CHIUNQUE LASCIA UNA SCIA SOTTO IL CIELO…   [UNA DONNA  ‘INVISIBILE’  PER 17 ANNI,  DALLA NASCITA;  1 giornale italiano  (BRESCIAOGGI)]

CHIUNQUE LASCIA UNA SCIA SOTTO IL CIELO…   [UNA DONNA  ‘INVISIBILE’  PER 17 ANNI,  DALLA NASCITA;  1 giornale italiano  (BRESCIAOGGI)]

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DI WALTER GALASSO

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   Atroce, come un animo che abbia milioni di pensieri da esternare e comunicare e regalare e lanciare, ma sia senza voce, e sprofondi nel vuoto siderale di un’introversione pazzesca, infernale, disumana. Feroce, come un fiume respinto alla fonte nel momento topico della foce, e il livello del mare sale, perché Nettuno versa lacrime in mezzo al sale delle onde.
   Una storia assurda, incredibile, con una violenza che raggiunge l’acme anche nella mostruosa assenza, nel cammino di una donna dalla nascita al compimento della maggiore età, di una dimensione importantissima: la Scuola. Una storiaccia forse a un tiro di schioppo dall’ozio soft di un vitellone nella bambagia, nella paradossale vicinanza spaziale di atmosfere tra loro diversissime. Una donna subisce un’ingiustizia alta come monti, profonda come tetri abissi. Nel dannato epicentro di disuguaglianze monstre, in una modernità sociale ancora capace di ospitare al suo interno l’inferno morale, si consuma per diciotto anni un abuso che sciocca, suscita spaesata compassione in molti animi, solleva inquietanti interrogativi, inerenti al perché di questo choc.
   Gli albori della vicenda, i suoi patologici prodromi, sono un’emigrazione partita male e finita peggio. Sullo sfondo uno Stato antico e importante, enorme come un continente, una superpotenza che purtroppo, nel caso in questione, non riesce a contenere gli aneliti di una coppia, un lui e una lei che ne vogliono evadere alla volta di un opulento Occidente, forse pensato come un bengodi dove tu -generico- godi a prescindere dal contesto dell’inserimento. Ogni moto migratorio include sempre, almeno potenzialmente, un nocciolo di bellissimo fascino. La possibilità di esperire l’altrove, di allargare il proprio orizzonte esistenziale, di conoscere l’Altro, di viaggiare sul globo terracqueo, è un fulgido principio di ricchezza morale, di ampliamento dell’Io, di attingimento di una maggiore esperienza internazionale, qualora, si intende, il protagonista del voyage, sempre un responsabile produttore di valori soggettivi, preferisca questo salto. C’è chi nemmeno nei sogni può arrivare a concepire l’allontanamento dalla diletta Patria, e chi, pur continuando ad amarla, fa le valigie, forse versando una lacrimuccia sulla loro superficie, e parte, giocando a carte rigorosamente coperte con il destino o con qualche suo surrogato. Ottime entrambe le scelte, ché il cuore dell’etica e anche quello della possibile felicità di un individuo sono sempre dentro di lui, irriducibile artefice del senso d’ogni propria scelta. Meravigliose parimenti, ma a una condizione: che chi le compia sia davvero, integralmente compos sui, abbia una lucida signoria nel mare magnum di un’interiorità delicatissima, un mix di miliardi di pulsioni.
   La ragazza -A- e il ragazzo -B- in oggetto, facenti parte della categoria di chi sente un maggior valore nello slancio di un espatrio, purtroppo dimostrano, quando arrivano in Italia, di non avere una simile autodeterminazione, di peccare in autocoscienza. L’immersione in un ambiente straniero, il contatto -bacio da un lato, rischio di spaesamento dall’altro- fra la loro personalità e un ignoto estero non è indolore, ma in questo caso la politica non c’entra. Il punctum dolens è soprattutto in e fra loro.
   In questa vicenda non è dato di sapere con precisione, date la penuria di cronaca attuale e l’assenza di una conoscenza più profonda -simile alla Storia-, se l’animo di questi cinesi, o di uno dei due, si sia sentito déraciné, se non sia riuscito ad allignare nel tessuto sociale dell’Italia settentrionale. Certo è invece che il loro ménage è drammaticamente imploso, il loro amalgama entrando in una crisi dai risvolti terribili.
   Il patatrac accade non subito. Divampa e inizia a imboccare un’escalation irreversibile dopo la nascita di due figli. Lui, sconcertante mascalzone, abbandona al suo destino la compagna, portando seco il bambino, e lasciando la povera bambina -che con altro nome di fantasia chiamiamo C- alla moglie. I capi d’imputazione, morale e non solo, che gravano sul fedifrago sposo sono molti, tutti gravi, e gravissima è la mentalità nella quale costui reputa di scarso valore una prole femminile. Con la sua fuga ha sbagliato come minimo tre volte in qualità di marito, tradendo l’implicito patto di reciproca solidarietà antecedente alla partenza, l’amore per la sua compagna e il dovere di assisterla economicamente, anche, ovviamente, dopo l’eventuale tramonto dei sentimenti; ancora più numerose le ripugnanti colpe commesse come genitore, anche per l’aberrante distinzione basata sul sesso.
   Per C, innocente e fragilissima persona, questa diserzione è stata l’inizio di un’indicibile odissea, fatta non di una peripezia -contrassegnata da vivacissimi pericoli in giro per il mondo- ma del suo contrario, paradossalmente concentrico -talvolta “les extrêmes se touchent”-: un Vuoto sociale assoluto. ‘A’, infatti, nelle sue vesti di madre ha imboccato un modus operandi che inietta raccapriccio anche nei soggetti più distratti. La piccola C, dopo essere stata registrata all’anagrafe della sua città natale, Rovigo, i genitori ancora uniti, quando il padre le ha abbandonate ha dovuto subire un’altra forma di ferocia. La signora, dopo aver girovagato in territori come Padova e Comuni in provincia di Brescia, l’ha segregata, nell’hinterland di questa città, in un lager di fatto, cioè in un laboratorio clandestino, un calzificio, uno squallido seminterrato, in cui il lavoro aumm aumm viene svolto in nero pure a livello di luce morale.
   Una simile clausura risulta un allucinante esempio di alienazione anche se duri poco. Quella di C è durata quasi diciotto anni. Occultata in un ambiente asfittico, malsano, con tutti i miasmi psicologici relativi a una prigione senza interfacce con il resto della società. Anni e anni di un degrado assoluto, un’esistenza che, in fasi verdissime e oltremodo importanti a livello evolutivo, è stata depauperata finanche del diritto di frequentare le scuole. Barbaramente privata dello studio, mai una visita medica: una crudeltà che, oggetto di una stigmatizzazione non priva di struggente turbamento nella scientifica compassione, è al tempo stesso una scena di un’irrazionalità strana, espressione di oscura, crudele disumanità.
   In qualche articolo di giornale si percepisce fra le righe una pietosa voglia di non infierire sulla responsabile, nell’allusione al disagiato contesto in cui ella è partita in questa sua clamorosa reità. Al centro della storia è la violenza subita dalla bambina, occultata più di un Segreto incluso in un annoso tabù, condannata a una specie d’invisibilità sociale, durata dalla nascita fino alle soglie del suo diciottesimo compleanno. È stata così tanto allontanata dall’interazione sociale, dalla morale ricchezza d’ogni fase di una crescita culturale, da rischiare di equivalere a un’ombra, alla fantasmatica assenza di visibilità.
   Ma ogni esistenza sotto il cielo, pure quella più violentata dall’assurdità, lascia una scia. La società, finalmente, s’è accorta della scia di questa povera diciassettenne, sotto un cielo stranissimo, dipinto d’un rosso altamente ambiguo:  tramonto d’una tremenda sofferenza, aurora d’un rinascimento della sua piena dignità.
   Adesso questa donna deve essere aiutata, culturalmente, economicamente, con poesia. Bisogna tentare di restituirle, almeno in parte, tutti i valori che le hanno rubato nella barbarie. La sua scia deve seguire, sotto un Sole che la protegge con affetto, la sua navigazione esistenziale: tante magnifiche rotte, in grandiosa compagnia, mai sole.

Walter Galasso