![UN FAN PETER PAN [Bozzetto 31; Comune: ROMA] UN FAN PETER PAN [Bozzetto 31; Comune: ROMA]](https://www.romacampodeifiori.academy/wp-content/uploads/2025/04/Piazza_Farnese_-_Roma.jpg)
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DI WALTER GALASSO

Un uomo ibrido, Paolo Tedore, nato quarantasei anni fa ma di fatto tale e quale a un ventenne. E adesso? Come la mettiamo? Tu, dico a te, caro vocabolario, che ci presti generosamente milioni di parole e mai chiedi in cambio interessi, che tipo di aggettivo suggerisci per questa bizzarra anomalia? Forse dipende da chi giudica questo mister ‘anta’. A qualcuno può sembrare patetico, un baby boomer che gioca a fare il giovincello, uno che peterpaneggia per larvata megalomania, un pistola che non ha ancora capito, nonostante la sua capigliatura non più nerissima come la pece, che l’eternità è appannaggio degli dei, non dei suoi anni. Ma a una vip, una star della tivvù, Eleonora -non ne svelo il cognome nemmeno se me lo chieda in ginocchio il sindaco-, una elegante bionda che abita vicino alla sua casa, forse -la corsa di un dubbio è d’obbligo- è simpatico.
Si conoscono di vista, anche se non si sono mai salutati. Lei su, lui giù, lei non ha avuto la volontà di scendere, lui non ha mai provato a salire, anche perché è, nonostante le apparenze, un timido. Maledettissima timidezza, megera di cui Paolo non ha mai potuto dire “essa in me era, adesso ne sono guarito”.
Chissà se esiste un provvidenziale antidoto ai suoi danni. Per esempio un prodotto miracoloso, un confetto che tu, imbranato, ingurgiti dopo averlo triturato sotto la chiostra dei denti e diventi, op là, improvvisamente uno scafato fico, un volpone che la sa lunga, un asso di souplesse, un disinvolto casanova. Oppure, più semplicemente, uno capace di avvicinarsi alla bella Eleonora, attaccare bottone -in modo elegante, il più signorile e raffinato del mondo- e dirle “lei, divinità di venustà, è la mia donna ideale, e in questo momento sento un soave concerto di violini qui, nel sublime ombelico di Piazza Farnese”.
Eleonora ora c’è, la sua signorile figura s’è materializzata poco fa nella splendida square, il signor Tedore pure, ma nemmeno in lontananza si sente lo strumento di Paganini. Dei suoni, a dire il vero, provengono da est. Escono da un appartamento al primo piano di un palazzo eretto quando Giuseppe Garibaldi era ancora un teen-ager pregloria, ma alle orecchie dell’uomo arrivano come gli acustici segni d’una dorata tortura. Arbitrariamente, mentre il suo udito lavora e incamera quelle note, il suo cervello, quasi involontariamente, pensa che emanino dallo scocciato studio di un signorino dei ceti bene. Un guaglione che, se dipendesse da lui, starebbe a spiare l’allenamento della sua squadra del cuore -una delle due della Capitale, e sprofonda in un omissis il preciso nome del club-, e invece, siccome indossa il suo cognome, deve, noblesse oblige, imparare a suonare il piano, previo solfeggio e con il tic tac del metronomo, e zero cazzeggio.
Paolo rasenta un’antichissima edicola, essa ha servito pure lo zio di Gutenberg, tanta gloria nel blasone e nel curriculum, ma adesso… I colossi d’una ditta di trasporti hanno portato il novanta per cento dei profumati giornali di carta in un solenne museo, e il dieci è in passiva compagnia di souvenir e bibelot e chicche inutilissime, esche per turisti che scuciono soldi come dai rubinetti, quando li apri, esce acqua potabile. Le pupille di Paolo s’accorgono della venere del jet-set. La terra inizia a ondeggiare, gli sembra che la meravigliosa Ambasciata si sdoppi in una diplopia binoculare, o in un prodigio di un mago che, apprendista stregone, la moltiplica per due e poi le prende da un incazzatissimo Ambasciatore.
Lei incede, con fine ritmo, onora il suolo facendolo diventare il sud dei suoi piedi principeschi; l’ammiratore procede in direzione inversa. Seduti intorno a un tavolino di un prestigioso locale tre pezzi grossi, uno magrissimo, un altro sbracato, il terzo vestito in chicchere e piattini -solo la cravatta vale sei volte il vestito più costoso nel guardaroba di Paolo, mentre le shoes, fatte su misura da un artigiano artista, luccicano così tanto che si consiglia l’uso di Ray-Ban da Sole a chi le invidi en passant-. Questo dandy le parla, con un’aria vagamente antisocialista, alquanto vagheggino, anche se dissimula, nell’interloquire con la femme fatale, ogni possibile motore erotico dietro l’orale iniziativa. Coraggio da vendere, spavalderia tre punto zero, ma il contenuto dell’incipit è terra terra, pur riguardando formalmente il cielo. “Ciao Eleonora, hai visto che brutto tempo?”. La regina -Ele, non Camilla- è magnanima, risponde “Eh sì, e domani e dopodomani sarà pure peggio”.
Questo non memorabile abboccamento avviene in uno spazio che a Paolo sembra un sancta sanctorum en plein air, off limits per i comuni imbranati. Interpreta quel tizio -che evidentemente conosce bene la soubrette- come uno stronzo a zonzo nella banalità. Un potente verme, un raccomandato docente di mediocrità, un fortunato cretinetti che dà del tu a una fata importante e sciupa l’onore di poterle parlare dicendo loffie amenità. Meno male, Paolo ne è certo, che lei non se lo è filato proprio. Gli ha risposto come un robot in gonnella, per fare beneficenza diplomatica e non ignorare quella mezzasega con un silenzio troppo algido, però sotto sotto lo ha snobbato. Paolino, invece, che ha letto tante poesie d’amore e potrebbe parlarle con lirica galanteria, ha i denti -un buon eloquio- ma non il pane -l’inerenza allo stesso ceto, la conoscenza confidenziale e la faccia tosta dell’oratore non complessato-.
In un angolo c’è una collega della signora Mira, che nella romana Piazza Sant’Eurosia sfama battaglioni di piccioni: la filantropa spara alimenti verso l’appetito dei pacifici animali e il signor Tedore, in mezzo a qualche scherzo della sua psiche, si sente alquanto simile a quei piccoli indigenti: ha bisogno d’aiuto per coronare il sogno di conoscerLa. Qui ed ora può solo contemplarla discretamente, facendo finta di non averla riconosciuta, per non correre il rischio di farla sentire più importante di quanto in effetti sia -ogni volta che la vede cerca di farle capire che ne ignora la professione-. Rispetto all’ultima volta in cui l’ha percepita gli sembra meno alta: dunque allora era vatussa grazie a protesi di scarpe plateau con tacco 15. Altra differenza: la vede un po’ sciupata. Sì, ha una cera inquieta, borse Louis Vuitton sotto gli splendidi e imperiali occhi. E poi una parte di lei è soprappensiero; qualche tarlo, tempestato di diamanti, molesta i suoi pensieri nella fiabesca privacy della testa, sotto i suoi lunghi capelli d’oro, che oscillano per le invisibili sberle di un vento crescente.
Che voglia di dirle “Amore mio, ti vedo stanca, vieni qui, tesoro, che ti faccio tante coccole finché stanotte, se i crucci ti causano insonnia, ti leggo, come ninna nanna, dei brani di Freud che ti possano tirare su”. Lui ne è lontano, lontano lontano, lontanissimo, anche se la geografia in questo momento è dalla sua parte. Però…
Eleonora lo guarda per più di mezzo istante, per l’esattezza due secondi: un’eternità, gravida di potenziale eros in suoi sogni maschili, mariti di allucinazioni. Siderali illusioni che, frutti d’una fragilità che non si arrende, strapazzano con dolcezza questo invaghito e immaturo ammiratore, un fan Peter Pan.
Walter Galasso