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DI WALTER GALASSO
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Esseri umani si sollevano da terra, in senso geografico, in un dislivello di altitudine, ma non è un volo, anzi in questa eccezionale situazione forse diventano anime moralmente terra terra. Con l’affrancamento dalla forza di gravità perdono forza etica, e la gravità di questa anomalia è inoppugnabile, anche se loro, assi di bugie, non intendono ammetterlo nemmeno in preda ai fumi dell’alcol.
L’invasato peana che il ‘sistema’ si dedica, con apologie seriali, è ricchissimo di riti, per lo più triti, di miti fondati sull’usurpazione e su ipnotica mediocrità, di figuri ‘militarmente’ forti e moralmente corti, anzi cortissimi. Questo ambiente irradia un’autoreferenziale boria, un autocompiacimento da operetta, batte le mani, con masturbazione intellettuale, davanti a uno specchio costruito nel Medioevo. Ha una buona opinione di sé, adora sventagliare retoriche bandiere, mere lenzuola trasformate in vessilli senza assilli e con pacchiana pacchia in ogni sventolio, ma, forse troppo eccitato in questi esercizi d’una farlocca gagliardia, non si è mai posto una domanda semplicissima. Non ha mai domandato, ai guru che lo osannano avendo in cambio gloria fasulla, perché una società di uomini, esseri con un’intelligenza enorme, possa essere così tanto piena di eterogenea negatività -in primis la violenza in senso stretto-.
Porcherie che non sono ineluttabili, come qualcuno vuole far credere con chiacchiere travestite da buon senso. Nello sviluppo diacronico della Storia dobbiamo escludere, se davvero vogliamo onorare teoreticamente la civiltà, vizi superiori -a priori secondo principi d’innatismo- alla possibilità di essere debellati. Se escrementi metaforici e allegorici, quali sono le patologiche schifezze dei brutali prepotenti, permangono, e anzi si propagano viepiù, si verifica un’escalation che può e deve ispirare una precisa denuncia, senza assoluzioni rannicchiate in fatalismi di comodo. Tante società sono corrotte e degradate, al netto di parate ampollose e propagandistiche, anche perché presunti intellettuali -quando finiscono di leggere una pubblicazione, il libro piange pensando ‘in che mani sono finito!’- non hanno mai inviato, né a se stessi né a qualche collega, la suddetta domanda.
È molto probabile, invece, che un vero artista voglia formularla, e infatti René Magritte l’ha elaborata e le ha risposto prima di dare alla luce la splendida opera in oggetto, quella in cui gli omini galleggiano nell’aria. Il capolavoro si chiama “Golconda”.
Una denominazione sicuramente non casuale, e probabilmente legata alla drammatica e storica ambiguità della città Golconda, un centro che, nel suo struggente declino a partire da una proverbiale magnificenza, potrebbe far commuovere uno squisito poeta solidale. Essa, attualmente vicina agli oltre dieci milioni di abitanti di Hyderabad, in India, fu, in qualità di patria dei diamanti, l’icona della sfarzosa ricchezza. I diamanti, imperatori dei gioielli, a lungo si sono estratti sono alle sue latitudine e longitudine. Un primato che l’ha resa equivalente, nell’immaginario collettivo, alla somma di ‘Eldorado’, ‘Bengodi’ e ‘Cuccagna’. Fulgida e privilegiata, splendeva come un sinonimo di prosperità, anche perché le preziose gemme, planetaria prerogativa delle sue miniere, nel suo perimetro urbano erano altresì lavorate e messe in una prima e fondamentale forma di commercio. Una cornucopia in formato metropolitano, un simbolo coccolato dalle materiali attenzioni di venali fan d’ogni dove. Questo pezzo di potere fiabesco non è stato effimero, ma nemmeno molto duraturo, perché, dopo l’apogeo della sua apoteosi, la città è scivolata in una crisi gravissima e irreversibile, fino a diventare un tipico scenario di nichilismo: rovine.
Questa dicotomia fra un prima eccelso, celebrato come una regina, e un dopo più schifato di un topo, suggerisce una plausibile chiave di lettura del dipinto, una pista ermeneutica che, è bene precisarlo, non può assurgere a unica key di disvelamento. L’Autore del capolavoro, infatti, ha sempre voluto ammantare di leggero mistero questa sua creatura, potenzialmente esposta, più di tante sue ‘sorelle’, alla soggettivistica possibilità di innumerevoli approcci cognitivi. Al netto di questo zoccolo duro di relativismo, però, il nome -per la suddetta indole ‘ancipite’ dell’intera storia della city, simile a una montagna russa nella sua parabola prima ascendente e poi discendente- non può non collegarsi all’equivoca vicenda dei signori volanti.
Elegantissimi, incapaci di prescindere finanche dal corollario estetico d’una bombetta, nell’impeccabilità del loro look, all’insegna d’una borghese haute-couture, evidentemente appartengono a una razza sociale di successo. Chic, professionisti affermati, incarnano, in un dato di fatto più che in un simbolismo facoltativo, il successo, come campioni paranormali nel loro moto magico. Un movimento spesso definito una pioggia verticale, dall’alto in basso, ma ci sono pure critici che non escludono il contrario, cioè ch’essi somiglino, in un moscio decollo, a palloncini che, già legati con un filo a un appiglio, inizino ad andare su quando una forbice, zacchete, lo spezzi ed essi siano liberi di girovagare nello spazio. Erroneo supporre che sia la prestigiosa anomalia di questi simili di Giano bifronte, ognuno da un lato gentiluomo e dall’altro uccello, il motivo del titolo ‘Golconda’, eccezionale centro d’una ubertosa ricchezza, quasi fiabesca. Questa città, con il suo destino incoerente, passata dalle stelle alle stalle, c’entra con i protagonisti del quadro piuttosto perché anch’essi includono luci e ombre, in un mix che, a loro ignoto, appare perspicuamente a chi li osservi dall’esterno. L’unica differenza risiede nel fatto che nella città indiana il Bene è venuto prima e il Male dopo, mentre negli omini -che stupiscono chi li guarda in uno straniamento col botto-, forse migranti da sud a nord come l’acqua di un geyser, forse cadenti dalla volta celeste come gocce di pioggia, pro e contro coesistono, fusi nello stesso tempo.
La positività della loro natura è la buona posizione sociale, il lussuoso outfit della loro silhouette -status symbol equivalente a una spia di ottima reputazione-, l’impettita postura, quasi sull’attenti nel somigliare al gas durante la fenomenologia pittorica della loro inedita leggerezza. Fanno indubbiamente parte di una razza padrona, e del resto il loro volo, sia pur di serie B, è pur sempre, a parte l’inferiorità rispetto a un’aquila o a un jumbo, appannaggio d’una pleiade di elette anime. Tuttavia in mezzo a questo indubbio tripudio di ‘asset’ v’è una stonatura che rischia di rovinare buona parte della festa: essi sono tutti uguali. Idem, tali e quali, mostruosamente depauperati di individuale originalità, fatti con lo stampino, gemelli in una miserrima standardizzazione.
E qui casca l’asino, qui viene a galla il neo che ammorba il loro successo: l’omologazione, che esautora il singolo, inteso come persona piena di responsabile unicità sulla faccia della Terra, e lo rende anello -passivo e schiavo nella sua aurea mediocritas- di un meccanicistico ingranaggio.
Forse, per ritornare all’iniziale concetto del presente articolo, si annida proprio in questa carenza di bella autonomia la crisi di molte società. Forse deriva da questo conformismo, in cui si è infeudati al leviatano in una eteronomia invisibile, il fatto che molte persone non sappiano valorizzare l’intelligenza che alberga nel loro cervello, con una conseguente implosione di ragione e con la connessa esplosione della violenza, sia diretta che indiretta. La società è inquinata da molti bubboni anche perché chi preferisce essere una marionetta manipolata da burattinai, pur di avere in cambio un buon ruolo nella comunità, rinuncia al meglio della propria intelligenza e del proprio impegno etico, sistemandosi bene e/ma ragionando coi piedi. I soggetti tutti uguali nel quadro, sosia standard, affetti da una terribile analogia tra schiavi omologhi, sono tanto affermati e capaci di volare, positivi come la Golconda dei tempi d’oro, quanto ammalati nell’amputazione della loro intelligenza, negativi come la stessa città caduta in una desolante crisi. Volano, sì, ma come una buffa mongolfiera, scioccamente fiera, tenuta al guinzaglio, giù giù, dal suo padrone boss.
Gli uomini con la bombetta, surreali creature di René Magritte, in un linguaggio calcistico possono essere presentati come giocatori sociali in bilico fra gol e autogol.
Walter Galasso