UN TORNEO AMATORIALE DI SCACCHI DAVANTI A UN CLUB E UN FLASHBACK  [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo 6]

DI WALTER GALASSO

Parli di gare e spunta un torneo. Il pedone, infatti, nel proseguimento della maratona soft -diretto alla fermata del torpedone, ché ormai ha deciso che in tabaccheria andrà un’altra volta-, transita nei paraggi di un circolo culturale e nota che davanti al suo ingresso hanno posizionato una sfilza di tavolini, come succede in quei ristoranti dove una babelica comitiva di commensali, insieme per celebrare qualche compleanno o altra ricorrenza, monopolizza un intero angolo del locale. Qui, però, non si mangia: persone concentratissime gareggiano in un severo campionato di scacchi, amatoriale e ieratico a un tempo. Sono in corso molte partite, e ogni postazione, ogni banchetto offre agli spettatori uno spettacolo degno di nota: genio versus genio, i due contendenti studiano le mosse con meditazione profonda, forse capace di far perdere un paio di etti dopo un’ora di match. All’imprenditore hanno infatti detto che l’attività intellettuale è pesante non meno di quella fisica, e un soggetto di speculazione teoretica può, dopo un ragionamento sofisticato, essere più magro, o comunque meno grosso, rispetto a quando ha iniziato a concatenare quei concetti. Adesso, dunque, il barista sta pensando che gli scacchisti, così intenti a spremersi le meningi per fregare l’avversario, stiano davvero consumando molte calorie.
Caspita, che uomini seri! In un pomeriggio domenicale sono pensatori agonistici, intellettuali alle prese con torri e cavalli e alfieri, mentre concittadini meno virtuosi chissà in quale angolo di metropoli stanno oziando, neghittosi e intrisi di accidia. Uno di questi aspiranti campioni somiglia moltissimo a un elettrauto a cui Ern si rivolge spesso per ricaricare la batteria della sua auto, che periodicamente dà forfait e lascia la vettura in panne. Il passante lo guarda una volta, poi un’altra, e questo spionaggio prosegue per qualche minuto: uhm, è proprio identico a Pasquale -il mago delle Bosch-, non può essere una mera coincidenza, probabilmente è un suo parente, forse proprio suo fratello.
Mentre lo spettatore del campionato di chess imbastisce nel suo intelletto queste congetture sulla presunta fratellanza, la sua vista capta, con la coda dell’occhio, un addetto alle pulizie di quel club. Sta riposando sotto un albero e guarda vagamente nel vuoto, come se stia inanellando pensieri a cui il suo animo tenga molto. C’è dignità in quell’umile persona che fa mente locale su qualcuno o qualcosa, alligna nelle sue apparenze un senso di aspirazione a migliorarsi: i calli sulle sue mani, dovute a un lavoro con scope e palette, con buste della spazzatura e guanti da indossare per evitare il contatto con porcherie e virus, sembrano una schiavitù da cui le sue attuali riflessioni vogliono liberarsi per sempre. Difficile stabilire se stia faticando di più la psiche degli scacchisti -sicuramente facenti parte del gotha di quel circolo- o l’animo dell’operaio, forse l’ultima ruota del carro dell’associazione culturale, ma non per questo sprovvisto di ambizione poetica. Ah, se gli facessero disputare una partita! Sarebbe un bel gesto di autentica democrazia, un illuministico slancio di solidarietà e rispetto, un abbattimento di diaframmi antipatici fra diverse classi sociali.
Il viandante, qui per pura casualità, vede da un lato i giocatori, chic, fighi, intenti, nella loro gestione dei pezzi, ad alzare i merli di una torre -in una stretta fra indice e pollice di una mano- come se questo gesto, simile a una gru che sollevi tonnellate, esprima non solo una tattica ludica, ma anche un inebriante potere politico. Loro sono quelli che, per divertirsi, invece di fare bisboccia e baldoria, di ridere e scherzare, di dire fregnacce e fare una gara di rutti, si mettono -nientepopodimeno- a duellare nel noto e prestigioso rompicapo chiamato ‘scacchi’. Agli antipodi di questo establishment del ritrovo ‘Koinè’ -l’altisonante nome del Circolo-, distante, assai lontano dal silente eppur intenso lavorio dei loro cervelli, vi è il netturbino del gruppo, quello che deve spolverare quei tavoli dopo che loro hanno finito di inseguire la cattura del re avversario, quello che deve raccogliere da terra la cenere caduta dalla sigaretta dei players incapaci, mentre meditano sulla strategia da adottare nella singolar tenzone, di prescindere dal vizio della nicotina, dall’influenza del tabacco. E gli anni luce interposti fra questi due mondi così diversi, il décalage fra queste due polarità, vengono a un certo punto divorati dallo sguardo del modesto collaboratore, maggiordomo ma non domo, ilota che, con quello sguardo orientato verso un non so che di lusinghiero, vuole testimoniare tutta la propria voglia di elevarsi, di migliorare nel caotico dedalo di classi di cui consta la società.
E, come se non bastasse, a Ernesto non sfugge un comune denominatore fra tutte queste persone. Sia alcuni scacchisti che l’operatore ecologico si stanno mostrando relativamente attenti a una spettacolare motocicletta. Tre giocatori, infatti, nel pensare a come ingannare i rispettivi competitor, si sono messi una mano sulla fronte e, nel tempo loro consentito per mulinare una soluzione, hanno cominciato a fissare quel bolide, che impreziosisce l’aia prospiciente l’entrata del ‘Koinè’. Lo sguardo del loro subalterno, dal suo canto, è sì perso nel vuoto, ma non al cento per cento: se lo si osserva attentamente, infatti, si nota che le sue pupille si stanno accorgendo di quella ‘Honda’, potente, grande, aggressiva, policroma, degna di gareggiare -guidata da uno spericolato pilota- in un’ufficiale corsa sportiva. Un abbiente centauro l’ha parcheggiata proprio lì, e adesso il veicolo attira l’attenzione, l’energetico fulgore dei suoi cavalli da un lato seduce l’operaio, dall’altro entra in alcuni pensieri degli scacchisti, e dunque si affianca a cavalli intesi come pezzi del gioco.
Chissà alla fine di questo girone eliminatorio quali saranno i vincitori, abilitati a proseguire, con agonismo laborioso, nelle successive fasi del campionato, finché qualcuno, con uno scacco matto strabiliante, potrà laurearsi campione assoluto. Ernesto si pone questa domanda quasi di sfuggita, mentre si allontana da quell’allineamento outdoor di mobili. Mi raccomando, aguzzate l’ingegno, non vi fate abbacinare dalla volpina astuzia dell’antagonista, che magari si pone apposta nella condizione di farsi mangiare un pezzo, perché in prospettiva quella perdita è, secondo i suoi calcoli, foriera di un guadagno avvenire e nel complesso vantaggioso: il barista si mette pure, nel suo pensiero involontario, a dare consigli a questi cervelloni.
Mentre cammina ripensa, in un flashback senza regia, a quando, in un giorno di molti anni fa, si recò nella sede di una federazione provinciale di questo sport. Sì, ai tempi in cui Berta filava si cimentò in questa disciplina. Fu un suo amico a iniziarlo alla passione per questo fratello maggiore della dama, precisando che rispetto a quest’ultima, gioco tutto sommato semplice e poco intelligente, gli scacchi hanno una complessità da fare paura. “Ernè -gli disse un giorno-, questo gioco è antichissimo, ma il suo fascino non è d’antan: non è che noi dobbiamo averne nostalgia, perché a tutt’oggi in tutto il mondo è praticato, e gli assi, i campionissimi, quelli che finiscono sulle prime pagine dei giornali, sono considerati dei personaggi, dei vip. Pensa, alcuni di loro, quelli proprio in alto, i maestri del settore, si divertono spesso a disputare molte partite contemporaneamente, e li vedi davanti a dieci scacchiere, intenti a sconfiggere tanti rivali nel giro di qualche ora”.
‘Se lo dice lui…’, pensò il gregario, che nutriva verso quel compagno di classe un rispetto speciale. Paolo, infatti, figlio di un docente universitario, era un vincente, un leader, un capintesta di tutta la loro comitiva. Aveva successo, talvolta anche senza volerlo, e si faceva a gara per diventarne un amico. Era un’autentica mission di tanti il progetto di farsi vedere insieme a lui in un pub, essere un suo ‘socio di minoranza’ in qualche iniziativa, elevarsi al rango di ‘persona simpatica a Paolo’, magari degna di parlare con lui in qualche angolo della scuola, o addirittura durante un’assemblea di Istituto, davanti a un sacco di liceali. Altro che collaborare con il sindaco nelle vesti di esperto del pianeta giovanile! Per uno studente di quel plesso il top del prestigio era l’inclusione nella cerchia del Leader Paul, autentico re di tutti loro, anche se con forfora al posto di una corona.
Qualcuno, qualche teen-ager orgoglioso, cercava di esorbitare dalla sua magnetica influenza, e quindi lo invidiava, ne malediva il facile e fortunato successo, ne disconosceva la presunta bravura, lo sbertucciava alle sue spalle, calunniandolo, dicendo per esempio che parte della sua egemonia si radicava nell’importanza della sua famiglia. Lo etichettavano, insomma, come un volgare raccomandato, bollavano come sceme le ragazze che gli correvano dietro, ma questi detrattori erano una sparuta minoranza, si contavano sulle dita di una mano. Si trattava di pochi ragazzi, generalmente additati come lupi solitari un po’ sfigati, ‘rosiconi’ e indegni di appartenere ai giri che contano. I più erano sudditi di sua maestà, non avevano la pretesa di fargli una fronda, di macchinare una sedizione contro quel boss, ed Ernesto rientrava nel novero di questi supini aficionados.
Paolo dixit come e più di Ipse: ogni sua dichiarazione assurgeva, nelle orecchie del futuro barista, a una massima da memorizzare come i versi di un grande poeta, quando a uno studente un professore chiede di impararli a menadito. Il ‘Magister’ era infallibile, la sua mentalità eccedeva il confine del soggettivismo per diventare sorella di verità. I suoi rimproveri erano più dolorosi di un arresto da parte di una pattuglia della polizia, un suo eventuale dissenso rispetto a una tesi esposta da Ernesto costituiva, per quest’ultimo, una molla di cocente frustrazione, perché se quel superman gli diceva che aveva detto una cazzata, allora erano guai. Analogamente, se mister Paul esprimeva un parere su un aspetto del mondo, bisognava prendere appunti, cercare di farne tesoro esattamente come si cerca di capitalizzare i moniti di un guru.
Paolo = Maestro; Ernesto = discepolo: possiamo sintetizzare così questa amicizia poco democratica e paritetica. Alla luce di questo carisma, si può facilmente comprendere che cosa possa essere successo nell’allievo dopo che il chiarissimo luminare gli ha parlato bene del gioco degli scacchi. È stato subito assalito da una gran voglia di conoscere meglio tutti i rebus e i difficili nessi legati a quell’universo di otto pezzi, otto pedine e sessantaquattro caselle dove scatenarsi con acrobazie della mente.
Si recò, appunto, in un tempio di questo sport, conobbe addirittura il presidente di quel circolo, un uomo simpatico, nonostante tutta la sua importanza. Caspita, nell’arte di pilotare regine e torri era il numero uno in tutta la provincia, si vociferava addirittura che avesse avuto l’onore di fare una partita con un mostro sacro russo, e nonostante tutte queste credenziali, malgrado questa sua superiorità aristocratica, era un tipo alla mano, o almeno si sforzava di apparire tale. Forse la sua affabilità era un vezzo snob, finalizzata a intercettare lodi, o forse era così senza simulazioni e calcoli, in virtù del suo carattere.
Comunque sia, il pischello fu lusingato quando il mitico Pres. lo esortò a dargli del tu, poi lo invitò al bar del club, dove gli offrì un caffè -e il ragazzo aveva quasi il batticuore nel corso di cotanto onore- e, dulcis in fundo, a un certo punto gli propose di fare una partita. Incredibile! Il galattico maestro scendeva al livello del principiante e gli regalava una soddisfazione che ancora oggi risuona nella psiche del barista, quando ritorna a galla la sensazione che provò sedendosi a quel tavolo. Inutile dire che il match durò poco. Il formidabile scacchista, davvero esimio quantunque non fosse poi il campione del mondo, in quattro e quattr’otto mise con le spalle al muro il re del povero ‘sparring partner’, il quale commentò in un angolo del suo animo: <<il mio sovrano meglio avrebbe fatto ad abdicare all’inizio della partita, così non subiva ‘sto scacco umiliante>>. Ma questo fu solo un pensiero provocatorio e transeunte, nel complesso il beginner era contentissimo di aver potuto giocare con sua maestà il Presidente, e pazienza se questi lo aveva messo al tappeto dopo qualche minuto, in fondo era normale una tale débâcle, e non scalfiva certo la gratificazione conseguente a un siffatto quarto d’ora di gloria.
Il campione fece comunque i complimenti al suo giovane discente, gli disse che aveva stoffa, che aveva giocato discretamente, nonostante la sconfitta, e lo spronò a farsi rivedere nel circolo, a giocare il più possibile, a comprare qualche libro in merito, per imparare qualche trucco del mestiere. L’allievo ringraziò, con voce tremante, quasi rosso in volto, credendosi un privilegiato, manifestando al personaggio la sua gratitudine per quel match squilibrato. “Maestro -gli disse- stasera ho imparato tanto, e non dimenticherò il suo generoso regalo”. Il Presidente, sorridendo, gli rispose “Ma non dovevamo darci del tu?” e il giovanotto, scusandosi con ossequioso imbarazzo, si corresse all’istante, “hai ragione, ma la tua importanza mi mette per forza in soggezione”.
L’indomani il ragazzo corse da Paolo per riferirgli l’accaduto, ma questi sembrò non prenderla bene, parve quasi infastidito dal fatto che il suo modesto compagno, tutto sommato una schiappa, si fosse permesso di andare a conoscere uno che, quanto a questa disciplina sportiva, ne sapeva più di se stesso. Il ‘suddito’, intuita l’irritazione, si pentì amaramente di questa confessione. Capì che…
Ora si è scocciato di tutti questi ricordi. Ma sì, chi se ne importa! I rapporti con Paolo da allora peggiorarono, lui ne fece quasi una malattia per diversi mesi, e poi si rassegnò, e adesso, dopo aver rievocato la curiosa vicenda, prova una sorta di stizza a posteriori. Lui, nel riferire al compagno di classe l’onore avuto col Presidente, mica voleva fare l’altezzoso, darsi arie, e men che meno intendeva mettersi a tu per tu con Paolo, anzi: voleva dimostrargli quanto gli fosse grato per aver da lui appreso l’importanza di questo gioco. Voleva fargli capire che, grazie alle sue parole, si era appassionato a questa arte, tanto da recarsi presso un esperto giocatore. E invece il classmate pensò che il bauscia volesse, con quell’aneddoto, alzare la cresta. Ernesto, dopo aver percepito dianzi il torneo amatoriale all’aria aperta, è stato spinto, nella rotta dei ricordi, verso passate e ibride esperienze, e ora si sta risvegliando in lui il fastidio per l’assurdo risentimento del suo ex beniamino, il suscettibile Paolo.
Prima di archiviare il revival, che ha già impegnato il suo cervello per circa sei minuti, ritorna a pensare a un dettaglio di questa fotografia mnemonica, cioè il bar dove il dirigente della federazione di scacchi gli offrì quello storico caffè. Poco fa non si era soffermato sul fatto che quelle tazzine fossero, tempo addietro, come quelle che lui oggi, a parti invertite, offre ai suoi clienti quando gli chiedono l’eccitante bevanda. Siccome lui, ogniqualvolta fa mente locale a quell’espresso, ha la sensazione di ripescare nell’album del suo passato un momento eccelso, unico, indimenticabile, adesso si chiede come fosse quel bar, per capire se abbia fatto la sua parte, in quel suo entusiasmo, qualche caratteristica dello scenario materiale di quell’evento. Ovviamente, e lui lo sa bene, il clou di quel coinvolgimento fu l’onore di essere al fianco di un ottimate del gioco degli scacchi: la sua psiche, lusingata dalla confidenza che il vip gli stava dando, tendeva a vedere tutto rosa, a ingigantire la qualità di ogni sfumatura, a esagerare il valore della situazione. Ciò nondimeno, può darsi che, sia pure in minima parte, qualche peculiarità di quel bar, qualche suo speciale attributo, abbia contribuito al successo di quella manciata di minuti, e lui ora si chiede se e quale sia questo effetto speciale.
Se riesca a scoprirlo, può farne tesoro nelle sue attuali vesti di collega di quel gentile signore che provvide a servirgli l’ordinazione. Se, poniamo, un trucco del know-how di quel barman sia stato, a suo tempo, un faretto sopra una bottiglia di vodka, proprio dietro il bancone, oppure un poker di altoparlanti potenti, celati alle spalle di una collezione di vini, o un tipo di parquet; se uno di questi requisiti, o qualsiasi altro dato, ha concorso a fargli sembrare radiosa quella circostanza, Ern può, nel suo presente lavorativo, importare quella panacea nel proprio esercizio, e magari provvedere, con questo potenziamento stilistico, a irrobustire l’appeal del suo regno. Tutto fa brodo, meglio essere in guardia, voler migliorare anche grazie all’apprendimento da magisteri del passato. E così l’uomo pensa e ripensa alla scenografia di quel film, punta un’ideale e metaforica torcia su ogni centimetro di quell’angolo del circolo, per enucleare, se c’è, questo asso nella manica.
Allora, vediamo, il banco bar mescita no, era normalissimo, non aveva nessun pregio particolare, era scevro di qualsivoglia attrattiva. Depennato questo aspetto dalla lista di possibili virtù, passa in rassegna tutte le bottiglie esposte sulle scaffalature -sistemate a U, come una sorta di ferro di cavallo, dietro e intorno al bancone-: zero, nessun liquore o whisky che lo abbia sedotto con qualche stranezza ad alti livelli. Il pavimento? No, da escludere anche quello: era squallido, di dozzina, valeva poco, e per giunta la ritentiva di quest’uomo -che sta viaggiando in una specie di macchina del tempo mentale- sta estrapolando dalla matassa empirica di quei momenti una serie di macchie su quella mediocre ceramica. Avvolte da una patina di ordinarietà erano anche la macchina per preparare caffè (e cappuccini) e la collezione di bicchieri, sì lucidi, puliti, disposti in ordine geometrico, ma non poi così tanto eleganti da rendere fortunata la degustazione.
Il commerciante sta facendo uno sforzo per addivenire a un’assoluta certezza circa i motivi di quelle sue emozioni sui generis, e alla fine conclude che la struttura concreta del locale non recitò alcun ruolo nella sua estasi, il cui motivo fu solo ed esclusivamente l’orgoglio di essere al fianco di un grand’uomo. L”anamnesi’ relativa a quell’episodio non può aiutare in alcun modo la sua attuale gestione del proprio esercizio, almeno stavolta non si può dire che la storia sia maestra di vita, e se questo personaggio vuole sommare al suo stile gestionale qualche trovata, atta a moltiplicare le entrate, deve pescare ispirazione da un’altra parte.

Walter Galasso