I DETRATTORI E GLI INDIFFERENTI CONTRO UN GENIO? AHAHAHAHAHAHAH!   AHAHAHAHAHAHAH!  AHAHAHAHAHAHAH!    [“E LASCIATEMI DIVERTIRE”,  DI ALDO PALAZZESCHI]

DI WALTER GALASSO

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ALDO PALAZZESCHI – E lasciatemi divertire – YouTube – Antonio Stangherlin – 14 nov 2014

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   “E lasciatemi divertire”, lirica inerente a “L’incendiario”, by Aldo Palazzeschi, sovente reputata un suo manifesto po…etico. Autore verso, non versus, un ipotetico lettore ‘mainstream’, in un immaginario ponte dialogico che profuma d’un sofisticato divertissement.
   Una canzonetta spesso presentata come una vis polemica, nell’area del Crepuscolarismo, contro le regole della poesia tradizionale, un j’accuse scagliato sulla reputazione di qualche ortodosso e canonico Vate, in nome, e all’insegna, d’una scrittura liberamente affrancata da ogni norma. Una chiave di lettura che scippa valore all’opera, un’interpretazione che, al netto della sua assiomatica ovvietà, se non integrata di ben altro risulta deficitaria: sì vera, abbisogna d’uno sviluppo. Palazzeschi vola più in alto, e assapora, in questa vulcanica eruzione di un élan rivoluzionario, un gusto filosofico.
   Dietro un geniale trionfo di stranezze, come onomatopee e capricci linguistici ed espressioni quasi infantili, si articola un preciso progetto teoretico. Un suo pilastro, psicologico da un lato, addirittura ontologico dall’altro, è nella seconda delle venti strofe, dove il letterato fa finta di reputare corbellerie le anarchiche anomalie del poeta che è in lui e dei suoi colleghi, e di chiedere, a una collettiva entità a cui dà del voi, la grazia di perdonare quelle fanfaluche e tollerare questo tipo di poeta bizzarro. Un “poveretto” -tanto svitato da divertirsi con esse- a cui è bene regalare una compiacente assoluzione. Abbiate pietà, omoni assennati, di questo giullare, non mettetelo in croce, non dedicatevi al sadico hobby d’insolentirlo. Lasciate, o voi campioni d’impeccabile buon senso, che la sua ludica immaturità sia. In fondo contento lui contenti tutti. Questa l’apparenza del significato. Falsa, anzi falsissima, perché in questi versi l’Autore si vuole togliere così tanti sassolini dalle scarpe che a metterli insieme si ricopre l’intera superficie del Circo Massimo.
   Palazzeschi ivi elabora una colossale presa in giro del ‘sistema’, e parte in quarta, in tale frustata, da versi di enorme pregnanza speculativa, quelli in cui sottolinea che il poeta si diverte pazzamente e smisuratamente. Interpreti precipitosi, studiosi che pontificano su un creatore di Opere senza averne mai scritto una, abboccano all’amo e credono che il verbo più i due avverbi siano il gap da tollerare, laddove l’Autore vuole, al contrario, presentare questa triadica somma come un Valore e sbatterlo in faccia ai savi satrapi del vincente e omologato conformismo. Ad affermati membri di un’intellighenzia che detta legge, e mentre detta vuole mandare all’inferno chi, con il suo irregolare estro, le si ribella. Lorsignori sfottono il poeta, lo dichiarano fuori (dai giochi che contano), sciroccato, fuso, bizzarro e buzzurro. Fioccano boicottaggi, ostracismi, lo tagliano fuori da tavole rotonde, dichiarano urbi et orbi che questo “fesso” non ha le palle quadrate, che è un dilettante, che il suo modus operandi è sintomatico di squinternata insipienza, e pensano di farlo soffrire con questa emarginazione, mentre… Palazzeschi è chiaro: mentre il poeta, qui eletto a simbolo di eclettica Libertà, nel diventare chi è e nel continuare, gagliardo, a essere se stesso si diverte un mondo. Tesi nella tesi è un’importantissima domanda retorica, un regalo (all’umanità) che solo la Filosofia può fare:  se una persona è felice, magari dopo aver subito di tutto e di più da parte di nemici, questi ultimi possono reputarsi soddisfatti della persecuzione che le hanno inflitta? Certo che no! Checché ne dica chi sia servo del sistema, quel che più conta nello stato d’animo di un essere umano è l’insieme di emozioni che lui prova in cuor suo. Se nella stanza dei bottoni ne dicano di ogni, o -fa lo stesso- lo ignorino, equiparandolo a un minus habens, ma lui se ne freghi e se la spassi nella sua Stimmung, si potrà ben dire che la loro cattiveria non abbia cavato un ragno dal buco. Che quell’artista, con la sua autonomia psichica, li freghi alla grande, bellamente ricalcitrante a ogni condizionamento eteronomo.
   Procediamo con la garbata distruzione di equivoci -un palazzo implode, e chi l’ha annichilito, pilotando la palla da demolizione, chiede scusa per la polvere-, confutando un altro abbaglio, esegetico ed ermeneutico. Diffusa l’idea che Palazzeschi inneggi a una soppressione di regole nella scrittura lirica. Giova dissentire parzialmente: il futurista con riserva -l’insigne figlio della fiorentina Via Guicciardini fu grandioso nel rompere con il Movimento, in virtù della sua non violenta opposizione a ogni guerra- perora un’emancipazione tout court da ogni regola che, violenta e saccente, voglia annichilire l’irriducibile originalità di un essere umano. Il suo poeta, che va a ruota libera nelle sue assurde e giocose esternazioni, sta per ogni soggetto che aneli a essere libero, sfrenato in tutto ciò che gli passi prima per l’anticamera del cervello e poi per il suo centralissimo salone.
   Tutte le strambe sonorità di “E lasciatemi divertire” sono, fra l’altro, onomatopee, o.k., ma anche molto di più. Costituiscono acustici emblemi di un Io fantasioso e assoluto, sfrenato nella sua signoria su se stesso, ribelle a convenzioni che vogliono castrare, in nome di una grammatica rigida e convenzionale, l’endogena assolutezza spirituale. Intercettando queste “licenze poetiche”, paradigma di ogni pensiero al di fuori della tradizione di autoritari vincitori, un duce di turno imputa indecenze, scandalosamente orbe di qualsivoglia nesso, a un fesso, nella prima rima che venga in mente al suo odio, ma Aldo Pietro Vincenzo Giurlani manda a ramengo costui e, con brillante, efficacissima equivalenza tra un linguaggio semplice, vagamente minimalista, e un contenuto assai profondo, gli fa presente che “Non è vero che non voglion dire, voglion dire qualcosa”. Un’altra pennellata filosofica:  sembra che il letterato si stia difendendo accontentandosi di alludere a uno zinzino semantico, a una quantità ‘lillipuziana’ di senso, e invece, con elegantissima contestazione d’un crasso principio d’autorità, vuole teorizzare che qualsivoglia traccia noetica, anche tri cuccuccurucù -forse l’hanno plagiato da qualche parte?…-, o friù friù -pare il verso, leggermente differente dal solito, di un treno senza freno-, ha una massiccia valenza ontologica, facendo parte di quell’essere umano e dunque dell’Essere tutto.
   Il poetico slancio che eleva a collega del Centro un significativo margine, a enciclopedica rilevanza l’inconscio pazzerello, in genere aggiogato da una razionalità in pompa magna e in giacca e cravatta, tende a pagare dazio. Si busca insulti come “somaro”, sembra -a quelli che ossessivamente invocano una chiarezza più terra-terra di un missile- “giapponese” -non solo quando reitera “koku”-, un aggettivo che qui simboleggia la strampalata oscurità, come a dire “ostrogoto”. Ma Palazzeschi (& Company), personalità tutt’altro che remissiva, non solo si difende da queste insinuazioni, ma rilancia, colpendo l’avversario in contropiede.
   PRIMA simula di buttarsi giù e par che faccia in certo senso un’umile ammissione di peccati, sostenendo di aver dato alla luce “spazzature di altre poesie” -plagio 2, ma non è il caso di dire a chi stanno fischiando le orecchie-. Ma è solo apparente questo abbassamento di cresta, che si alza, eccome!, POI, nella deliziosa anfibilogia di “robe avanzate”: quelli che paiono rifiuti diventano fenomenologicamente, se li vedi da un’altra angolazione, magari in controluce, aulente, squisita avanguardia. “Avanzate” significa scarti se letto da un lato, à la page e up-to-date se il termine sia assaporato da un altro punto di vista. E l’Autore si diverte, e pure molto, in questo larvato persiflage, tant’è che “Aaaaa! Eeeee! Iiiii! Ooooo! Uuuuu! A! E! I! O! U!”, terzo segmento forse imitato nel mondo delle sette note, è sfociato in un “Disco Samba”, di Two Man Sound, più gaio d’un giulivo tormentone carnascialesco -nella canzone si aggiunge la y, tanto per cambiare qualcosina e confondere, dietro una foglia di fico, le acque-. [Solo supposizioni, per carità, ma tanto non importa: l’alta letteratura presta, fa del bene e poi somiglia a un creditore che si scorda dell’aiuto dato].
   Palazzeschi, spirito brillante e bella penna, si supera quando mette un metaforico ferro da stiro sulla piega e il dito nella piaga, e tanti studiosi hanno fatto finta di non vederlo, o hanno pensato che quell’indice -o forse il dito medio- abbia sbagliato strada. No, non ha sbagliato proprio nulla quando ha citato -e tanto, tanto lodato fra le righe- l'”azzardo” di un genio ribelle e coraggioso, capace di rimanere libero pur sapendo “che ci son professori oggidì a tutte le porte”. “Bilolù. Filolù”, urca quanti guru!, pronti a sottolineare presunti errori con una penna o matita blu. Oppure, in un’aggressività forse peggiore, a ignorare e snobbare il talento di un fuoriclasse che non sia nelle loro grazie, rei di un’Indifferenza tanto tanto stronza. Giova evidenziare che questi versi, nella diciottesima strofa, sono seguiti dalla diciannovesima, in cui solo in apparenza ci sono altre perle d’eteroclito nonsense. Nossignori, nessuno si permetta di complicare il discorso con fuffa chic, per depistare; qui, in questi meravigliosi tre versi, c’è un chiarissimo capolavoro: l’Autore, dopo aver scritto “ci son professori oggidì a tutte le porte”, si sbellica dalle risate.
“Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!”.
   Non c’è bisogno di aggiungere altro…

* * *

E LASCIATEMI DIVERTIRE

Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie

Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!

Ma se d’un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc…Huiusc…
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!

[Aldo Palazzeschi, 1910]

Walter Galasso