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COVER
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DI WALTER GALASSO
1
VESTIZIONE A 20 KM/H, HAPAX, JINGLE E SCAT, SFOTTÒ SCRIO SCRIO E BUS STOP
Matteo, nel lavoro involontario del suo udito, mentre è in una casa ubicata nel centro di una cittadina sente il reiterato borbottio di un notaio, che ha il suo studio professionale in quella palazzina. “Ho i minuti contati!… Ho i minuti contati!”. Il tizio ripete queste parole per sei, sette volte, con un tono permeato al tempo stesso di furore represso, indignazione e gentilezza emanata obtorto collo. Ce l’ha con una vicina, la quale, evidentemente, gli ha chiesto di fare qualcosa e lui, alquanto scocciato, sta acconsentendo alla sua richiesta ma facendole presente che ella è a dir poco inopportuna.
Qualcuno potrebbe commentare questa sua litania sottolineando quanto il suo comportamento sia alieno da galantomismo, egli trattando con sussiego, ostilità e una punta di disprezzo una donna; per altri, invece, la tipa se l’è cercata: come le è saltato in mente di disturbare, con una richiesta futile, un professionista oberato di incombenze? Matteo, -il suo polemico cervello s’è divertito a trasformare le esclamazioni del giurista in “ho i minuti contati, ho i miliardi contati!”- non sa che cosa lei abbia chiesto a lui, e ignora chi sia, in questa vicenda, il protagonista e chi il comprimario. Sa solo che la signora, dall’aria vagamente folk, è effettivamente una rompiscatole, e che il dottore se la tira e in quel palazzo si impanca a sindaco ad honorem, egli risultando, fra i proprietari, colui che di fatto riveste una posizione egemone, diciamo un primus inter pares. Solo le sue orecchie hanno registrato, a distanza, i contenuti della tenzone fra i due -un uomo che recita, come un ritornello, una risentita esclamazione e una donna che gli sembra una zecca-. Ne sa ben poco, e per conseguenza si astiene dal giudicare la coppia.
Oggi, tra l’altro, non ha tempo da perdere dietro bisticci altrui, in agenda vi è un impegno che non deve assolutamente slittare.
Va di fretta, come sovente gli succede; si veste a venti chilometri all’ora, prepara una ventiquattrore, che ha da poco varato, e dunque ancora non ne padroneggia con souplesse l’uso. Certe operazioni, come appunto il riempire una borsa per poi utilizzarla durante un viaggio di lavoro ma fatto anche per diporto, sembrano facilissime, ma, a ben vedere, necessitano di un certo allenamento affinché tutto fili liscio nel loro svolgimento. C’è un know-how anche nel fruitore di un accessorio, perché può succedere che, al fine di agire con bravura durante l’impiego, urga un suo rodaggio. Può darsi che il suo proprietario, la prima volta che lo porta con sé, ancora non sappia a memoria cosa ha sistemato in ogni sua tasca, e quindi quando vuole estrarne un mazzo di chiavi, alloggiate nella sacca posteriore, va ad aprire quella anteriore, dove invece ha messo l’autoradio e un cellulare. Può capitare, se quella bag sia al suo debutto e ricalcitri a essere usata con disinvoltura. Matteo, che solo da poco si avvale di questo oggetto -griffato: il logo ‘The Bridge’ lo aliena dal rischio di apparire economico-, si ritrova proprio in una situazione del genere, e dunque sta mentalmente ripassando tutta la mappa della sua valigetta prima di indossarla mediante la tracolla e uscire nella dimensione pubblica.
Accelerazioni improvvise da un vano ad un altro, scatti da ghepardo, orologio ripetutamente consultato per appurare se non stia albeggiando, nel pomeriggio, il rischio di perdere il treno delle 5 p.m., slanci di uno sport minore in queste movenze affrettate, non agli antipodi della calma ma nemmeno sue sorelle. Finalmente apre la porta d’ingresso, varca la soglia e, quando l’uscio è già diventato uno spazio psicologicamente distante, brandisce le chiavi dell’appartamento e serra quella frontiera, potendo così avviarsi al sito dove abita la sua meta.
Nella sua mente fa capolino una parola che mai prima di adesso è stata una componente del suo linguaggio, quindi la sua comparsa rappresenta addirittura il colpo di scena di un ‘hapax legomenon’.
Poi, sempre sul risicato spazio del pianerottolo mignon, rimpiange di non essere un’ipostasi di ‘homo oeconomicus’ -usa in modo improprio, per scherzare, questa espressione-, egli dovendo in questa settimana effettuare varie spese e paventando di non orizzontarsi bene in tale somma di uscite.
Le note di un famoso jingle, che funge da colonna sonora di uno spot in onda in questi giorni, cominciano a risuonare al centro dei suoi pensieri, come un terzo di ossessione, e a un certo punto la sua personalità decide di sostituire questa canzoncina interiore -arrivata nel suo cervello senza che lui lo volesse, e dunque passiva- con un più glorioso scat: imita una batteria labbreggiando vocali e consonanti che paiono estratte da un vocabolario in uso su Marte.
Dopo queste esperienze mentali, che durano pochissimo quantunque a livello di tempo vissuto paiano equivalenti a un’intera puntata di uno sceneggiato televisivo, l’uomo comincia a scendere le scale. Targhette vanitose luccicano dietro porte di appartamenti dove professionisti, come il suddetto notaio, hanno allestito il proprio studio. Acronimi, Ing. e Dott., S.p.A. spaventosamente moderne nella loro etichetta all’avanguardia: una fiera di associazioni a delinquere se la legge sia per assurdo l’ozio, opifici che fabbricano lavori intellettuali, cognomi buffi, ma, Matteo lo sa, è vietato dal buon senso indirizzare uno sfottò contro questi bersagli. Se a qualcuno salti il ghiribizzo di deridere uno che si chiami in modo curioso, è bene che lo censuri, ché esprimere il proprio divertimento sul signor ‘Bastardo’ con scria scria sincerità è disdicevole.
Esce dal portone, un serramento in vetro -tante impronte digitali, e mezze macchie lasciate da ignoti, rendono la sua ialina superficie una sorta di imitazione di una brutta opera d’arte contemporanea-. Raggiunge la fermata di un autobus -per percorrere i chilometri che lo separano dalla stazione ferroviaria a bordo del confortevole volume di un mezzo pubblico-. Ci sono altri passeggeri ad aspettare il torpedone: un gruppo di ragazzi e un’impaziente signora, che va avanti e indietro sbuffando. Passa un boss di un partito -siamo in campagna elettorale-, accompagnato da due giannizzeri, e qualcuno, riconosciuto l’assessore, lo ignora con speciale indifferenza. Forse ne ha ricevuto un favore, ha trovato un impiego tramite una sua raccomandazione -supplicata al potente amministratore non dall’interessato, ma da qualche parente- e allora simula totale estraneità a quell’uomo, per mascherare il debito che ha nei suoi riguardi.
Il pullman tarda ad arrivare, la signora, nonostante i saluti di un’amica che si affaccia a un balcone -”Ciao, Teresa!”, “Ciao”-, fra poco inizierà a sclerare, non ha ancora imparato a interagire con i suoi simili nella dimensione chiamata società.
2
MEZZO IN MYSTERY -DELAY=NON FINITO, AUTISTA=NAÏVETÉ- SORPASSA MISS TERRY
Miss Terry guarda la città con cipiglio, si ingrugna, protesta nei suoi precordi contro questi scandalosi disservizi, medita vendetta, e nel frattempo cammina nervosamente avanti e indietro nei paraggi della pensilina dove altri stanno aspettando con più calma il mezzo pubblico.
Un pool di indefessi operai sta lavorando alacremente vicino alla fermata, movimentando l’atmosfera di un quadrivio. Urlano, si piegano, poi si rimettono in posizione eretta, la loro sgargiante casacca color arancione spicca in mezzo al traffico, e a un certo punto un gran rumore emana da un loro camion, frutto acustico di qualcosa che, in preda alla forza di gravità, è caduta con irruenza, producendo questo clamoroso tonfo. Tanti si girano, qualcuno non esclude che si sia verificato un sinistro, ma ben presto si conosce la verità. Matteo scruta a distanza quell’energia popolare, l’umile eppur dignitosa fatica di quelle persone, ipotizzando che qualcuno, in mezzo a loro, forse anni addietro ha nutrito la speranza di poter svolgere un mestiere prestigioso, o comunque più qualificato, oppure ha sognato di vincere un jackpot nell’alea di qualche gioco d’azzardo, così tanti soldi da poter andare in pensione e fare la bella vita, e invece non sono arrivati né il lavoro chic né un bacio della dea bendata, e quindi adesso sono lì a sgobbare.
La signora, invece, che non se ne frega niente, a un certo punto decide di andarsene, pensando che le convenga macinare a piedi la strada che si era prefissa di percorrere a bordo del bus.
Tante volte succede, in effetti, che qualcuno aspetti un mezzo pubblico così a lungo da rimpiangere di non essersi incamminato, alla volta della meta, quando quell’attesa è iniziata. Un ragioniere di nome Alfredo arriva, per esempio, alle 15 e 10 alla fermata del 27, egli dovendo raggiungere una stazione ferroviaria sita a un paio di chilometri di distanza. Duemila metri a piedi si possono percorrere in mezz’ora di marcia, e dunque se il signor Alfredo, alle 3 e un quarto post meridiem, si incammina verso quello scalo, alle 4 meno un quarto può essere lì, e prendere un treno che parta verso le 16. Egli, invece, opta per la soluzione teoricamente più comoda, cioè aspettare l’autobus e avvalersene al suo arrivo, senza dover secernere gocce di sudore in una scarpinata epica. Purtroppo per lui, però, il 27 tarda ad arrivare, può darsi che abbia subito una foratura, o che l’autista abbia dovuto fare i conti con un traffico congestionato, oppure che questo pilota sia un brocco al volante. Comunque sia, la grande macchina si presenta all’appuntamento con i suoi utenti con 35 minuti di ritardo, e il rag. ne sale a bordo a un orario in cui, se avesse in partenza deciso di andare a piedi, adesso avrebbe potuto essere già lì.
L’impaziente donna deve aver immaginato una storia del genere quando, stizzita, ha abbandonato la fermata nel caparbio abbrivo di una sua maratona verso l’indirizzo a cui è diretta. Deve aver pensato ‘Inutile perdere altro tempo, mi faccio una bella passeggiata e arrivo prima’, ma ha fatto male i conti.
Poco dopo il suo pedestre avvio, infatti, il pullman, dopo essersi fatto desiderare e aver imitato quei professori che si presentano in aula con un quarto d’ora di ritardo accademico, compare, giganteggiando in mezzo ad auto che paiono nane rispetto alla sua mole. Il conducente ostenta un’aria di naïveté, come se non abbia fatto nulla di male. Alcuni si sono chiesti a lungo che cosa potesse essere successo, come se il viaggio di questa vettura fosse al centro di un mystery, e lui, beatamente, non denota alcun senso di colpa. Quasi quasi dobbiamo pensare che un tale delay somigli a un non finito, cioè a un’opera che l’autore abbia lasciato volutamente incompiuta, credendo scientemente al valore di questa programmata imperfezione. Questo dipendente forse ha pensato che la sua corsa potesse diventare un capolavoro senza la banale virtù di giungere presso ogni sua fermata con assoluta puntualità. Il bolide decelera, si ferma, la cigolante portiera posteriore si apre al ralenti, mentre un abbonato, che sta davanti a quella anteriore, nel vedere che essa resta ermeticamente chiusa mima al suddetto autista l’opportunità che egli apra quel dannato sportello, ma l’uomo, barricato dentro, con un atteggiamento ai bordi dell’arrabbiatura gli ingiunge di salire pure lui dall’altro accesso, e gli fa un gesto che presumibilmente vuole significare che non sta disserrando quella entrata perché nel suo meccanismo è subentrata un’avaria.
Battibecchi di normale amministrazione. Sono all’ordine del giorno queste scaramucce fra dipendenti di un’azienda regionale o comunale e utenti, gli uni contro gli altri disarmati con polemico furore, ma poi tutto finisce a tarallucci e spumante, basta che sul cellulare dei primi arrivi una telefonata che li metta di umore roseo e che i secondi guardino l’orologio e si rendano conto che manca poco al rientro in famiglia: gli animi si acquietano, e una mutua cordialità prende il posto della precedente tensione.
Il torpedone si rimette in moto, appesantito dalla salita di sette passeggeri, fra cui Mat. Dentro l’abitacolo vi sono pure una vaga puzza di piedi -e non si capisce un tale tanfo da chi emani-, una donna con uno zaffiro pregiato -formalmente è una specie di marquise-, sedili con rozzi avanzi di un pasto, lì lasciati da qualche soggetto incivile, e uno strano tizio. Indossa un paltò rétro, un paludamento di tipo barocco, munito addirittura di martingala. È uno che mangia sovente a quattro palmenti, a giudicare dal suo sovrappeso. Sta facendo un comizio, sbraita contro l’euro, contro la galoppante inflazione che in Italia è allignata nel tessuto civile quando esso, come valuta all’avanguardia, ha sostituito la lira: il suo stipendio è rimasto lo stesso e/ma intorno a lui un sacco di roba ha cominciato a costare il doppio. Il discorso, per carità, non fa un grinza, però ormai sono passati molti anni da quando un tale scandalo si è posto in essere, quasi nessuno ci fa più caso, e la sua polemica, che si prefigge di sfociare in una petizione a qualche Autorità, appare datata più del suo abbigliamento.
Dopo 620 metri avvistano, su un marciapiede, la signora di prima, che, poveretta, sta trottando come una scema e vede passare il mezzo nel cui arrivo ella non ha creduto. Ne è beffardamente sorpassata e adesso non può nemmeno prenderlo, ché, come è noto, un veicolo pubblico, salvo i casi dei taxi presi al volo, non sta certo a disposizione dei cittadini e non può fermarsi ovunque. Ride male chi rode ultimo.
Walter Galasso
“Finalmente apre la porta d’ingresso, varca la soglia e, quando l’uscio è già diventato uno spazio psicologicamente distante, brandisce le chiavi dell’appartamento e serra quella frontiera, potendo così avviarsi al sito dove abita la sua meta”…. E’ il punto di partenza di un delizioso itinerario narrativo che consiglio vivamente di percorrere perché – come sempre – la penna di Walter Galasso sa sapientemente cogliere ogni sfumatura dell’animo umano