, ne riceve calci morsi e pugni. Meno male che sopraggiungono altri soggetti a dare manforte al malcapitato e aspirante salvatore. Il quale, dopo che l’unione fatta dalla forza di questi altruisti riesce a mettere kappaò il rapinatore, è portato al pronto soccorso dell’ospedale Valduce.
   Fisicamente non sta benissimo, uno dei morsi addirittura lo ha ferito nonostante lo spessore del suo giaccone.
   Moralmente, però, è molto contento. Sta vivendo, grazie al suo bel gesto, un quarto d’ora di celebrità, soprattutto ha la sensazione di essere e apparire una persona perbene, apprezzata e rivalutata dagli altri, che finalmente si accorgono di lui e lo stimano pure.
   Leonardo si sente come Como:  importante.

Walter Galasso