TRAIANO BOCCALINI:  UN’OPERA DEL SEICENTO CONTRO I LECCHINI, ANCHE DI OGGI   [“RAGGUAGLI DI PARNASO”, “TRIBUNALE ERETTO DA APOLLO CONTRO GLI ADULATORI”  (NELL’ ARTICOLO IL TESTO COMPLETO);  COVER: “GLI ADULATORI”, BRUEGHEL IL GIOVANE]

TRAIANO BOCCALINI:  UN’OPERA DEL SEICENTO CONTRO I LECCHINI, ANCHE DI OGGI   [“RAGGUAGLI DI PARNASO”, “TRIBUNALE ERETTO DA APOLLO CONTRO GLI ADULATORI”  (NELL’ ARTICOLO IL TESTO COMPLETO);  COVER: “GLI ADULATORI”, BRUEGHEL IL GIOVANE]

TRAIANO BOCCALINI:  UN’OPERA DEL SEICENTO CONTRO I LECCHINI, ANCHE DI OGGI   [“RAGGUAGLI DI PARNASO”, “TRIBUNALE ERETTO DA APOLLO CONTRO GLI ADULATORI”  (NELL’ ARTICOLO IL TESTO COMPLETO);  COVER: “GLI ADULATORI”, BRUEGHEL IL GIOVANE]

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DI WALTER GALASSO

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   Ampio il novero di legittimi motivi onde pregiare la satira menippea. Eleggerne uno a precipua causa della sua importanza nella storia della letteratura è forse vietato, o comunque inopportuno, alla luce del soggettivismo a cui sempre si deve informare la configurazione di una scala di valori del genere. È chiaro che di un autore o di uno stile la selezione di un merito più importante degli altri dipende pure, se non soprattutto, dalle motivazioni poietiche di chi effettui questa classificazione. Sicuramente inoppugnabile, invece, il compito di stabilire quali possano essere dei tratti distintivi validi in modo trasversale e universale.
   In questa ottica, a prova di bomba e di confutazione, immediatamente segnalo, nella satira suddetta, la virtù gnoseologica insita nel cosiddetto ‘spudaiogeloion’, cioè un brillante mix, in un ibridismo tra il serio e il faceto, di elementi eterogenei e talvolta antitetici, come l’alto e il basso, la solennità e la comicità, la tragedia e la commedia, o anche, più in genere, la prosa e la poesia, nel prosimetro.
   In principio, nel suo processo genetico, ci fu l’apostasia, all’insegna d’una specie di lesa maestà, da quell’ortodossia nella quale non era consentita una contaminazione di generi. Una rigidità metodologica, somigliante a un’anchilosi della creatività, rampollata in ultima analisi da una suddivisione tassonomica risalente ad Aristotele. Il Maestro, ovviamente, attesa la sua situazione filosofica e storica, non ha indulto a pecca alcuna. Non altrettanto si può dire di quegli epigoni che, anche a molta distanza di tempo dallo Stagirita, continuarono, reazionari e poco aperti alle innovazioni, a tacciare di eresia letteraria quelle penne che cominciavano a voler sincretisticamente coniugare registri diversi: autori pionieri, all’avanguardia, capaci di assimilare la semplicissima e fertile linea guida racchiusa nel parolone ‘spudaiogeloion’. Un’altra lezione jolly della satira in oggetto è stata l’indole eccentrica della struttura letteraria, id est una narrazione a partire da un punto di vista, privilegiato, al di fuori del tran tran, anche se non sempre al di sopra della mischia. Per esempio la furbata, d’alta classe, di Traiano Boccalini, l’autore, un po’ sottovalutato, dei “Ragguagli di Parnaso”. Sottovalutato relativamente: l’opera è infatti nota, ma a lui, autore peregrino per molti motivi, si può dare di più.
   Come il genitore degli “Adagia”, Erasmo da Rotterdam, è lodato per avere in questa sua opera, talvolta accostata ai “Ragguagli”, concorso alla propagazione nella cultura europea di celeberrimi e proverbiali modi di dire -per esempio “una rondine non fa primavera”-, massime molto funzionali a livello pragmatico, così Boccalini ha precorso una funzionalità sociale assai moderna, nel suo ruolo di giornalistico menante. Un intellettuale attento all’operato di coevi personaggi, più o meno sulla cresta dell’onda, e a pregnanti episodi dell’attualità, in focus di stampo non solo culturale, ma anche politico. Riflette questa sua vocazione anche il suo stile, coraggiosamente semplice, nel suo sapore tardorinascimentale, in mezzo a mode ormai già informate a, e aggiogate da, impulsi di sfarzo barocco.
   La sua penna, in questo neorealismo ante litteram, vuole picchiare duro, dirne di ogni se il caso, non avere vigliacchi infingimenti, ma adotta misure di congrua cautela, sposando, per esempio, l’impostazione ‘eccentrica’ di cui sopra, e in essa divertendosi a mescolare registri dispari, per meglio porre in essere una carica caustica che non sia inferiore al paradigma della satira menippea.
   Il sintetico risultato di questo mix metodologico è rappresentato dalle centurie dei “Ragguagli”. Lo scrittore marchigiano se ne va, in questa sua missione letteraria, sul Monte Parnaso, nel gotha delle Muse e sotto l’illuminata maestà di Apollo, e ivi gli piace immaginare altresì la presenza di suoi illustri coinquilini, letterati e politici. In questo olimpo culturale si pratica il teoretico hobby di discutere in merito a enti ed eventi contemporanei e passati.
   In questa sede non voglio entrare nel merito di tutta la latitudine contenutistica di questa opera. È sufficiente un accento sul fatto che una tale impostazione gli consente, da questo distaccato point of view, di intessere una pungente satira versus tanti bersagli a lui invisi, protetto dall’usbergo di una immaginazione che formalmente è fiction, ma di fatto comunica al pubblico dati assai chiari nel loro riferimento a nomi e cognomi ben precisi, facendo fischiare le orecchie di molti. Lo scrittore obiurga, bacchetta, sculaccia demoni in auge, prende per i fondelli, ma estrinseca questo fuoco di sbarramento, atto a osteggiare nella misura del possibile molte porcherie invalenti, con un’altra prova di originalità rispetto a modelli imperanti. Il suo alto tasso d’un modernissimo realismo si manifesta, infatti, con una mezza rassegnazione -molto distante dal gusto utopico di un Tommaso Campanella-, che non è la bandiera bianca alzata da chi si arrende, costituendo invece, a livello vagamente filosofico, la proiezione del programmatico tentativo di essere lucido e non sparare fanfaluche edificanti. Mastica assenzio la mente di Traiano, perché ovviamente prendere atto dell’irreversibilità e dell’ineluttabilità di laidi vizi non può non disturbarne i desiderata etici, ma in lui, nel suo coraggioso impegno d’intellettuale non omologato, questo pareggio, non a reti bianche, con il crimine dei fetenti -lui segna il goal chiamato ‘critica’, loro la rete rappresentata dal continuare a essere impunemente simili a un letame metaforico- significa soprattutto lucidità speculativa.
   Voglio regalare alle mie lettrici e ai miei lettori “Tribunale eretto da Apollo contro gli adulatori”, un gustoso gioiello di letteratura e non solo, uno scritto dove, appunto, egli da un lato mette alla berlina questa stomachevole categoria, che sporca le società di tutte le epoche, dall’altro prende in contropiede chi si aspetta un’aspra e trionfante stigmatizzazione. Aspra sì, anzi asperrima, trionfante un po’ meno, ché il finale del racconto non è, purtroppo, a lieto fine.
   Apollo vuole estirpare l’adulazione, un “morbo”, solo un orbo può non vederla così, una malattia senza un medico per guarirla, e allora delibera con moto proprio un tribunale per debellarla, e come giudici designa tipi tosti, il fior fiore dei nemici di questo merdoso servilismo, top players come Giovenale, Pietro Aretino, Ludovico Ariosto. I magistrati sono, eccome, all’altezza del compito, ma per adire le vie legali e trascinare nelle aule di Temi un lacchè ci vuole qualcuno che lo quereli: passa un semestre, e il numero di querele è 0,00. Allora Apollo, con la santa pazienza, capita l’aria che tira nelle dilaganti tribù dei tabù, si avvale di zero zero sette, spie che fanno benone il loro mestiere e viene a galla la reità del leccaculo Bartolommeo Cavalcanti, che adora un maledetto boss, il quale, correo, viene chiamato in causa. E costui “Bartolommeo mio adulatore? Ma quando mai! Se ha una colpa, è solo quella di lodarmi meno del dovuto”. Prende pure per il sedere, questo guappo del quartierino. Al che l’Aretino s’incazza, idem i colleghi, ne nasce una battaglia contro il nemico, ma i buoni le prendono, si buscano botte dal cattivo, un tarantolato Rambo di quei tempi, capace, per comunicare solo un esempio della sua supremazia, di fare un occhio come un calamaro all’infelice Aretino. E Apollo? Capisce, dall’alto della sua divinità, che, a parte la figura barbina fatta dai suoi poeti, “il morbo dell’adulazione” è “un’infermità incurabile”, e annulla il tribunale. Explicit: “confessò non esser possibile punire un delitto, del quale non si trovava chi volesse mover querela”.
   Un’opera contro i lecchini, pubblicata nel secondo decennio del Seicento, è un testo che si attaglia meravigliosamente anche agli adulatori, e a chi con omertà non li contrasti, dei giorni nostri. A chi stia leggendo questo mio scritto dico, ultimandolo in ideale compagnia del bravo Traiano Boccalini, “per favore, querelate quei vermi, fatelo per Apollo”.

Walter Galasso