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DI WALTER GALASSO
La superficie della Francia ha un Illuminismo ad alta definizione. Anche per questo se “Le Monde” si occupa di cellulari, e per giunta del suo uso nelle scuole, è d’uopo prestare attenzione all’importante giornale.
Fra le pareti di un plesso scolastico téléphones portables sì oppure altolà? Eh, bella domanda da un milione di franchi…dubbi. Per certi versi la tematica può essere definita una vexata quaestio.
Apro una tondeggiante parentesi di fiction, narrando un piccolo racconto, gustoso quasi come un piatto di maccheroni alla bolognese. Nel mio preterito, in un periodo intermedio fra il passato remoto e quello prossimo del mio tempo, mi sono buscato una querela per aver pronunciato, in un mio discorso pubblico, la suddetta locuzione latina. Un baccelliere, uno di quei fichi che vogliono fare i simpaticoni anche quando confessano al loro parroco di avere ucciso tre persone, mi ha accusato di non parlare come mangio, di aver usato un parolone, denotando così narcisismo, volontà di potenza, voglia di mettermi in mostra e nessun desiderio di farmi capire, eccetera -è ancora lunga la lista di cazzate che ‘sto imbecille ha eruttato, da una bocca affetta da alitosi-. Trascinato per la giacchetta -in pura viscosa- nelle aule di un tribunale, lì, in un processo lampo, sono stato messo di fronte a un aut aut, purtroppo diversissimo da quello di Kierkegaard. “Fa palinodia della prosa sul banco degli imputati o non ne prende le distanze ed è recidivo? Nel primo caso è assolto, nel secondo paga il fio”. Ma quale palinodia d’Egitto! Ho risposto “Ovviamente la seconda”. Morale della favola: condannato dal giudice a parlare per una settimana intera come Chiara Ferragni al Festival di Sanremo. Pena da scontare in un talent show di massima sicurezza. Mentre, in acrobatico equilibrio fra amarezza e divertimento, stavo guadagnando la via d’uscita, il magistrato, senza la toga, quindi nei panni di semplice cittadino, ha calamitato gentilmente la mia attenzione: “Dottor Galasso! Aspetti un attimo, le devo parlare”. Scambiamo quattro chiacchiere in camera caritatis. Mi dice: “Non mi porti rancore, guardi che non l’ho mica condannata ai lavori forzati! Anzi, a dirla tutta, qui in Italia, almeno fino a questo momento, hanno inviato più messaggi alla signora Ferragni che a “romacampodeifiori.academy”. Dia retta a me: non tutte le condanne vengono per nuocere”. Replico subito. “Your Honour, posso parlarle da uomo a uomo, senza diplomatici peli sulla lingua?”. Lui: “Non c’è bisogno, ho già capito… Cosa vuole che le dica: se proprio è affezionato al suo linguaggio…”.
Non esito dunque, tornando al quia e non menando il can per l’aia, a ribadire che l’argomento trattato da ‘Le Monde” è tendenzialmente una vexata quaestio. La presenza di cellulari in classe, infatti, può essere lodata con un peana -dagli allievi- o stigmatizzata toto corde -dai docenti- con pari ‘belief’. Dipende, come sempre e forse più, dal buco della serratura del punto di vista da cui si interpreta il problema, cioè il senso di un superdotato dispositivo nell’abbigliamento o fra le mani della gioventù in apprendimento durante una lezione.
Per un ragazzo medio, un guaglione non stinco di santo, né votato a dar sempre ragione agli autori della sua promozione, il telefonino non si tocca. Se venga sequestrato la sua voce grida allo scandalo, biasima la sottrazione come rinculo di strisciante fascismo. Il Potere costituito lo depaupera di un diritto iOS o Android, conculca la libertà del suo spirito tecnologico, e poi attenta alla postmodernità. Ormai un cellulare è un’icona d’irriducibile freschezza up-to-date. Esso è un’indispensabile condizione per drippare, ha da far parte del look prima e più di un orologio da polso, obsoleta roba da ancien régime. Se hai ‘Falcon Supernova iPhone 6 Pink Diamond’, magari!, la soddisfazione di flexarlo è libidine allo stato purissimo. Comunque anche uno smartphone di fascia media profuma, nel suo piccolo, di futuristico avvenirismo, aiuta la psiche come un balsamo performante, regala all’Io la sensazione di essere super, er mejo, più divertente di uno yo-yo, veicolo di esplorazione dei social network, dove per molte coscienze si gioca una topica partita ontologica: o figura lì qualcosa che ti riguardi o hai la sgradevole sensazione che la sua realtà sia monca.
Questi e tutti gli altri punti di forza di un telefono portatile devono funzionare, per uno studente nella norma, non a fasi alterne, ma h24, anzi 25, e le lezioni devono far parte di questa continuità, altrimenti una parte della loro didattica dimensione si può trasformare in un’asfittica repressione di libidiche -nell’accezione più ampia del termine- chances, e in una grande rottura di c…ompetitività.
L’allievo standard di questa apologia -arringa che appare una posizione dettata da un’inconfutabile istanza di civiltà- forse è bravissimo a spezzare tali lance anche Cicero pro domo sua, nel senso che un cellulare fra le sue mani in classe sarà pure un simbolo di progresso, ma è anche una pacchia di proibiti peccati. Perché con un ‘telefono intelligente’ -davvero un’arca di scienza in versione bonsai- il ragazzo si diverte e chilla, può interagire a distanza con girlfriend e/o amici e famigliari, sia pur per scrivere solo “Ciao BAE”, può scattare di straforo qualche foto a un docente, o filmarlo in un video parimenti rubato, per poi eventualmente iniettarla/o nella Rete, con una sadica e ideale siringa, e aspettare che diventi virale. E poi, alla fine di tanti altri pragmatici vantaggi, egli non può non lodare, last but not least, la possibilità di mutuarne qualche info durante un compito in classe, qualora il boomer oltre la cattedra sia clemente e lasci il geniale aggeggio dov’è. L’Io è in hype se pensi che, grazie a Internet nel piccolo pozzo di scienza, la prova ottenga il massimo voto col minimo sforzo.
Per saporiti motivi l’anima di uno studente ama, anche in un’aula scolastica, il suo telefonino come se esso sia un fidanzato in senso lato. Il problema è che dall’altra parte della barricata il docente standard non shippa questa liaison, anzi ha molto da ridire, e queste critiche non hanno tutti i torti. Va da sé che le caratteristiche suddette, se viste non dal pov di colui a cui convengono, possano costituire una negativa corruzione della concentrazione che gli studenti, nel loro interesse, devono avere quando i matusa in cattedra danno lezioni.
“Le Monde” sottolinea come nella politica francese si stiano ponendo il problema di garantire “un climat scolaire totalement dédié aux apprentissages”. È questo il punctum dolens: i telefoni cellulari sono una mobile fonte di distrazione almeno potenziale, una sirena che non si attaglia al clima che deve esserci in chi apprende se non voglia perdersi qualcosa della cultura in più dei professori. Oltre al fatto, è lapalissiano, che ogni dipendenza è negativa. Se un ragazzo non riesca proprio a staccarsi dal suo piccolo amico vuol dire, al netto dei mille pregi di questo fratello del computer, che la sua verde mente non è al top della condizione.
Ecco perché in Francia si riflette sull’opportunità di una ‘pausa digitale’, in un parentetico periodo che funga da fertile sperimentazione. Si ventila l’ipotesi di dare ai dirigenti un ‘modulo di autonomia’, ma comunque l’optimum è, come sempre, un confronto democratico fra tutti i soggetti coinvolti.
Sicuramente molte ragazze e molti ragazzi, consapevoli del fatto che i docenti operano sempre nel loro interesse, saranno d’accordo con la loro posizione, in un idem sentire paritetico. E magari succederà pure che una o uno di loro dirà a un docente “Prof, ahi ahi!, lei è un iPhone stan, sta seguendo una influencer, cerchi di emanciparsi dal trash, e finita la lezione navighi su un sito di Cultura”…
Walter Galasso