REVISIONE DI  ‘ELICOTTÈRO’  [Microracconto  5]

DI WALTER GALASSO

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   In catene montuose, meno auguste del K2, ma molto più alte di una semplice pietra, giganteggiano settentrionali cocuzzoli -sommità ammantate di zitto mistero-. A chi le osservi in lontananza essi sembrano desiderosi di sfiorare grigi banchi di minacciose nuvole, arcigni batuffoli forieri di pioggia a catinelle. Sopra quelle ieratiche e appuntite cuspidi, mai dipinte dal pennello di un pittore professionista, ma fotografate ben ventuno volte da apolidi turisti armati d’una camera capace di formidabili scatti, forse in questo momento manca fauna e scarseggia flora. Ivi regna uno squallore paragonabile a certi difetti di un brullo deserto, ma l’altitudine di quel romito sito -talmente desolato che lassù un anacoreta andrebbe in brodo di giuggiole- bilancia, con la sua munifica offerta di un ghiotto panorama, il suddetto gap qualitativo.
   In una stazione ferroviaria, da poco ristrutturata in un restyling capitanato da qualche estroso architetto, una passeggera, armoniosa fumatrice in blue jeans, cittadina immersa in privatissimi pensieri, affetta da un’annoiata attesa di un mezzo pubblico, percepisce prima un clan dei suindicati nembi, poi quelle romantiche cime, pregne di vuoto e di silenzio, ma anche di fascino altolocato. All’improvviso il suo udito, vicino a un pendulo paio di orecchini inerenti ad alta bigiotteria, capta i sinistri decibel d’un remoto rumore, di cui la signorina o signora non riesce a intuire la fonte. Qual è la sua matrice? Da chi o da che cosa esso rampolla?
   Domande non destinate a rimanere senza una sorella risposta, poiché la viaggiatrice dopo 32 secondi si accorge che questo ‘ronzio x 900’ proviene dal volo di un elicottero. La donna -nome di battesimo: Lisa-, d’un paese del Lazio, è una pendolare, vendeuse in una boutique d’una città, dov’è stata assunta un lustro fa grazie alla raccomandazione di un notabile compaesano. Mira quel volatile veicolo, che si sta muovendo come un metallico insetto, intento a migrare.
   Le balugina un ricordo che appartiene all’epoca in cui frequentava l’Università. Era in vacanza, ospite di una collega, Emanuela, che l’aveva invitata in una sua magione rurale per trascorrere insieme un georgico week-end. Stavano giocando a scacchi, sotto un bersò, su un tavolo in ferro battuto, e il teatro materiale del match era una preziosa scacchiera in avorio, inclusiva di pezzi così belli da poter essere reputati delle autentiche sculture. La padrona di casa era in vantaggio, in virtù d’una serie arguta di mosse che le avevano consentito di attingere su quei quadratini una smaccante egemonia. Lisa, con adamantina onestà intellettuale, nei suoi pensieri a un certo punto ammise che la sua avversaria stava palesemente dimostrando di possedere un’intelligenza superiore alla propria, primadonna in un walk-over:  ‘quest’arca di scienza mi surclassa, e del resto agli esami prende puntualmente 30, mentre io non sono mai riuscita ad avere un voto superiore a 26’. Proprio mentre ultimò, con stizzita serenità, questa coraggiosa autocritica, arrivò una contadina, abitante in una fattoria limitrofa a quella villa. Si chiamava e si chiama Teresa, era gioviale, con le guance rubizze, i capelli raccolti in un pittoresco chignon, le sue tozze mani erano contrassegnate da un mix di calli, nobili, e anelli di poco valore. Cara amica di Emy, nell’alveo di conformistici rapporti di buon vicinato, ne era al tempo stesso alquanto soggiogata sul piano intellettuale. La reputava un’insigne scienziata, e questo complesso d’inferiorità si traduceva sovente nella decisione di portarle, come rispettosi doni, saporiti e genuini prodotti alimentari. In quell’occasione il presente fu una pezza di caciocavallo, sistemata su un vassoio in alluminio, che Terry portava sulla mano sinistra -facendo attenzione a non far cadere il formaggio a causa d’una subitanea e accidentale perdita di equilibrio-. Il suo arrivo non costituì una turbativa della contesa in corso, ché la padrona di casa, abbandonando volentieri cavalli e alfieri e torri, in una cesura (della tenzone, ‘gara amichevole’) doverosa per chi possieda la buona cortesia come il proprio blasone, accolse a braccia aperte la deferente ospite. La presentò a Lisa come una persona radiosa e generosa. “Non dovevi disturbarti!”. “Nessun disturbo, è sempre un piacere”: convenevoli, scambio di parole carine fra Emanuela e l’agreste Teresa. L’ospite, dopo aver appoggiato l’edule regalo su una sedia, e inaugurando una fase di amene chiacchiere, rivelò alle due interlocutrici che all’alba, poco dopo il chicchirichì del suo galletto -ed Emy, interrompendola brevemente, disse a Lisa che quell’animale aveva un nome proprio, Giovanni-, ella, da poco svegliatasi, aveva sentito, sopra la sua casa, un rumore. L’assordante ‘casino’ fatto da un elicottero. Pronunciò questo termine con l’accento sulla seconda ‘e’.
   Ora Lisa ripensa a quel buffo ‘elicottèro’ -idea forte in una parola erroneamente piana-, al fatto che in quella circostanza ella interpretò lo sbaglio come la spia d’una crassa ignoranza di quella lady. Guarda i monti sullo sfondo, le nuvole sopra: enormi, tanto più grandi di lei, eppure non le fanno pesare la loro superiorità, perché la maiuscola della Natura non è mai boriosa. La donna un po’ si pente a posteriori del complesso di superiorità che provò segretamente con Teresa. Prova un sottile senso di colpa per l’interiore sussiego in cui valutò quella coltivatrice diretta una mezza ilota, con un modesto titolo di studio nel curriculum. Elicottèro? In fondo pure questo suono è bello.

Walter Galasso