![UN FARO FORA IL RAZZISMO DI UN FORNO [Bozzetto 26] UN FARO FORA IL RAZZISMO DI UN FORNO [Bozzetto 26]](https://www.romacampodeifiori.academy/wp-content/uploads/2025/03/about_blank_73.gif)
![UN FARO FORA IL RAZZISMO DI UN FORNO [Bozzetto 26] UN FARO FORA IL RAZZISMO DI UN FORNO [Bozzetto 26]](https://www.romacampodeifiori.academy/wp-content/uploads/2025/03/about_blank_73.gif)
*
*
DI WALTER GALASSO

Lorenzo Magno è un emigrante che ha lasciato l’adorata patria in cerca di fortuna altrove, sentendosi nella partenza come un falco pellegrino costretto in un circo a volare lentamente, in una performante tortura indoor, da un punto a un altro. Era pieno di entusiasmo ma in un rito non vincente, aveva ali ma qualcosa, un non so che di antagonistico, gli sembrava, mannaggia!, che potesse tarparle. Pessimista? No, tutt’altro, però anche l’ottimismo ha mille volti, e talvolta può implicare qualche paradossale disagio.
Approdato nella nuova residenza, dopo aver cambiato latitudine e longitudine come un’indefessa pittima minore, ha attraversato, nella sua nuova dimensione esistenziale, una prima fase di semidisagio, un arco cronologico in cui la sua psiche ha ospitato la sensazione di essere un pesce fuor d’oceano, un umano cavolo a merenda, un corpo estraneo -microcosmo claudicante- in mezzo a un macrocosmo troppo esotico.
È bene precisare che nessun episodio di razzismo ha ammorbato questa start up della sua temeraria avventura. Zero fattacci offensivi, un clima tutto sommato ordinario e positivamente routiniero, lui trattato come un figlio dell’universo, un cittadino come tutti gli altri. Eppure non di rado si è sentito déraciné, dannatamente ai margini del milieu, con il fisico del ruolo del forestiero che ha da chiedere perennemente info per imparare la quintessenza di ogni ambiente.
Da quel debutto sono trascorse quattordici settimane, e Lorenzo, pur avendo bruciato le tappe nel suo processo di commisurazione e adattamento alla nuova realtà, nel complesso, al netto degli indubbi progressi compiuti, si sente tale e quale, tremendamente idem, sempre carente, nel nuovo frame geografico, di souplesse e savoir-faire. Il tasso della sua autostima non è basso, il lavoro non manca -e al giorno d’oggi un gagne-pain che consenta di intascare sistematicamente un ghiotto reddito è già tanta roba- e poi, a livello di orientamento nella nuova società, il giovane se la cava. Ha diversi amici, all’uopo corre dietro alle gonnelle -è ancora single, ma corteggia simultaneamente diverse signorine e, se tanto dà tanto, a breve la sua libido libidine se la passerà meglio-, sa pure dire qualche frase nel dialetto locale, una capacità che vale oro nel processo di upgrading di un emigrante. Nondimeno ancora il suo Io non è del tutto soddisfatto.
Intorno pulsa un grande tourbillon di altrui esperienze, una complessità in bilico tra ricchezza e casino. I ritmi della coesistenza sono tanto febbrili quanto disordinati, e questo ambaradan talvolta fa girare negativamente la testa del sensibile forestiero, il quale, per certi versi borderline, sempre lì lì per buscarsi incipienti attacchi di elettriche nevrosi, in alcune circostanze ha un diavolo per capello, affetto da urticante nervosismo, un po’ sotto stress, tant’è che a tratti compare sul suo volto un mezzo tic. Nemmeno lui riesce a capire, con provvidenziale intuito, quale possa essere il principale punctum dolens in questa sua aggiornata situazione.
Sicuramente la sua interiorità è bistrattata da processi che il suo cervello percepisce come meccanicismi larvati. In teoria ogni essere umano è libero, bellamente responsabile, sovrano artefice delle proprie azioni, e tale resta anche nella fitta interazione con tutte le concittadine e tutti i concittadini, tuttavia nella natura olistica di questi interscambi l’ipersensibile signor Magno riscontra la drammatica perdita d’una parte del proprio potere individualistico.
Nella Nazione da cui è partito avvertiva di meno questa sensazione, sì presente ma in modo soft, indolore, quasi sottotraccia. Adesso, invece, nella nuova patria -buona e giusta, ma il suo cuore non la sente come calda Heimat- soffre un gap di autodeterminazione, ogni tanto in balia di condizionamenti esogeni, aggiogato da una realtà che lo depaupera di una porzione del suo timone comportamentale.
Nulla di grave, ci sta, in fondo è qui da non molto tempo, mica può dominare la scena con un protagonismo come quello del sindaco, un professionista che merita, eccome!, di occupare la sua poltrona, conoscendo a menadito ogni centimetro quadrato di questa affascinante città. Il primo cittadino, per non fare che un esempio del suo formidabile know-how di amministratore modello, si picca di conoscere dall’alfa all’omega tutto lo stradario del territorio ch’egli capitana. Il mandrake flexa altresì la sua portentosa, quasi magica facoltà di sapere quale precisa aria tiri in ogni quartiere, isolato, palazzo, perché, va da sé, in un tessuto urbano esistono mille anime, anche se sulle enciclopedie appare con un solo nome. Lorenzo, che ammira quel politico per tali competenze, quanto mai opportune nel delicato esercizio delle sue mansioni dirigenziali e apicali, ha confessato l’altro ieri a un collega, durante una pausa pranzo, che una parte del suo leggero malessere metropolitano è probabilmente dovuta al fatto che, a differenza di quel genio, è ancora troppo ignorante della realtà di questo Comune.
Vede i chiusi portoni di palazzi, tanto arcani quanto fissi nella loro immobilità strutturale, e interpreta quei massicci serramenti come frontiere tra i significati ulteriori -presenti oltre la loro materia, circolanti nelle case di cui quegli edifici constano- e la sua povera consapevolezza: egli ne sa poco e niente, e questo deficit gli brucia, inietta nel suo intelletto un maledetto senso di angosciata frustrazione. A parte questo singolare problema, Lorenzo, pur dotato della cosiddetta resilienza, e pur tendenzialmente grato agli indigeni per il modo cordiale in cui lo hanno accolto -non a braccia aperte, ma neppure chiuse o conserte-, è certo di non essere ancora uno di loro. Essi in serie A, lui in B, forte solo al cinquanta per cento, e nell’altra metà sfigato e ammalato di una beffarda e invisibile fragilità.
Questo termine può essere fuorviante, di primo acchito può far pensare a un soggetto senza un fisico bestiale, con mosci bicipiti, mollaccione, pappamolle, inerme. Lui è fragile solo nel senso che non si sente nel suo elemento da queste parti, è vagamente respinto dal cuore del clima locale, se ne sente discretamente escluso, e ne soffre, versando in uno stato d’animo così così. È chiaro che in questo suo malessere v’è un labile confine tra una seria e oggettiva motivazione della crisi e una causa soggettiva, dovuta a una sua balzana sensibilità. Il giovane si fa dei problemi in circostanze in cui altri non avrebbero nessun senso di fastidio. Però ognuno, nella sua personalità, è libero di dare importanza a ogni propria caratteristica. Lui in questa condizione sociale non si sente in perfette condizioni e, a prescindere da quanto sia effettivamente razionale tale difficoltà psicologica, è importante ch’egli la risolva, magari non limitandosi a fuggirne pavidamente, in un codardo escapismo. L’uomo deve prendere di petto questa parziale crisi, prima che scompaia l’aggettivo e resti solo, grave e allarmante, il brutto sostantivo. Non deve procrastinare il tentativo di emendarla, e ha da lambiccarsi il cervello, hic et nunc, innanzitutto per intuirne la precipua ragione.
Una mattina Lorenzo, dopo cinque ore e ventisette minuti fra le braccia di Morfeo, si sveglia quasi in preda a un singolare turbamento. Ha fatto un sogno così complicato che rispetto al suo altissimo tasso di logico buio un classico rebus è chiarissimo. Mentre, sbadigliando in modo buffo, infila i piedi nelle pantofole marroni, parzialmente in ecopelle, tenta di ricordarne la trama, ma in questo pretenzioso tentativo la sua memoria, che come il resto dell’organismo versa ancora in un parziale alloppiamento, non riesce a cavare un ragno dal buco.
A proposito di questo animale, il giovane vede uno spider appartenente ai Sicaridi: sì, ‘sto esemplare è proprio un ragno violino, e ha il potere di far passare il residuo sonno nel signor Magno, eccitante più di un cocktail a base di caffè e Red Bull. Il giovane, atterrito dalla possibilità che in quel tentacolare mostro possa esserci veleno e che esso voglia iniettarlo in lui mediante un belligerante morso, istintivamente toglie un piede dalla ciabatta, la ghermisce come un’offensiva ancora di salvezza e progetta di adoperarla per spiaccicare il nemico pigmeo. Mentre la bestia si abbarbica, assai acrobatica ma non per questo vanitosa, su una parete, il fifone padrone di casa le si avvicina lemme lemme, e quando ne è a un tiro di schioppo comincia a prendere la mira con la scarpa, all’uopo trasformata in arma bianca contro un temibile invasore. Questo, pur con le sue otto zampe e la bellezza di tre paia di occhi, non è in grado di fare assegnamento su questa notevole abbondanza di risorse, perché il suo cervello, al netto di tutto il rispetto che merita, non è all’altezza di quello dell’essere umano in procinto di aggredirlo. La sorte della preda pare segnata, sembra che sia già iniziato, pur senza la solenne sonorità di un gong, il conto alla rovescia verso la sua nichilistica soppressione, ma qualcosa s’inceppa nella volontà di potenza del predatore, che viene stranamente permeato da un inquieto senso di colpa.
Il suo progetto di fungere da boia di quell’essere abortisce proprio quando nella sua concentrazione addiviene all’acme l’idea di schiacciarlo: in lui fioriscono due scrupoli, che si moltiplicano e diventano dieci, e quando nasce l’undicesimo ormai l’uomo è nella condizione di abiurare il suo proposito criminoso. Sotto il suo pigiama batte un cuore capace di poesia, gli dispiace ammazzare quel piccolo membro degli aracnidi, anche perché gli balena velocemente un’alternativa di stampo pacifista: aprire la finestra vicina all’estraneo e spingerlo, mediante un biglietto da visita -datogli da un idraulico dopo una riparazione del gabinetto-, fuori, in una profumata libertà all’aria aperta. E così fa. Tutto o.k., l’animale è sano e salvo e lui è certo di non correre più il pericolo di esserne ammorbato per mezzo di un selvaggio e isterico ‘mozzico’.
Il beau geste regala al suo stato d’animo un ottimo umore, però v’è pure, in tale aumento di soddisfazione morale, un rovescio della medaglia: l’uomo, sentendosi quasi uno stinco di santo dopo aver ‘graziato’ con bon ton l’intruso, e provando un filo di legittimo orgoglio nell’aver dimostrato concretamente quanto sia squisito il suo cuore, esce di casa mal predisposto di fronte a eventuali scorrettezze che qualcuno possa commettere nei suoi riguardi.
Purtroppo dopo qualche ora subisce un mezzo sgarro, sotto il tetto di un panificio assai gettonato nel suo quartiere. Questo esercizio, mecca del gusto e tempio di leccornie, furoreggia in città. Spesso fuori c’è una fila -di avventori aficionados, con l’acquolina in bocca- paragonabile a quella di utenti in un affollatissimo ufficio postale. Anche per questo fulgido (e tradizionale) successo tutti coloro che lavorano nella bottega, dall’apicale dirigente all’ultimo sguattero del mercantile carro, se la tirano, credono di essere in un elitario gotha. Non è da escludere che l’affronto fatto al povero Lorenzo si radichi in questo background.
Enzo, cliente entrato solo poche volte in questo locale stracult prima di adesso, e voglioso d’ingraziarsi la benevolenza dello staff, di diventare un tizio benvoluto e simpatico, quando arriva il suo turno, e una signora dietro il bancone gli chiede che cosa desideri, pensa di mettere in pratica una captatio benevolentiae nel pregarla di dargli un consiglio, così facendola sentire importante, dimostrandole che pende dalle sue labbra. Le domanda, egli essendo un ghiotto fan della mollica, quale tipo di panini ne abbia di più. Questo interessato e utilitaristico quiz si rivela, più che uno strumento diplomatico per stringere un buon rapporto esistenziale, una via di mezzo fra un boomerang e l’improvvido errore di un apprendista stregone. Per sua sfortuna in questo panificio vendono solo panini quasi del tutto privi di midolla, e la donna, Teresa Promaga, lo informa -con un atteggiamento neutrale, né positivo né ostile- di questo dato. Lui, alquanto ingenuo, senza alcuna arrière-pensée le dice, tuffandosi inconsapevolmente in una inutile tautologia, “quindi sono vuoti pure quelli tartaruga, o ne hanno almeno un poco?”. Domanda innocente, ma tale non suona alle orecchie della fornaia, che la interpreta, reginetta di non lieve permalosità, come l’indiretta prova di una critica verso la sacertà della loro mitica bottega. E alla megera Terry scappano parole fuori luogo. “In questa città mettiamo il pollice in giù se un panino non è vuoto dentro: farcito di mollica è un aborto…”. A Lorenzo cade uno sgradevolissimo peso addosso, paragonabile a un gavettone o a una doccia scozzese. Le sorride, per quieto vivere, ma questo emigrante ha la netta sensazione che quella imbecille abbia voluto mettere un negativo accento sulla sua indole di forestiero, pesce fuor d’acqua nel milieu degli indigeni, semianalfabeta nella dimensione degli usi e costumi locali. La stronza, forse per vendicarsi di una sua richiesta che le è sembrata una stigmatizzazione dell’assenza sui loro scaffali di pane con mollica, ha commesso una gaffe in salsa di larvato razzismo, facendogli capire “tu aneli a merce che noi non abbiamo nella misura in cui non sei uno di noi, hai abitudini esotiche, sei un immigrato”.
Solo in un piccolo angolo del suo cervello -una minoranza equivalente più o meno al cinque per cento della totalità- il signor Magno non esclude, in uno slancio di ottimismo nella sua facoltà d’interpretazione, che le di lei parole non implicassero nulla di male: chissà, forse s’è verificato un quiproquò. Quando va alla cassa, paga, riceve il resto, saluta e il bastardo appollaiato dietro la trincea non gli risponde, il ragazzo pensa, uscendo dal locale con molto nervosismo nelle vene, ‘Ma quale equivoco d’Egitto! ‘Sti xenofobi hanno voluto davvero offendermi, e tutto per maledetti etti di mollica, come se avessi chiesto la luna nel pozzo’.
Da quando è approdato in questo posto ha fatto tanto per ambientarsi, per diventarne un autoctono d’adozione, e fino a poco fa, finché non è entrato nel forno a cinque stelle, credeva di aver raggiunto questo scopo. Adesso si deve ricredere, e l’affronto gli duole a maggior ragione dopo il suo bel gesto con il ragno. Lui, salvando quella creatura, ha dimostrato di essere una persona perbene, meritevole di essere trattato come un gentiluomo dalla società, che invece poco fa lo ha implicitamente insultato.
È ferito, abbisogna di un balsamo, e non ha dubbi sul luogo dove poterlo trovare. Dopo qualche ora parte per un villaggio marittimo, vicino a questa città, dove rifulge un bellissimo faro. Vi si reca per ammirare e amare il mare, che lui sente nel cuore come un simbolo di fratellanza universale. Contempla il faro, e il forno scompare nella sua memoria; guarda e riguarda il meraviglioso Nettuno, e nel suo stato d’animo albeggia un sentimento che grosso modo significa “L’Universo è Uno, al diavolo le merde razziste”.
Walter Galasso