UN BEAU GESTE PIÙ PREZIOSO DI UN CAVEAU. PANINOTECA IN UNA TECA   [COMMENTO A UN FURTO IN  “PANINOTECA DA GINO”;  Comune:  ANGRI  (SALERNO)]

UN BEAU GESTE PIÙ PREZIOSO DI UN CAVEAU. PANINOTECA IN UNA TECA   [COMMENTO A UN FURTO IN  “PANINOTECA DA GINO”;  Comune:  ANGRI  (SALERNO)]

UN BEAU GESTE PIÙ PREZIOSO DI UN CAVEAU. PANINOTECA IN UNA TECA   [COMMENTO A UN FURTO IN  “PANINOTECA DA GINO”;  Comune:  ANGRI  (SALERNO)]

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DI WALTER GALASSO

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   “Paninoteca Da Gino”, ma Gino è Luigi Ferrante. All’esercizio ha dato i natali Visciano, ma il suo Quartier Generale è ubicato a San Vitaliano, nella Città Metropolitana di Napoli, e questa storia è ambientata nella topica succursale di Angri, in provincia di Salerno.
   L’elastica agilità concettuale di questa attività commerciale include anche l’evoluzione -una metamorfosi che non ha nulla da invidiare a quella d’un camaleonte laureato- del core business, per così dire. Macelleria agli albori, Braceria nel primo e fondamentale salto di qualità, nel 2009; poi, siccome il nome non si attaglia perfettamente a un take away decisamente più eclettico, diventa paninoteca. E il leader, sbottonandosi con i mass media, confida e confessa un dato semplicissimo e importante: ah!, s’è tolto un peso, nel senso che questa nuova etichetta è un sacco bella perché… è la verità, “Quindi Panini e solo Panini” [Intervista a “SanVitaliano.net”]. L’intraprendente guaglione si vanta del suo audace D.I.Y., Do It Yourself. I risultati sono ottimi. Finanche una persona che spesso parla male di…, S.L., di Luigino parla bene, dichiarando urbi et orbi che non si può non amare questa paninoteca. L’intervento, per la precisione un reel, pare non un messaggio Above The Line ma una disinteressata manifestazione di stima. E il beneficiario, sornione, la incassa con motivata soddisfazione.
   L’ampliamento del suo raggio d’azione, in un battage e in una fidelizzazione che includono sinteticamente caso sfrenato e razionale road map, diventa dendroide come l’ubertosa crescita, in un albero, di propaggini à gogo. E include pure innesti all’insegna d’una cognazione in senso metaforico, come Ginetta Burger, “la cuginetta di Gino”, parimenti fedele allo stile del paradigma archetipico: Made in Italy + American Style – cazzate ideologiche = “Made of good”.
   A livello di una virale eco mediatica spicca una chiacchierata iniziativa dell’imprenditore, il quale, in occasione dell’ultima edizione del Festival di Sanremo, offre ai clienti la decurtazione d’una parte del prezzo della merce in cambio di voti a un concorrente conterraneo. Questo rapper stravince nel televoto, con oltre il 60% delle preferenze degli spettatori -il “Corriere della Sera” definisce questo boom una percentuale bulgara-, ma la palma nella kermesse canora va a un’altra persona, emersa in un noto talent show, votata solo dal 16,1 per cento di spettatori.
   Forse nell’opinione pubblica monta una polemica contro questa incoerenza? Forse battaglioni di amanti della democrazia la definiscono un’ingiustizia? O masse permeate di equità perorano almeno l’opportunità di cambiare il regolamento, rendendolo più vicino alla Costituzione e meno a… Ma no! Il principale J’Accuse prende di mira, con razzismo, il cantante, perché osa valorizzare il dialetto napoletano. Leoni da tastiera gettano soprattutto questo assurdo fango: bisogna sottotitolare il testo, senza traduttore non si capisce niente. Ricordo a questi detrattori, ignoranti e beceri, prevenuti e maleducati, che ogni dialetto va rispettato culturalmente, e che, nel caso in oggetto, il fior fiore delle storiche canzoni napoletane è importante a livello internazionale. Prima di aprire bocca per eruttare sciocchezze è meglio aprire gli occhi su buoni libri e studiarli come si deve.
   Questi critici se la prendono pure con Lui…gino. Già, l’imprenditore finisce nell’occhio del ciclone, per la trovata di uno sconto a favore del cantante corregionale. Gino, pro bono pacis -la pace sua-, apostata dall’iniziativa, fa palinodia dei campanilistici saldi, e li liquida come una goliardata.
   Nessuno pensi che così sia scivolato su una buccia di banana. Con questo frutto la sua attività, ‘La paninoteca più gialla d’Italia’, ha in comune solo il colore. Anche perché, al netto dell’antica genialità di Marco Gavio Apicio, o dell’estro che alberga nel più recente executive chef Giacomo Locato, un sandwich con un gioiello Chiquita non è il massimo. Il signor Ferrante, vaccinato contro polemiche, va avanti con ghiotto know-how, il suo fatturato fa eccezione al prevalente colore del design, perché è roseo come le vele gonfie di un’imbarcazione col vento a favore.
   Eppure toccano -il locale e il titolare- l’apice della loro gloria non a livello di apoteosi economica, anzi proprio, e paradossalmente, dopo un problema di schei, esattamente a seguito di un furto.
   Ore piccole, 2:45, in un giorno vicino alla superdotata notte a cui la credenza popolare attribuisce un record:  Santa Lucia, la notte più lunga che ci sia. Qualche scienziato dissente? Lady C.P., Credenza il nome e Popolare il cognome, se ne frega. In questo arco cronologico, tornando a bomba, un commando di quattro  [5 per qualche giornale]  topi -nel senso di marioli, non di sorci-  spacca la porta d’ingresso della sede di Angri, quasi neonata, ché è stata inaugurata un paio di mesi fa. Un poker sfigato, bandoleri allo sbaraglio. Dopo l’effrazione, infatti, precipitevolissimevolmente si appropinquano al registratore di cassa, amandolo come un appetitoso indirizzo della loro voglia di guadagnare senza lavorare. Ma esso, in apparenza una cassaforte farcita di banconote -per loro sono più artistiche di dolcissime note-, è una povera icona del deserto. ‘Zero,0′ i quattrini contenuti, un antitetico opposto dell’Eldorado, percepito dai ladri come la deludente e lorda fregatura d’uno squallido peso tara senza un gusto netto all’interno. Un po’ per vindice ripicca, un po’ perché poco è meglio d’un nichilistico niente, prima di andarsene, in fretta (nevrotica) e furia (frustrata), agguantano al volo il dindarolo -non ci è dato di sapere se sia il tradizionale salvadanaio a guisa di maialino suino- dove sono custodite le mance dello staff. Questo grisbi ammonta a 50 euro. Gulp, sigh, grrr: chissà che tourbillon di perdenti e incazzate pulsioni s’è scatenato nella Banda Bassotti. Dietrofront con le pive nel sacco -e un’ideale coda fra le gambe-, però intanto hanno messo a ferro e fuoco il povero locale. Ergo Gino è Giano bifronte:  da un lato non perde quasi nulla come incassi, e sorride; dall’altro, a destra del punto e virgola, subisce comunque un notevole danno, e gli girano -butto e nascondo in un omissis il soggetto-.
   E/ma qui dà il meglio di sé. Sarebbe sbagliato scrivere “cade in piedi”:  lui mentre (quasi) cade, e rischia ‘patapunfete’, (in certo senso) decolla. Diventa infatti autore di un bel gesto. Ad “Agro24” dichiara, chiosando a posteriori il danno e rivolgendosi con culturale dolcezza ai briganti:  “Se avete bisogno di un lavoro, vi assumiamo”. E aggiunge che questa sua proposta è finalizzata, ovviamente, al bene non solo dei quattro malviventi, ma anche delle quaranta famiglie dei dipendenti di quell’esercizio, che rischia di fallire se gli autori di tali episodi criminosi saranno recidivi.
   Questo beau geste vale più del caveau d’una banca. Per la sua finezza il logo della paninoteca merita di essere incorniciato in una teca.

Walter Galasso