UN  ‘MATTO’  SABOTATO MENTRE IMPARA LA TRECCANI A MEMORIA   [FABRIZIO DE ANDRÉ,  “UN MATTO  (DIETRO OGNI SCEMO C’È UN VILLAGGIO)”]

UN  ‘MATTO’  SABOTATO MENTRE IMPARA LA TRECCANI A MEMORIA   [FABRIZIO DE ANDRÉ,  “UN MATTO  (DIETRO OGNI SCEMO C’È UN VILLAGGIO)”]

UN  ‘MATTO’  SABOTATO MENTRE IMPARA LA TRECCANI A MEMORIA   [FABRIZIO DE ANDRÉ,  “UN MATTO  (DIETRO OGNI SCEMO C’È UN VILLAGGIO)”]

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UN MATTO  (DIETRO OGNI SCEMO C’È UN VILLAGGIO)

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DI WALTER GALASSO

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   “Un matto  (Dietro ogni scemo c’è un villaggio)”,  canzone inerente all’album di Fabrizio De André  “Non al denaro non all’amore né al cielo”, in libera relazione con poesie dell'”Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee Masters.  Un titolo che, inclusivo di un rebus in senso lato, può nitidamente rappresentare un emblema di ricchezza ermeneutica, ben lungi dal ‘meccanicistico’ dovere di essere interpretato in modo seccamente univoco. Due parentesi tonde che sembrano la trascrizione grafica di due ceffoni, uno mollato da un mancino e l’altro con una mano destra. A chi? Elementare, Watson!, al villaggio che sta in mezzo ad esse e dietro ogni matto, il drammatico, struggente protagonista di questa ennesima gemma di Faber De André.
   Il fatto che dietro ogni scemo ci sia un villaggio può voler dire tutto, o almeno tanto, e niente; può essere un atto d’accusa oppure costituire la mera descrizione materiale di una coesistenza statistica, però, se tanto dà tanto, questo complesso e originale titolo non lascia presagire nulla di buono per la tribù imprigionata nella nota parentetica. Del resto è di per sé pregnante a livello stilistico la soluzione di abbinare un termine solo soletto, secco, ammantato di un potente individualismo linguistico, con un’articolata chiosa: e chi osa, del resto, di fronte a un titolo di De André, pensare, in lesa maestà, ch’esso non sia già, intrinsecamente, tantissima roba culturale? Il connubio è tendenzialmente caustico e polemico, al netto della suindicata possibilità che possa essere una postilla innocua. È già chiaro dove il poeta vada a parare.
   Il tipico folle, in un immaginario collettivo che si crede forte e sotto sotto è fragile come zucchero filato, appare una figura crocifissa in una solitudine anche fenomenologica. Un pazzo è avulso dalla collettiva armonia, un ecce homo abbandonato dagli altri al suo ruolo di eccezione che conferma la norma, peggio di un lupo solitario -perché anche un wolf misantropo fa paura e ha un senso, eccome!- e pure di un hikikomori che giochi a solitario, con un mazzo di lucide carte napoletane in PVC da 330 micron, perché ovviamente anche in questa masturbazione un giocatore fa funzionare in modo ordinario il suo cervello ludico. Secondo molte persone il matto no, smarrito nella sua irrelata disperazione, sintomatica di un’assurda frattura della sua inerenza al gruppo, come un iceberg s’è distaccato da un fronte di ghiacciai, destinato a sciogliersi, completamente e nichilisticamente, nel mare, in una Natura che nella sua cristallizzata siberia ha forse versato una sua lacrima. Il matto, nell’interpretazione neghittosa che lo liquida come incarnazione d’una ragione perversa e terribilmente alternativa, non fa testo, è un’antitesi e un’antinomia rispetto alla società di cui (non) fa (più) parte, anomalo come un extraterrestre venuto da Marte.
   Ed è su questo pregiudizio che s’innesta l’illuminata contestazione insita in questo titolo, particolarmente in vetrina. Faber non ci sta, si ribella all’ingenuità in cui quando un filosofo indica la luna, lo sciocco guarda il dito. L’autore prende l’intero villaggio (ex frame del pazzo, prima dell’irrazionale discrasia in cui il povero paria se n’è andato alla deriva), lo carica a bordo di un veicolo d’incriminazione e lo richiama alla sua responsabilità, larvata nei casi meno peggio, manifesta e velenosamente conscia allorché il paziente, diversamente abile nella sua capacità d’intendere e di volere, ne venga impietosamente ghettizzato con sbrigativa ferocia, reputato tout court un minus habens.
   Tu tribù, tu clan che depenni dal senso, per vile tabù, l’eteroclita mente del tuo fratello matto, c’entri nel suo dramma, che in una prepotente ignoranza hai espulso dalla vasta gamma dei tuoi valori faraonici.
   L’artista può gettarsi a capofitto, nell’enucleare il perché e il percome di questo rinnegato legame, nella sottolineatura tranchant delle più vistose colpe a monte di tale esclusione, ma preferisce, con un tocco di classe raffinata, far vedere questa parentela (fra matto e villaggio) da un’altra angolazione, scevra di imputazione, imperniata non su ‘il villaggio si chiama fuori dall’eziologia di quella malattia ma c’entra’, bensí su ‘il presunto matto dimostra al gruppo (da cui è escluso) di non meritare questo ‘zacchete’, di essere in crisi ma non troppo, avendo tanto in comune con la sua positività’.
   De André rivaluta il bistrattato protagonista della sua canzone sin dall’incipit, dove colloca un tu ambiguo. A breve, nel corso del testo, questo pronome indicherà il paziente, l’ammalato, ma qui, nell’inizio dell’inizio, appare vagamente un tu generico, rivolto al ‘sano’ contraltare, a ogni impettito membro del villaggio, per condannarlo a prendere atto di una florida virtù nel gap da cui è affetto il matto. Con sapiente stile il tono scelto per questo ‘Pronti, via!’ è un ‘prova a immaginare’ che esprime la volontà di alludere a un’impresa, del folle, a cui il destinatario di questo discorso probabilmente non riuscirà ad assurgere. Il protagonista della canzone, che sta per il reale Frank Drummer, non riesce a comunicare bene con i suoi simili, e/ma ha un mondo nel cuore. Si mettano sui due piatti d’una ideale bilancia la negatività di una défaillance nell’estrinsecare contenuti interiori e la positività del fatto che questi consistano addirittura in un mondo: questo punto di forza pesa quintali, il precedente problema grammi. Ergo, o caro tu generico, datti una regolata e rispetta chi innanzitutto ha tanta ricchezza dentro, altro che demenza -primo motivo per cui fra lui e il villaggio non sussiste una soluzione di continuità-, e poi riesce quotidianamente a sopportare il disagio di non saperla compiutamente esprimere come vorrebbe, una psicologica impresa che tu a malapena sai immaginare.
   Ciò detto, De André procede, dopo la preliminare ode alla dignità del suo triste personaggio, verso l’enucleazione del nocciolo del suo dramma esistenziale. In una scena onirica, che però esprime un generale e ontologico ordine di rapporto fra ogni individuo e la propria società, troviamo una meravigliosa sintesi dell’alterità fra la felice fortuna dei membri del villaggio, che quando fanno la nanna sono autoreferenziali nei loro dreams, e un povero ‘pazzo’, privato dalla sua patologia del piacere di essere un microcosmo autonomo e imperniato su un viaggio da sé a sé. Quando il tu generico è già diventato, in un’impercettibile metamorfosi, il dannato uomo internato in un manicomio, l’autore pennella “gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro”: una perla di poesia cantautorale, una meravigliosa sintesi della quintessenza dell’alienazione.
   Il protagonista è monco di una piena responsabilità, alenante e con un metaforico fiatone mentre anela ad avere ponti su cui raggiungere gli altri, vicinissimi nello spazio -nel titolo li ha dietro- ma lontanissimi nella ferita spiritualità del suo bisogno di comunicazione. Perciò mette in atto, ingegnere -in fai da te- di un bridge culturale, un clamoroso tentativo d’interfaccia: “imparare la Treccani a memoria”. Eroicamente sfida a duello la propria difficoltà di inviare parole al prossimo, iniziando a memorizzare tutti i lemmi di un monumento culturale. Prende l’abbrivo, ma “maiale, Majakowsky, malfatto” è una sequela traumaticamente interrotta da stronzi del villaggio, che, in una prima violenza, gli scippano il proseguimento dell’impresa, esautorandolo come studioso della Treccani anche se è ben chiaro che lui sta procedendo benone, e poi, in una seconda, vanno a parare a un ritorno del crasso razzismo: “fino a leggermi matto”. Ma allora ditelo! Forse è in questo sibillino abominio il fuoco della tesi “dietro ogni scemo c’è un villaggio”.
   Nella segregazione, diretta o indiretta, di un fragile, introverso uomo in un manicomio v’è un’egemonica normalità che impedisce alla sua mente di inseguire liberamente la sua piena autosufficienza, e all’acme della sua sopraffazione, folla autoritaria, lo bolla come folle proprio mentre il suo Io cerca poeticamente di comunicare e così dimostrare di non esserlo.

Walter Galasso