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DI WALTER GALASSO
Venezia, Serenissima meraviglia, poesia diluita nel connubio fra acqua e incanto. Nel suo genere vanta la ricchissima assenza di paragoni. Una, come le opere d’arte che bis non possono avere. Laguna originale come un paradigma che sorrida con magnanimità ai tentativi d’imitazione, ambiente di vibranti slanci del cuore, turisti in estasiata processione, fiaba che permea l’ossigeno, esorta al piacere che la mente può trovare nella pregnante qualità.
Centinaia, migliaia, milioni d’innamorati -vogliosi di una geografia piena di pathos, anelanti a un tuffo mozzafiato in atmosfere peregrine- vogliono trascorrere nel suo profumato, suggestivo perimetro una parentesi di vacanza, o magari un viaggio di nozze, memorabili giorni d’una luna di miele da incorniciare nell’interiore album della memoria. Gocce à gogo di un’acqua catartica, tourbillon di riflessi che giocano nella luce, come capricciosi tentativi d’involontaria creatività nel caso che vuole essere promosso e diventare eclatante fattore di res gesta. E magari festa di amanti sognatori, cuori che nei loro illimitati desiderata anelano a conoscere meglio questa città, ad assaporarne il non so che di rebussistico, quel suo alone di mistero che non irrita l’imo dell’inconscio, anzi gli piace, lo calamita, intriga l’Es mentre ospita ogni Io delle coppie in brodo di giuggiole.
Malinconia? Ma no! H2O qui esclude, anche nei punti più antitetici a un’ordinaria e comodissima terraferma, gracili fragilità dell’autocoscienza. Questo Comune al di fuori del comune è teatro di onirici decolli, è larvato frame di film che la Decima Musa vuole privi di registi e di comparse e di passivi, marginali spettatori. A queste latitudine e longitudine ogni ego non può che essere un protagonista al centro della scena, re del suo Stato d’animo, ritmico eroe di un’avventura sintetica, fra calli labirintici e pittoresche gondole e un bucintoro che non ha mai smesso di regalare agli occhi del mondo un modello di grazia su onde.
Venezia, se tutto vada bene, se chi la abiti ed esplori ne sia davvero degno, deve ospitare gentilezza cosmica, bellezza spirituale di esseri umani devoti alla sua venustà sublime. Ameno canto del Bel Paese, bella sorella di ogni parte d’Italia, esige, con la didattica dolcezza di un’autorevolezza mai arrogante, bon ton perbene, gesti ammodo, condotte eleganti. In uno spazio così carino, in mezzo a magnetiche e liriche mirabilia, il romanticismo diventa per certi versi più probabile, mentre la Cultura lancia affabili sorrisi agli altri pianeti, che contemplano questa gemma europea con passione astronomica.
Com’è possibile che in questo contesto, così informato a un garbo tradizionale, antico ed eterno, qualcuno possa aver tradito la propria umanità? La Natura dona agli uomini risorse eccezionali nel Creato, e tutti, indistintamente, dal primo all’ultimo, dal Presidente dei Presidenti all’infima ruota del carro meno buono, devono eticamente meritarle, così diventando, in questa moralità ontologica, animi baciati da luce, importanti soggettività, quale che sia il mestiere esercitato in società.
Qualcuno, un orco, un organismo mestamente traviato in un’aberrazione ferina, ha sporcato e ferito e oltraggiato Venezia con la sua imperdonabile violenza, con il suo Male perpetrato ai danni di una Donna. Anche il giornalismo è triste quando deve occuparsi di una storiaccia terribile, nauseante. Di un crimine che grida vendetta, e questo urlo si propaga nel dedalo di vie della violata Repubblica marinara, lesa dall’abomimio d’un marito trasformatosi in boia di sogni, in aguzzino recidivo nella sua seriale malvagità.
Lui, X, un pescatore -di Chioggia- di anni 24, sposa lei, ventenne. Un legame sentimentale nasce da un primo bacio, coccole fra due polarità che equivalgono idealmente alla metà di un intero. Se tutto si evolva positivamente, se ogni sfumatura sia okay, nella diacronia del rapporto il corteggiamento, strenuamente proteso a trasformare la neutralità erotica di una persona in intimità, sfocia nel piacere di mettersi insieme; gli anelli del fidanzamento, con i loro teneri simboli bellamente destinati a svilupparsi in una crescita dell’amorosa compagine, possono evolversi classicamente in emozionato scambio di fedi, nel rito d’intensissimi imenei. E la liturgia della sentita convenzione è bene che sia premessa di giorni duraturi e felicissimi. Nella storia in oggetto no, perché è una laida storiaccia. Una malavitosa parabola di crudeltà, di sopraffazione, di esecrabile e vigliacca violenza.
Il demone, travestito da uomo, getta la maschera presto. Dopo una settimana il violento, affetto pure da alcolismo -che ne esacerba l’inconsulta aggressività-, non si perita di gettare la povera consorte dalle scale. Nel brevissimo arco cronologico di sette giorni la loro relazione, in una fase che dovrebbe essere miele di sentimenti, apogeo di entusiasmo, esordio rosa e pieno d’amore, passa dall’altare alla polvere dell’inferno.
Il proditorio assalto non va assolutamente derubricato a eccezione, né a mero campanello d’allarme: il dramma è già pienamente in atto, quello scatto di ferina ira è prodromo di una tregenda come 4 consegue alla somma ‘2 + 2’. Perché un essere che si macchi d’un tale reato, commesso contro una donna, moglie da pochi giorni, non dà adito, purtroppo, a ottimistici dubbi: se tanto dà tanto tornerà a colpire, a ferire, ad arrecare nocumento a una persona che dovrebbe essere la sua dolce e adorata metà, se lui fosse un uomo ammodo. Ma non lo è. È un bestiale orco rotto a quei turpi maltrattamenti famigliari, probabilmente anche per sfogare, con questa casalinga tirannia, con questo ménage dannatamente privo di pace e di rispetto e di civile democrazia, una massiccia e patologica dose di frustrazione.
L’inerme signora è in sua balia, alla mercé di un compagno che, in una crassa escalation, seguita a umiliarla anche dopo la nascita del figlio. Totale questa vicenda di violenza. Fisicamente consta di pugni, calci, ceffoni, finanche testate, e si estrinseca altresì con vessazioni sintomatiche pure di un vero e proprio terrorismo psicologico. L’orco sputa in faccia all’indifesa vittima, la tortura senza pietà, arrivando a effettuare sopra e contro la donna una minzione -è talmente sconcertante questo episodio che ho preferito evitare una maggiore chiarezza nella descrizione, per affettuoso rispetto nei riguardi della signora-.
Sfreccia nel cosmo un lampo d’indignazione degli Elementi. Un’umana intelligenza implode nella disgrazia di una scatenata depravazione. La Natura è offesa, l’etica calpestata da colpi di nichilistica ignoranza. Questo immondo figuro abbina le aggressioni fisiche con assalti psicologici. Un leitmotiv del suo modus operandi è il progetto di conculcare, anche oralmente, con un linguaggio atto a disprezzare, l’altrui dignità. X, nell’ammorbata e alienante comunicazione con la moglie, vittima sacrificale del suo pravo sadismo, mutua dal vocabolario i termini più offensivi. Perché il suo Io ha inquinata sete di disprezzo, si sente bene se pensi che lei stia malissimo. E picchia duro, oggi più di ieri, domani più di oggi. Un matrimonio ormai finito nella spirale d’una tirannica ed egemonica malattia di un maschio immerso nell’abomimio. Sprofondato in pulsioni distanti anni luce dall’amore, dal sentimento che un marito deve provare per la propria moglie, e pure dal rispetto che ogni individuo deve avere per tutti gli esseri umani.
Chi è intorno a questa famiglia ha l’indefettibile dovere d’intervenire, non deve girarsi dall’altra parte, quella donna va aiutata, con affettuosa solidarietà, affinché il suo supplizio finisca quanto prima. Invece nessuno raccoglie l’S.O.S. che il suo dolore lancia al mondo. E questa tragica storia continua addirittura per più di tre decenni: 30 [TRENTA] anni. Un lunghissimo periodo in cui una persona incapace di difendersi, caduta da un altare matrimoniale in un diuturno incubo, viene oppressa da un meschino verme, capace pure di dirle “ti sciolgo a sangue a furia di disfarti”.
La signora finalmente, purtroppo tardi, si affranca dal tormento e si rivolge alla Giustizia. E la Legge di un Tribunale, dopo vari e vani tentativi del reo di farla franca, posti in essere dall’infame in un atteggiamento sempre più squallido, nell’anno in corso lo condanna a 6 anni e 8 mesi di reclusione.
Qualcuno commenta “pena pesantissima”. Io dissento: 80 mesi sono pochi. È d’accordo con me anche Venezia. L’acqua alta stavolta dipende dalle sue lacrime, versate nel dolore per l’atroce sorte di quella povera donna.
Walter Galasso
Walter, se posso permettermi di chiamarla per nome, lei riesce a scrivere in maniera poetica anche quando tratta di un abominio. Traspare, giustamente, tutta la rabbia e, al contempo, la delusione per noi umani che che continuiamo a voltarci dell’altra parte.