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DI WALTER GALASSO
M4. M come Milano, 4 come un poker d’assi, nel senso di supermen. Blu bolide underground, colore del mare in viscere della città trasformate in suggestivi abissi di un’oceanica poesia. Uno space shuttle che partorisce ciclicamente il suo urbano voyage in orizzontale, da San Cristoforo a Linate e viceversa, attraversando il profumo della metropoli, i suoi saporiti segreti, le eterogenee storie del melting pot che brulica sopra, dentro, intorno.
I pensieri sfrecciano velocissimi, l’aria è suggestiva e sa, conosce il cuore di chi la respira. Dal cielo scende sul manto della Lombardia un gusto di febbrile, cosmico dinamismo, che galvanizza ulteriormente i verdi campioni dell’avanguardia. La Metro cuce cesure di spazio, aiuta la gente nel suo puntuale andirivieni, ordina le esigenze, orchestra l’armonia implicita di una vivace città che piace.
Un motore che non si stanca mai. La sua manutenzione è un rito laborioso, non un unto bisogno, produce soave energia e la regala alle gambe degli utenti, afferma l’efficienza contro una cariata stasi. È la funzione che mette kappaò i problemi logistici, come la vera democrazia -la gioia di tutti, nessuno escluso- asfalta il sintetico inferno che puzza, putrefatto, nel cervello di un duce.
M emana il brio della sorridente tecnologia, mentre abbraccia quartieri, irradia l’irregolare musica del suo saltuario cigolio, scorre, superiore ma non superba, su inferiori oggetti chiamati ‘binari’ nei vocabolari al di sopra delle parti. M4 arriva bene alle orecchie, la sua consistenza acustica ha ed è un sound azzeccato, e sprigiona, senza ostentazione, la sua effervescente novità nella concretissima diacronia del valore meneghino. Fa parte di un soqquadro che, rannicchiato nella protezione di un ossimoro, non è un ghettizzato pandemonio, ma appare bello e somiglia al garbo estetico di un quadro, magari d’autore.
Propulsione number one, e un macchinista è in brodo di giuggiole, gagliardo e fiero di pilotare questa eccellenza, che fende con signorile souplesse il variegato milieu del territorio. “Uff!”, esclama chi le sia lontano, mentre chi abita a due passi da una sua fermata, magari De Amicis o Tolstoj, ospita nell’animo l’adulto equivalente della gaiezza d’un bambino che si senta benissimo in compagnia del suo giocattolo preferito. Sì, nel tourbillon di esigenze urbanistiche, con fastidi che zampillano dai strutturali disagi come campionesse gocce dall’ombelico architettonico d’una fontana pubblica, la facilità nella fruizione dei suoi vagoni è pimpante serenità allo stato semipuro. Conduce a un sistematico miglioramento della tonalità emotiva, almeno in chi non sia prigioniero di un’asintotica ambizione e abbia la genuina, naïf capacità di assaporare anche i piccoli piaceri a nostra disposizione sul pianeta Terra.
La nuova, sbarazzina, agile linea della Metro, glamour tour farcito di emblemi in formato compresso, stesso fascino d’una pièce kermesse itinerante, attira consensi, è icona di roba buona, respinge al mittente ogni fasulla critica, e fa gola a chi aneli a poter dire “io con lei ho un rapporto privilegiato”. Chi? Tanti, anche qualche pallone gonfiato -ottimo per addobbare la scenografia d’una festicciola pecoreccia-. Ma qui non si bluffa, Milano non scherza, chi non lavora -davvero e bene- non fa l’amore con il successo, e se non vale resta un cesso.
Quando il gioco si fa duro, e in palio vi sia un primato che conta, nella temperatura del suo ossigeno appaiono i duri performanti, per esempio loro, i writers, talentuosi e borderline, talvolta accusati di vandalismo, usati nei discorsi come soggetti del verbo ‘imbrattare’, bistrattati -in codina animadversione- da personaggi allergici ai loro ferri del mestiere. Le loro orecchie, però, hanno una frontiera, che respinge le menate, non fa passare le rampogne tradizionali, perché nel loro cervello, impegnatissimo senza flexare concentrazione, è bene che il ‘core business’ della loro creatività non venga disturbato da quisquilie. Nel loro cervello, quando ha visto la luce la M4, il centralissimo Io ha chiamato a raccolta il fior fiore del Quoziente Intellettuale, per una romantica mobilitazione noetica. Mission: appropriarsi simbolicamente di quella Linea di transito, del suo sfuggente senso, far capire ai turisti chi comanda davvero nel Palazzo delle sue plurali allegorie.
Visibilissimi e occulti, discreti e arrembanti, liberamente freschi nella loro capacità di avere un’ambizione fatta in casa, originalissima, non esemplata sui clichés eteronomi del Sistema, i militanti della crew Wca, “We can all”, spericolati atleti della fede ‘murales’, hanno fatto un sogno. Hanno fortissimamente provato, in un cuore che svolazza come una farfalla sulle ore di Milano, un entusiasmante imperativo categorico, innamorato di quel mezzo pubblico come se non valga meno dell’ordine dorico del Partenone: marcare il territorio con il non plus ultra, ‘whole car’, ossia connubio -non occupazione- fra un proprio graffito e un intero vagone. Id est l’apoteosi, un corrusco trofeo, senza il neo di accontentarsi di un surrogato per un fifone gap d’audacia.
Una Meta coltivata con sfiziosa intraprendenza già agli albori del sogno, in quell’ottobre 2022 in cui, la Linea lì lì per entrare in funzione, una pleiade di sapienti birichini s’è intrufolata nel deposito dove il gigante giaceva, sornione, nella vigilia dello start, per studiarlo, vedere il da farsi. Un sopralluogo sì preliminare, ma tutt’altro che insignificante. Il treno addirittura non era nemmeno blu, ergo si poteva definire vergine, sicché quel blitz, segno di mezza impresa, è stato adeguatamente stamburato con video, opportunamente postati su social network.
Adesso l’impresa è intera, perché Wca, insieme alla crew Htcs -“Hit the cops”-, ha completato l’opera, istoriando la bellezza di due interi vagoni con spettacolari dipinti di street art. Hip, hip, hip, hurrà!, gioia 5.0, e un premio culturale: il “Corriere della Sera” definisce i graffiti “impresa”. E dire che c’è chi vende l’anima al diavolo per una poltrona in una stanza dei bottoni priva di murales. Qui, invece -narra una leggenda in fieri-, è stato il diavolo a chiedere all’autore d’una tag l’onore di un selfie.
À gogo e virali i video della performance, boom di consensi per questo exploit rigorosamente non profit. Orgoglio, perché stavolta l’erba voglio cresce, e pure in un posto migliore del giardino del re: nella democratica Metro, dipinta di blu, equivalente al retro, condiviso e universale, di un’auto blu -solo il colore in comune-, Lato B più trendy di quello A. La “Blu” è diventata amica, inglobata nel loro slancio artistico, con feeling dionisiaco, in un masterpiece che, al netto del rischio che possa un domani essere cancellato, ha un senso comunque indelebile.
Non mancano coloro che interpretano l’opera come “imbrattamenti”: questi detrattori stiano tranquilli, i writers sono tolleranti e non querelano. Nemmeno chi, prendendo un granchio, gli imputa un ‘attacco’. Quei vagoni rappresentano semmai un attracco, di un ideale viaggio alla sua bellissima Meta Blu. Anche stavolta questi graffitisti hanno slayato.
Walter Galasso