MEDI RIMEDI, E IL BARISTA, PUR NON ÜBERMENSCH, SI CREDE SUPERIORE A UN CLOCHARD [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo 2]

DI WALTER GALASSO

Sono trascorsi alcuni mesi dall’incontro ravvicinato con il bellissimo esemplare di Gabbiano Reale, pennuto S.M.I.R. -nell’incoronazione lo battezziamo ‘Gabbia I’-, Sua maestà imperiale e reale della seconda enclave in Roma: il suo territorio, lo spazio di cui l’uccello alfa quel giorno sembrava il signore e padrone. Uno ‘staterello’ molto più piccolo della Repubblica di Nauru, ma lui ne era fiero, con la sua iattanza, a un tempo simpatica e sinistra.
Sul suo becco giallo innanzitutto una macchia rossa, nella sua parte inferiore, una meraviglia della Natura, suggestivo ‘stimolo-chiave’, come in etologia ci ha insegnato il Premio Nobel Nikolaas Tinbergen, attento scopritore, dopo ore e ore di paziente osservazione, della quintessenza di quel colore. Un pulcino, carinissimo, vede questo cromatico segnale e, tap-tap, picchietta sul segno red, ‘ho fame!, è pronto?’: l’adulto spalanca il becco, rigurgita il menu e il pranzo è servito. Uno degli infiniti esempi della sublime armonia che immane all’universo. Il gigantesco bisogno del piccolissimo cucciolo, che nella sua sguarnita fragilità invoca protezione e supplica cibo, incontra teneramente un soccorso anche grazie a una soluzione inclusa nell’istinto come un dono. E l’Essere vince il nulla, tiene il pullo nel suo positivo grembo, nell’illuminata energia della Vita; neutralizza i pericoli insiti nel bruto caso, aiutando i genitori ad aiutare, nell’amore, la diletta prole. Impossibile non commuoversi.
Vicino a questa ‘poesia’ un altro rosso, diversissimo: sangue, probabilmente d’un piccione sbranato dal predatore. Quell’animale, splendido e violento, poteva incarnare, a suo modo, ‘la feroce bellezza del mondo’, parte della canzone ‘Io sono un uomo libero’, di Ivano Fossati.
Ern, in quella fase di preoccupazione per il mancato decollo del suo locale, ne è rimasto colpito, in bene e in male, mentre adesso, poco prima di rientrare nel suo palazzo, vede un suo simile, vicino a un cassonetto, e nemmeno ci fa caso. Se tanto dà tanto, questo blando spirito d’osservazione è una spia del fatto che qualcosa è cambiato nel tran tran dei suoi affari.
Apre il portone e inizia a salire le scale, vedendo, da sud a nord, sul pianerottolo del primo piano la signora Mafalda, che, dall’inferiore punto di vista del barista, pare più carismatica di quanto in effetti sia, esattamente come in tivvù un protagonista, soprattutto se sia di statura lillipuziana, viene inquadrato dal basso, così sembra più alto ai telespettatori. La lady, che l’ha sempre incluso fra i peones del parlamento chiamato ‘condominio’, lo squadra da capo a piedi. Fra i due, pur non essendoci mai stata una vera e propria ruggine, non è mai sbocciato un feeling. Tanto tempo fa, in una riunione sotto la direzione d’orchestra dell’amministratore, litigarono, volarono parole grosse, l’uomo ha poi fumato il calumet della pace, lei no, anche se talvolta gli regala, come elemosina del suo rispetto, un sorriso con le faccette Veneers in ceramica, quasi perfette, realizzate con affetto dal nipote odontoiatra. Non si vedono dal giorno precedente a quello dell’incontro con ‘Gabbia I’. Allora, lui male in arnese, con la barba di tre giorni e una cera quasi brutta, la vicina provò una sottile soddisfazione nel percepirlo in quel modo, e come al solito lo snobbò, reputandolo un mezzo fallito. Ella, infatti, pur potendo apparire, nella sua magistrale e conformistica ipocrisia, una donna di vita integerrima, è affetta da una perversa caratteristica: gode nel vedere qualcuno che, essendole antipatico, stia peggio di lei, in una soddisfazione direttamente proporzionale all’indice di sfiga altrui. Oggi invece l’imprenditore, ben vestito, sbarbato, di buonumore, le dà un po’ fastidio. Uggia che s’inasprisce quando, i due incrociandosi, “Buongiorno, signora”, “Buongiorno [con la ‘u’ strettissima]”, le narici della megera fiutano una scia d’intenso profumo. Mai accaduto prima. Uhm, ella inizia a sospettare che ‘sto pistola se la passi meglio. Abbandona la cosiddetta ‘Schadenfreude’. Il parolone non inganni, significa un concetto semplicissimo: gufare affinché un altro sia sfortunato, tifare per una sua waterloo e rallegrarsi se la sconfitta davvero accada. Quella di Mafalda è parziale, non assoluta e universale. La sua psiche gode solo della iella di chi non le vada a fagiolo. Un esempio a caso: Ernesto. Adesso nel cuore della tipa prevale un embrione d’invidia, un’altra tipologia di ‘bastardata’, migliore solo nel senso che include un pizzico di considerazione verso i risultati che il personaggio sta ottenendo a livello professionale.
La sua cattiveria non si sbaglia. Qualcosa è cambiato, in positivo, nell’attività del vicino. Lo dimostrano, in questa giornata qualunque, la sua indifferenza a dettagli ambientali come il gabbiano dianzi percepito, totalmente ignorato dai suoi occhi, e il suo aspetto più curato. Talvolta, parafrasando Agatha Christie, un indizio equivale a se stesso, ‘3 indizi = 1 prova’, ma due, invece che coincidenza, fanno la metà di una prova, così come ‘2 coincidenze = 1 indizio-prova’, se si parta dal simile presupposto ‘One coincidence is just a coincidence, two coincidences are a clue, three coincidences are a proof’.
Ebbene sì, l’imprenditore, nel suo mestiere, ha compiuto in questi mesi un salto di qualità. Nulla di ‘trascendentale’, però. Diciamo che il bar va benino, non rischia di chiudere i battenti, il business è così così. Un pareggio, i tifosi d’una squadra di calcio lo sanno, talvolta è tanta roba rispetto a una sconfitta. Ha raccolto questo frutto riuscendo, una volta tanto, a porre in essere l’obiettivo che s’era prefisso quel giorno, cioè migliorare, senza le spese d’una pubblicità che non gli ha cambiato la vita, la sostanza del suo regno.
Atto primo della riscossa: ha quasi resettato l’arredamento, sostituendo molti mobili e destinando a una discarica quelli di prima. Sembrerà strano, ma non è stato facile assoldare manodopera disposta allo sgombero. Ha trovato un sacco di annunci nei paraggi della sua abitazione -risiede in un trivani ubicato a molta distanza dal suo esercizio, in una periferia dove gli appartamenti hanno una quotazione non altissima-. Messaggi disseminati in posti vari: su solenni pali della luce -forse portati lì da qualche TIR in un trasporto speciale-, su cassonetti dell’immondizia -talvolta stracolmi di porcherie, fino a tracimare come un fiume di rifiuti in piena-, su balaustre di giardini pubblici, sotto il numero civico di un palazzo -che hanno scritto a fare: ‘vietata qualsiasi affissione’?-, sul tubo che sorregge i comandi colorati di un semaforo, su una sorta di dazebao commerciale del rione, e pure sulla solitaria carrozzeria di un’automobile, regolarmente posteggiata, da tempo immemorabile, sulla carreggiata d’una strada, in un parcheggio a lisca di pesce su strisce bianche.
Non è dato di sapere il perché dell’abbandono, anche se fioriscono illazioni di diverso genere. Per esempio l’ipotesi che il proprietario, atteso il caro carburante, l’abbia sostituita con l’uso di un più economico palafreno -settantaquattro cavalli in meno della car (75 CV): uno ma buono!-. Oppure un’umoristica leggenda metropolitana: un giorno lo stesso personaggio, dopo tanti giri, ha finalmente occupato un posto libero proprio sotto la sua casa; la moglie -Cesira, un’ugola d’oro, se fosse stata nel giro giusto avrebbe vinto almeno un’edizione del ‘Festival degli sconosciuti’, in quel di Ariccia’-, affacciandosi al balcone, ha cantato “♪ l’hai trovato!, l’hai trovato!’ ♪, tienatillo caro caro! ♪”, e lui ha eseguito l’ordine alla lettera. Vis comica anche nel tentativo di stabilire con esattezza da quando la berlina stia lì. In un gruppo Facebook un brontolone, giurando sui 10 decimi di vista nei suoi occhi di lince, e pure sulla sua memoria mirandolesca, ha sentenziato: da un decennio. Fra i tanti commenti al post due dissensi. Un utente ha sospirato: “Magari! Quel coso occupa suolo pubblico da 19 anni, l’usurpazione è ormai maggiorenne”. Per una ‘Cittadina Indignata’, invece, l’auto fu citata anche nei ‘Commentarii de bello Gallico’, di Giulio Cesare. Rispetto a questa presa in giro è stato quasi uno stinco di santo l’anonimo che, constatato lo strato di polvere sui finestrini e su tutta la vettura, ha colto l’occasione per scrivere, usando come penna un dito, l’imperativo ‘Lavami’ sul lunotto e disegnare sul cofano un cuore attraversato da una freccia di Cupido, dipingendo, dentro il perimetro di questo heart proletario, i nomi dei due innamorati: evviva la creatività!, l’estro di chi, non avendo altro da fare, attende a istoriare veicoli non più marcianti.
‘Sto mistero a quattro ruote è diventato, in questo spicchio di città, un pomo della discordia. Nella politica del Comitato di Quartiere, infatti, si è configurata una frattura, faglia piena di accuse, fra due scuole di pensiero: i detrattori -la maggioranza-, che invocano, con tolleranza zero, la sua rimozione, perché se un oggetto non si usa non ha senso, e gli avvocati difensori -una minoranza, vagamente sognatrice-, cittadine e cittadini sensibili e dolci, favorevoli a lasciare lì l’innocua creatura, tra l’altro nemmeno squallida esteticamente, anzi piuttosto caruccia nel suo design bellamente vintage. Queste clementi persone, tenendo conto che il mezzo tutto sommato è in buone condizioni, siccome esso è lì da molto tempo, lo reputano ormai parte integrante del paesaggio urbano; una presenza fissa, a cui molti sguardi, dagli oggi e dagli domani, si sono affezionati; un’icona di tetragona immutabilità in mezzo al caleidoscopico divenire della metropoli. Qualcuno, addirittura, lo equipara a una cosa che, con la sagace ‘arringa defensionale’ di una testa d’uovo, capace pure d’una miracolosa mozione degli affetti, può aspirare a diventare una sorta di ready-made: la macchina estrapolata dal suo contesto funzionale -roarr, brum brum, emissioni di monossido di carbonio a 2,20 g/Km [la classe ambientale del catorcio è ‘Euro 2’]-, depauperata della sua valenza utilitaristica ed elevata al grado di opera d’arte. Un possibile titolo: ‘Questa non è un aristotelico motore immobile’. Un po’ lungo, ma ci sta, anche perché vale sempre la pena di evidenziare ‘Il tradimento delle immagini’. Infine, last but not least, l’ingombrante oggetto smarrito può essere valorizzato come un simbolo della zona. E infatti il veicolo è stato presentato proprio così da due mass media, un’emittente privata e un giornale, in servizi in cui si sono spese belle parole per quel prodotto Citroen, interpretato in un’ottica di cultura postmoderna. Una vexata quaestio? Un’irriducibile querelle, buon senso borghese versus Arte Alternativa? Forse. È invece certo che qualche addetto a traslochi ‘mignon’ ha pensato bene di utilizzare anche questa sorta di atomo d’una casa editrice per inviare alla cittadinanza i dati attinenti al suo avventizio lavoro in nero.
Ernesto ha letto biglietti in questi e in tanti altri punti, talvolta dove davvero non ti aspetti che un marcantonio comunichi che è disposto -a prezzi modici- a svuotare una caverna piena di cianfrusaglie. Per poco nel barista non si è verificato l’inizio di giri di testa: l’abbondanza di offerta, talvolta, complica le cose! La sua mente è arrivata, nel caos di una scelta così ricca, a partorire un autentico delirio. Forse è preferibile, paradossalmente, che in tutta la megalopoli solo uno sappia espletare una mansione e il cittadino sa che per forza a lui deve rivolgersi: tu, che rientrando a casa hai constatato che il bagno è diventato una sorta di piscina per la torrentizia perdita di un rubinetto, sai che da Roma Nord a Roma Sud lavora un solo idraulico e non stai a chiederti chi sia meglio fra duecentomila tubisti.
Dopo questa grande cazzata, è rinsavito e si è detto: ma che stai a dire?! Il monopolio, in qualsiasi settore, è una iattura, distrugge il risparmio e soprattutto l’equità, impone a un inerme utente l’umiliazione di un contratto capestro, crea i mostri di un’egemonia autoritaria, impedisce di poter dire a un idraulico che ti ha chiesto sette milioni di euro per sostituire una guarnizione: ‘Vaffa….., bastardo, io mi rivolgo a quel tuo collega che si è limitato, in regime di baratto, a pretendere in cambio di questa prestazione un caciocavallo stagionato in grotta di tufo’. Insomma, l’uomo ha capito che era fortunato in mezzo a tutti quei fogli, stampati da computer privati o forse da qualche tipografia, costretta a questi lavoretti dopo che si è resa conto che ‘il momento è delicato’. È terribile ogni esclusiva ‘O così o Pomì’, per dirla con un azzeccato slogan pubblicitario, in onda molti anni fa, di Pino Pilla -copywriter che ha ricevuto l’Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano-. Rispetto a un’assenza di alternative è mille volte meglio una caotica concorrenza, democrazia che regala un civile imbarazzo della scelta, anche se una tale abbondanza faccia insorgere un’emicrania in un tipo indeciso come Ern.
Un frenetico giro di telefonate e finalmente l’uomo ha trovato la persona giusta. Il tizio con cui ha parlato gli ha detto e ripetuto ‘non c’è problema’ come se fosse un intercalare. Il cliente ha avuto la sensazione che il suo interlocutore avrebbe recitato quel leitmotiv anche se lui gli avesse domandato ‘Sa, per abbellire il mio locale l’anno scorso ho deciso di mettere, fra i suoi effetti speciali, una montagna, solo che adesso il Governo ha deciso di tassare con un fisco sanguisuga qualsiasi bar dove compaia un monte, e allora me ne devo disfare. Il suo camioncino può trasportare questo collega del K2?’. Cesare, il capo di un team di facchini, lo avrebbe rassicurato con ‘Nun c’è problema’ pure in questo caso, evidentemente disponendo di un magico bisonte della strada. Figurati che succede quando, durante un viaggio in autostrada, il camion si ferma in un autogrill perché Cesare deve lavarsi le ascelle nella toilette e mangiare 21 panini presso una tavola calda! Tutti intorno al suo autocarro, per contemplare quella roccia alta 3200 metri, con un apicale giogo visibile finanche da un’altra regione. E quando il camionista esce dal punto di ristoro, tutti ad applaudire, ‘Ce-sa-re!, Ce-sa-re!’, ad ammirarlo per il fegato di portare seco quel colosso sul rimorchio.
Vabbè, si è capito che in cuor suo Ernesto ha pensato che questo tipo sia un po’ millantatore con il suo sentirsi -nella vicenda di traslochi in cui auspica di essere impegnato- al riparo da qualsivoglia impasse. Però, siccome il barista non doveva disfarsi di una montagna, ma solo di un insieme di masserizie, allora Cesare, anche se le spara grosse, nel complesso gli è sembrato affidabile, e soprattutto onesto. Il suo onorario, infatti, è risultato uno dei meno esosi sulla piazza, e allora l’affare si è fatto.
Questi trasportatori, a cui l’uomo deluso dai figli e nipoti di ‘Carosello’ ha affidato l’incarico di sfrondare il suo impero di suppellettili inadeguate, gli hanno confidato, en passant, che non avrebbero riciclato quegli oggetti, essi risultando così brutti da meritare l’umiliazione di essere buttati. Gli hanno detto la verità? Oppure, dopo averli caricati con modi spicci sul furgone, a un certo punto del viaggio Cesare ha virato verso casa sua e li ha trasferiti con riguardo nel suo salotto? Ernesto non ha minimamente elaborato questa seconda ipotesi, gli ha creduto senza riserve. Il suo narcisismo non tollera che qualcuno lo inganni, e se avesse anche lontanamente sospettato un doppio gioco da parte degli operai, come minimo si sarebbe adirato in modo mavorzio. Ah, è buono e caro, ma se qualcuno lo prende per i fondelli, per esempio dicendo bugie, diventa un duro. Questa la regola. Forse, però, vista la robustezza di quei tre -parevano Ercole Maciste e Sansone, soci in una cooperativa-, avrebbe preferito una prudente eccezione.

Atto secondo: ha cercato di offrire alla clientela una vasta gamma di servizi. Ricariche telefoniche, ottima ristorazione a ora di pranzo, macchine per giocare a videopoker, schermi televisivi sintonizzati su importanti partite di calcio trasmesse da un canale di ‘…Premium’ -un variegato bouquet mediatico-, rete visibile solo a condizione di aver acquistato preventivamente un salato abbonamento alla piattaforma televisiva. E poi ha assoldato un professionista che, in qualità di Iscritto alla Fondazione Italiana Sommelier (in regola con la quota annuale), s’è specializzato in Mixology, frequentando, con eccellenti risultati, un corso guidato da un maestro del settore. L’Allievo, dopo un tour de force di insegnamenti seri e scientifici -proibito ogni cellulare nelle Sale di Degustazione, e assoluto divieto di frequentare le lezioni con troppe gocce di eau de toilette addosso, ché un’overdose di profumo può disturbare l’analisi sensoriale-, ha conseguito il Diploma e il Distintivo di Fondazione Italiana Sommelier. Il titolare ha affidato a questo brillante e qualificato giovane l’incarico di preparare cocktail gustosi e stravaganti, esteticamente peregrini e vagamente imparentati con un estro di tipo artistico. Tutto fa brodo, ha pensato quando ha impreziosito il suo locale con questa chicca. Ha pure pregato il dipendente di portare nella sua caffetteria la pergamena del Diploma, per metterla in bella mostra e far vedere di che pasta sono fatti i suoi collaboratori.
Che fatica stare al passo con i tempi! Solo un masochista può cullarsi sugli allori, vedere il proprio esercizio scivolare in una crisi economica e non muovere un dito per invertire la rotta, quasi godendo dell’insuccesso. Se uno non è svitato, nel momento in cui si accorge che qualcosa va storto deve provvedere tempestivamente a emendare il problema. La pubblicità non funziona? La clientela dimagrisce e si assottiglia come quando, in un cinema, un film non piace e molti si alzano e se ne vanno? E allora tu, proprietario, cosa aspetti a tamponare il fuggi fuggi? Fatti venire qualche idea, rimboccati le maniche e aguzza l’ingegno, eccelli sia in lucidità teoretica che in impegno morale, e combatti con pugnace gagliardia affinché il teatro dei tuoi sogni non venga aggredito dalla vittoria dei suoi rivali. Il vicino di Mafalda ce l’ha messa tutta per riscattarsi, per prendersi la rivincita, per vendicarsi dei competitors che, grazie anche alla protezione della dea bendata, all’inizio gli avevano soffiato tanti clienti. Lui, faticando in un culto stacanovista del lavoro, sfoderando abilità poliedriche, turandosi le orecchie quando qualche amico gli suggeriva di abbassare definitivamente la saracinesca per diventare dipendente di qualche altro esercente, si è tolto le sue soddisfazioni e i conti in rosso sono finalmente diventati neutri, in attesa che, come camaleonti, mutino ancora, la buona sorte tingendoli di rosa.
Certo, non ha potuto fare miracoli, la situazione non è assurta alla gloria, e quest’uomo non è diventato un miliardario, uno di quelli che arrivano a Capri con un panfilo lungo novanta metri e zeppo di lusso. Ci sono alcuni che, partendo dal basso, sono diventati i boss di imperi finanziari. Sono fiorite leggende su certi superuomini che, iniziando umilmente come camerieri oppure operai, poi, pian pianino, hanno scalato le vette di un determinato settore economico, e adesso celebri riviste, internazionali e alla moda, gli dedicano una copertina, osannandoli come icone di un fulgido boom economico. Alcune corazzate della finanza mondiale pare che abbiano preso le mosse da un primo passo modesto, che non lasciava presagire il successivo capolavoro.
Beati loro, pensano gli indigenti. Ci sono, eccome, questi Übermenschen, ma il barista non gli somiglia: lui è un uomo come tanti, uno incapace di mirabilia e res gesta. Però, nel suo piccolo, pur non essendo addivenuto a chissà quale conto in banca, è riuscito a rimanere a galla nell’oceano del commercio, a non chiudere i battenti e anzi a consolidare la propria posizione. Capo di un bar dentro la Capitale d’Italia: mica male, in fondo. Il suo ego è soddisfatto, soprattutto quando pensa a un barbone che dorma sotto i ponti. L’imprenditore, rispetto a un clochard, si crede un cittadino vincente e un soggetto superiore, anche se quell’uomo sia Giovanni, un galantuomo senza fissa dimora, un cittadino che, amando la Letteratura più di lui, nei paraggi della Galleria Spada, a Roma, spesso è beatamente immerso nella lettura di qualche libro, ammirando, e mai invidiando, la bravura dell’autore.

Walter Galasso