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DI WALTER GALASSO
Aleggia una sedicente serenità nell’aria comoda come l’inerenza a una moda. Tranquilli passi in spicchi di spazio, mani dietro la schiena in viandanti così così, tanta voglia di leggere parole che rispecchino le proprie idee, come comari che strizzano l’occhio mentre strozzano il rispetto verso gli altri alla seconda: quelli che la pensino diversamente. Consuetudini collaudate nella solita solfa, orme lasciate su zolle tradizionali, sprint ma nel perimetro di un guscio. La propria visione del mondo, una regione teoretica in mezzo a infinite altre prospettive, eletta a Ragione per antonomasia, a regola che fa gola all’istanza di pacifica certezza.
Cavalcate di un vento sbarazzino, evaso dalla rosa dei suoi fratelli per scorribande nella città, attraversano profili, spettinano chiome ordinate, schiaffeggiano peli e veli, quando in mezzo alle sue folate la distrazione di qualcuno perde il suo mix di torpore e abbandono e la sua personalità si accorge meglio di se stessa. Ma questo atomo di potenziale choc è una minoranza della minoranza in quell’animo placido, assennato e assonnato, un nucleo che resta tutto sommato indifferente all’incasinato caos della città, bella babele che brulica intorno al suo baricentro. Detta in lui legge il guinzaglio messogli discretamente da un sistema che, subdolo e abile, aggioga mentre illude di alimentare.
Nell’aere dei rioni impazzano le immagini che rimandano ad altro. Gli alti segreti dell’Universo, pur occulti nel backstage della loro spettacolare fenomenologia, hanno ambasciatori ovunque, per conoscerli è sufficiente aprire tutte le porte e tutte le finestre che caratterizzano il fulcro di ogni umana alma. Facilissimo questo patatrac in un autoreferenziale egoismo in senso lato, ma anche urticante e proibitivo se la persona preferisca, per orgasmo dell’Io nella sua privacy, non dirigere i propri radar oltre il proprio naso e verso l’orizzonte.
Suonano come artisti squillanti gli uccelli, che cantano spesso e non si vantano mai. Coesi nel loro sincronizzato show, milioni di ali che, armonicamente all’unisono, paiono un solo grande animale, intento, con grazia ballerina, a giocare lassù, reduce da, o in procinto di, un’emigrazione avventurosa, indefessa, mai spaesata nonostante il susseguirsi di diverse latitudini e longitudini. Essi sorridono alle nuvole, prescindono dalla forza di gravità più e meglio di astronauti nello spazio, ma mai con volontà di potenza. Corrono, danno spettacolo, si sposano, pur al di fuori d’ogni rito formale, con la velocità di un dinamismo tumultuoso. Settentrionali creature, spiriti latori di valori lontani, immagini in impazzito movimento, così affascinanti da battere record, ispirare poeti seri, incarnare il celere paradigma del brio che sfida a duello la stasi.
La metropoli li include come pimpanti principi pocket, e se ne rallegra, perché da questi professori, assai poco ingombranti, possono scendere, senza paracadute, lezioni memorabili, semi di esortazione ad ampliare il raggio d’azione esistenziale. Eppure in molti casi questa potenzialità di fertile condivisione non ha nemmeno il tempo di sfiorire, perché abortisce nella sfera underground delle chances, laggiù, nelle inferiori propaggini chiamate radici. Uomini che si accontentano riluttano a seguire il leggiadro esempio di quei campioni, volatili cuori abbinati con ali dalla Natura che, demiurgica, crea un capolavoro in ogni esistenza.
Il tran tran dei fifoni è come un treno che si muove, ma solo per fare ossessivamente la spola fra una partenza e un arrivo che, poco dopo, diventando una ‘start up’ a sua volta, in una tratta in cui la partenza suddetta è diventata meta, crede, nella sua ronfante illusione, di essere pure lui protagonista di un ardimentoso cambiamento, astuccio contenente la stazza extra large dei carati di un diamante super, reuccio di energia. E invece è solo una tappa di un moscio itinerario, che non abbisogna di alcuna mappa… e qui casca l’asino, anche se la città non ode il suo isterico raglio.
La solita solfa, a qualsiasi livello, non genera veramente la metamorfosi che porta in grembo un ennesimo bebè del progresso. No mappe, sì cappe, nel depravato desio di agiato orientamento. Benedetta acquiescenza allo status quo, fonte di larvato immobilismo, traviato laboratorio che sforna a getto continuo, non solo nei giorni pari e dispari della settimana, ma pure assurdamente in quelli che ancora non esistono, il reazionario consolidamento delle certezze tradizionali. Per l’onore del ruolo -in una società che è solo uno degli infiniti sistemi di coesistenza, venuta dopo tante sorelle ma con la pretesa di essere figlia unica della savia ragione- il cittadino modestamente ambizioso si accontenta, ammorba la eco delle possibilità che pure il suo animo ha, perché i rischi del pioniere gli sembrano purghe da evitare, cazzate abusive, particelle di una stoltezza da mettere al bando.
Lodato sia, invece, il corifeo che getta il cuore oltre la siepe, alza viepiù un’asticella scivolosa e temeraria, annusa l’esotico profumo di un’asintotica esplorazione di novità. Siamo dove siamo grazie ad atleti di un tale slancio, in virtù della gagliarda inquietudine in cui ogni Marco Polo si è proiettato nella precaria libido del Viaggio superno. Tu, abissale centro d’ogni siderale animo, cuore microcosmico di ogni persona che include in sé l’assoluta, inebriante, sacra infinità dell’Universo, imita ed emula e possibilmente supera questi antesignani. Innamorato della pericolosa originalità, scherza in coreografie artistiche contro la corrente e i suoi bandoleri derivati. Osa, non essere immobile come un soggetto in posa davanti a una macchina fotografica.
Il raffinato superuomo, che convola a nozze con la bellezza della sexy Filosofia, ha sete di nuove conoscenze, brama la trama di lunghissime odissee in territori lontani. Forse scarseggia souplesse nell’altrove, che respinge a mittenti naïf la loro ingenua brama di utile confidenza. Là, in posti lontani anni luce dal proprio nido, l’argonauta curiosissimo, impiccione e scavezzacollo, non può mai abbassare la guardia, ha da creare, con un mirabolante escamotage, una seconda vista, sulla nuca. Deve saper dormire, all’uopo, poco o niente, sopportare eventuali imboscate di una nemica ansia, dribblare ombre moleste, metabolizzare seriali delusioni. Non sa a quali insidie possa andare incontro, ignora dove qualche Mister Dubbio vada a parare. E poi nell’equipaggio, fra valigie e antidoti contro il mal di mare, deve inserire un pizzico di pessimismo. È bene mettere in preventivo la diffamazione che può piovergli addosso dal falso cielo di chi, comandando, si crede in alto. L’esploratore di nuove dimensioni pesta piedi, può apparire balengo e antipatico ai soloni quacquaraquà che stanno là, sulle loro poltrone, perché le hanno rubate nel buio d’una bassa connivenza. Vogliono dettare legge e dire l’ultima, ma se ne frega il filosofo che è dentro ogni Marco Polo, uomo assolutamente libero.
E in cima al Milione di virtù del grande viaggiatore splende lei, la Letteratura, perché, com’è risaputo, è grazie alla sua scrittura che il grande veneziano, secondo -forse anche più dietro- rispetto ad altri nel raggiungere la sua Meta geografica, divenne davvero primo. Lui Marco Polo; la sua penna un polo d’Eccellenza.
Walter Galasso