LA CUSTODIA DI UNA CHITARRA AL POSTO DI UNA MALRIDOTTA AUMÔNIÈRE   [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo  13]

LA CUSTODIA DI UNA CHITARRA AL POSTO DI UNA MALRIDOTTA AUMÔNIÈRE   [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo  13]

LA CUSTODIA DI UNA CHITARRA AL POSTO DI UNA MALRIDOTTA AUMÔNIÈRE   [Colore di fiori tra un poker e un talent – Capitolo  13]

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COVER

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DI WALTER GALASSO

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   La mente dell’uomo in questo momento non è omogenea: una sua parte, brada e fantasiosa, divaga rispetto ai suoi pensieri più controllati, intenti a perseguire e conseguire il classico scopo di arrivare a un preciso indirizzo. Qualcuno può giudicare una forma di deconcentrazione questo iato funzionale, ma l’emersione di idee involontarie e sregolate non è affatto un’emergenza (salvo casi particolari), rientra nella normale ricchezza di una psiche, appare come un fisiologico connotato della sfera cerebrale, lungi dall’essere un’involuzione patologica della lucidità. Quest’uomo sta semplicemente riempiendo il suo tragitto con lampi di simpatiche e creative digressioni, invisibili agli occhi di chi lo circonda, ma effervescenti e pronunciate nel riservato fluire dei suoi moti teoretici più reconditi.
   Possiamo dire che il segreto scorrimento di riflessioni dentro la mente di una persona sia, rispetto alle sue parole e ai suoi gesti più palesi, come il tracciato e il funzionamento della Metropolitana rispetto a quel che accade sulla superficie di un centro urbano, così come la porzione meno logica di un tale scorrimento noetico, occulto e super privato, sta alle idee più regolari come, nella suddetta dimensione underground, gli eventi casuali e caotici stanno ai viaggi ordinari delle carrozze. Quindi in questo momento, mentre Art principia a percorrere il corridoio che porta ai tornelli, la sua mente imita una parte dello spazio in cui tutta la sua persona è immersa. Il reticolato dei suoi pensieri è una Metro della sua personalità-città, e la sua parte meno chiara e distinta arieggia gli eventi più selvaggi che si possono osservare in quei pianeti chiamati Linea A, Linea B e Linea C.
   Come spesso accade, un battaglione di utenti sta intasando la sotterranea galassia di questa Fermata. Se l’Istat li contasse ad uno ad uno e poi ne rendesse pubblico e noto il numero, fornirebbe una stima stupefacente: centinaia di cittadini, forse migliaia, una percentuale altissima rispetto ai viaggiatori di un tram.
   Gli occhi di Arturo percepiscono veloci movimenti altrui, scatti atletici oppure nevrotici, accelerazioni improvvise -forse di qualcuno che a un tratto si è ricordato di avere un appuntamento con una persona a cui non vuole tirare un bidone, e alza il passo per non arrivarvi con deplorevole ritardo-.
   E ancora: lupi solitari, misantropi o caratterizzati da timidezza, e vocianti comitive di turisti; ragazzi che escono da scuola (o che l’hanno bigiata) e giovani che vanno in un bistrot, vestiti come a Carnevale un grand commis possa indossare i panni di un pazzo. Un noto giornalista, sovrappeso e celeberrimo -“cammina come un elefante indiano si diriga a una prima teatrale di pachidermi”, ha scritto tempo fa un rivale, in body shaming, su un tabloid-  e qualche michelaccio senza né arte né parte. Vigilantes che deambulano e controllano l’ambiente, con aria da sceriffi, e facce da galera, forse evase da un penitenziario e dirette a un porto dove, imboscandosi in mezzo a merci, possano allontanarsi da questo Stato e raggiungere un Paese che non sia disposto a concedere l’estradizione all’Italia. Poi v’è anche una pleiade di cittadini che, in un intervallo della loro ufficiale attività lavorativa, si stanno recando in una libreria, per fiutare con narici intellettuali l’odore di pagine cartacee di qualche tomo impegnativo, per sentirsi dotti e non condotti dal sistema, per andare non solo in una Via Condotti ma anche in un tempio del sapere e poter dire, l’indomani, a qualche amico o a se stessi, che sono stati in un negozio culturale e hanno trovato su uno scaffale una novità editoriale di gran momento. La reputazione sociale passa anche da meriti come questo: non ti appuntano una coccarda sulla spallina di una giacca, però fa fino essere catalogati fra gli avventori di stores artistici.
   L’inventario degli attuali passeggeri della Metro è ancora lungo, al signor Piuro quasi gira la testa mentre il suo apparato sensoriale si sente circondato da così tanti colleghi di avventura. E fra costoro, Udite! Udite!, conta anche un artista di strada, come possiamo definire un musicista che, quasi nell’esatto centro di questo corridoio, si è sistemato alla men peggio per improvvisare un concerto. Come un tempo certi mendicanti avevano una malridotta aumȏnière, dove mettevano i proventi della questua, così questo musicista ha disteso sul pavimento la custodia della sua chitarra, e dentro il suo perimetro a chi lo stimi è possibile lasciare qualche spicciolo, equivalente a un informale biglietto con cui si premi la sua performance.
   Probabilmente si chiama Henrik, perché sono scritte queste sei lettere su un suo zaino di jeans, verde militare: plausibile che volesse, vergando con un pennarello questo nome proprio, alludere a se stesso, a meno che la sua composizione rispondesse a qualche altro scopo, come celebrare il nome di uno scrittore per cui la sua lettura va matta. Noi diamo per buona la prima e più normale interpretazione, e dunque da adesso in poi questo personaggio è Henrik.
   L’altro giorno, durante una pausa della sua attività artistica, stava raccontando a un conoscente che, in passato, ha avuto guai con la giustizia, perché si è permesso di lasciare una bicicletta nel portone di casa sua, assicurata alla ringhiera delle scale mediante un lucchetto, e un imbecille del quinto piano non vuoi che scivola sui gradini proprio in corrispondenza della mountain bike? Per farla breve, nel capitombolo il suo volto ha sbattuto contro una protuberanza del telaio e per un pelo il contatto non ha cagionato uno sfregio sulla sua gota sinistra. Il tizio, dopo aver fatto ricorso alle cure di sanitari, lo ha querelato, impiantando tutta una polemica sull’arbitrarietà di quel parcheggio -secondo lui illecito-, e ne è nata una vertenza giuridica, da cui fortunatamente Henrik è uscito pulito. ‘Innocente’, ha sentenziato il magistrato, e l’accusatore, più che pensare a qualche graffietto vicino al naso, dovrebbe andare da un neurologo a far dare una regolata al suo cervello.
   Nel raccontare l’aneddoto il giovane ha fatto riferimento a un posto della Norvegia, come teatro dell’episodio. E sono 2, due dati della biografia di questo giovane: è un norvegese. A parte il conflitto fra la sua bici e il piantagrane, nessun problema serio con la legge pare aver contrassegnato la sua formazione. Infatti quantunque sembri a un cittadino borghese uno scapestrato, un poco di buono, in realtà è docile e mansueto, la sua cultura è incentrata su un convinto pacifismo, egli essendo un fan del Mahatma Gandhi. Dovrebbe voler bene agli animali, a giudicare da come si è sistemato in questo corridoio underground: vicino a lui, infatti, sta Roald, un cane, sdraiato accanto a una chitarra di riserva che l’artista si porta dietro nel caso in cui quella che usa, comprata a rate, per qualche motivo scioperi e vada in avaria. Il fido quadrupede stravede per Henrik, ricambiando pienamente il suo affetto: mentre il giovane suona e canta, la bestiola lo guarda come se sia la più grande rock-star della storia contemporanea. Si vede proprio che se un leone fosse in procinto di aggredire il suo padrone e amico, lui non esiterebbe a intervenire per difenderlo, nonostante la tremenda maestà dell’attaccante e della sua criniera. Sembrano due fratelli, si dividono il cibo, si fanno compagnia, e non si tradiscono mai.
   Difficile decifrare l’età dell’estroso norvegese. A occhio e croce ha meno di trentacinque anni e più di ventinove, però si sa che le apparenze possono ingannare più di un funzionario corrotto, quando recita la parte di uno che vuol bene allo Stato e lo serve con rispettoso zelo, ma briga dietro le quinte per violare un mucchio di leggi. Questo musicista può dunque essere nato anche ventotto o trentasette anni fa, anche se la forbice fra le due ipotesi implica che qualcosa non quadri qualora la sua age sembri ’37’ e sia ’28’: come minimo, se porta così male le sue primavere, dimostra di aver commesso qualche errore nell’impostazione del suo tenore di vita.
   Chissà se, nel corteggiare qualche ragazza, quella ci è stata perché lo ha pensato più giovane di quanto sia, e poi è rimasta delusa dopo aver spiato i suoi documenti, una volta che, a casa sua, il chitarrista si è assentato un momento e lei ha frugato nella sua borsa. O magari una cosa del genere non gli è mai capitata, avendo sempre avuto a che fare con donne che non badano a questi dettagli, anche se l’ambiguità anagrafica del suo aspetto implica comunque, eros a parte, il disappunto di qualche persona, ossessivamente vogliosa di sapere sempre quale sia l’esatta età delle persone.
   Sembra un’assurdità, un poeta potrebbe pensare ‘Ma che razza di fesseria è questa? E chi se ne frega di quando è nato il mio coinquilino del secondo piano?’, eppure nei mass media, segnatamente in televisione, hanno imperniato tutta una trasmissione sul gioco di fare un indovinello ad alcuni passanti. Gli hanno fatto vedere tre donne e gli hanno chiesto “secondo te, quanti anni hanno?”, e loro, in questo passaggio dal plurale di ‘anno’ senz’acca ad ‘hanno’ (verbo), richiesti di questo epocale parere, si sono coinvolti, segno dunque che la domanda può generare curiosità, passione, interesse. E poi, può chiosare un amante di informazioni, è sempre una cosa buona e giusta sapere il maggior numero possibile di dati. Se sulla fronte di un personaggio mediatico fosse scritta una didascalia inclusiva dell’età, della cifra a cui ammonta il suo conto in banca, del partito per cui ha votato alle più recenti elezioni amministrative, e dati altrettali, forse una parte della mente di certi telespettatori se ne compiacerebbe, perché il sapere, anche a questi bassi e ridicoli livelli, è sempre gratificante.
   Qualcuno può dunque dire “Male” nel vedere questo artista della Metro, la cui età ha, nelle congetture di chi non la conosca scientificamente e voglia saperlo, un’oscillazione di sei anni. Il guaio è che non esibisce uno di quegli indirizzi di posta elettronica dove si inseriscono numeri che attengono alla data del primo vagito, per esempio rosymiss90@virgilio.it, e tutti sanno che nel 2024 costei ha 34 anni. Questo capellone non ne vuole sapere di costruirsi indirizzi del genere, mixa avanguardia e minimalismo nella sua partecipazione a un social network, e ogni e-mail che gli amici gli inviano viene spedita a un address privo di caratteristiche alfanumeriche alla moda.
   Sta suonando discretamente, e alla produzione di note aggiunge, in una sovrapposizione che si ispira ai cliché del cantautorato, anche parole impegnate. Non strimpella il suo strumento, usandolo con una certa professionalità. Non si avvale di alcun plettro, eburneo e a guisa di amigdala, le sue dita incaricandosi direttamente di pizzicare quell’autostrada di corde. Arduo stabilire quale nota emani, da tali cantini e bassi, con più frequenza, come, del resto, è impossibile domandare a qualcuno quest’uomo da 1 a 100 quanto valga: “chi sono io per giudicarlo?”, potrebbe rispondere la persona interpellata in merito.
   Il giovane sembra molto preso dalla propria arte, quantunque intorno a lui non si stia generando un processo che in qualche modo ricordi la cosiddetta ammirazione. Certo, molte monete sono state regalate alla sua bravura, forse buttate dall’alto da qualcuno che non si è voluto piegare, o forse posizionate con precisione da spettatori che, dopo averlo ascoltato con attenzione, si sono presi la briga di estrarre dalla tasca ladra qualche soldo metallico, inginocchiarsi con relativa scomodità e depositare con garbo (in quell’informale ‘botteghino’) una manciata di spiccioli. Però da qui a poter dire che il chitarrista goda di una sperticata stima, qual è quella che bacia veri vip della discografia, corre molta distanza. Egli possiede anche, oltre alla guitar acustica che sta non strimpellando ma accarezzando con padronanza, un altro strumento, una specie di basso, che egli ha addossato alla parete dietro di lui, vicino a una struttura in plexiglas.

Walter Galasso