IL PERUGINO  MINIMETRÒ,  UN PEOPLE MOVER  TIPETTO GENIETTO   [Comune:  PERUGIA;  1  VIDEO;  RAI]

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DI WALTER GALASSO

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   Minimetrò umbro, perugino people mover che quotidianamente fa la spola da Pincetto a Pian di Massiano, un poker di chilometri o giù di lì, sin dal 2008. Quasi diecimila passeggeri ogni giorno, velocità media di 25 chilometri all’ora, lo stesso numero di tutte le vetture di cui consta l’urbana flotta. Le carrozze dicono grazie alla fune che alacremente le traina con una magica forma di affetto meccanico e comfort garantito, mentre a bordo, in un primo effetto speciale di questo trasporto pubblico, manca del tutto il personale. La complessiva tecnologia consente questa fiabesca stranezza, e rende particolare l’atmosfera di questa collaudata tipologia di modalità alternativa di viaggio.
   Un tale gioiello è, nel suo genere, la prima opera nel Bel Paese. La gestazione, come spesso accade quando un progetto non è classicamente canonico, è stata graduale e non priva di larvati attriti, dialettiche divergenze d’opinioni, cozzo -con fair play e tolleranza illuministica, ma pur sempre antagonismo è stato- fra pareri appartenenti a diverse scuole di pensiero.
   Questi albori sono inerenti, a livello cronologico, al precedente Millennio. L’idea albeggia addirittura agli inizi del suo ultimo decennio, poco dopo i ruggenti, e talvolta bistrattati, anni Ottanta. Un pioniere dà il la, getta il sasso in un lago allegorico, senza nascondere la mano, ed esso fa proseliti ma non troppo, incontra, nell’articolato tuffo, fautori ma pure detrattori, e comunque, a parte l’antitesi fra ‘Sì’ e ‘No’, anche nel consenso si configura, in questo periodo embrionale, una relativa alterità a livello, per così dire, euristico, in merito al metodo da adottare, oltre che in riferimento ai dettagli della complessa pianificazione. C’è chi la vuole cotta e c’è chi la preferisce cruda, non manca qualche “mi sia consentito dire…” o, per alludere al cantautore Edoardo Bennato, “No, non è per contraddire / Il collega professore”. Un bon ton non del tutto aderente alla realtà, perché in certe circostanze, in un arco cronologico che sfiora il decennio, qualcuno contraddice, eccome, qualche collega, talvolta correndo il pericolo di far saltare una mosca al naso di un soggetto permaloso.
   Tutto normale, ed è giusto così, perché se è vero che entro i 450 chilometri quadrati della città del Grifone il percorso della Metro pocket è solo uno spicchio di tessuto metropolitano, è altrettanto assiomatico che alcune delle sue teoriche caratteristiche lo rendono per forza una potenziale occasione di bisticci teoretici. Il suo tracciato, per esempio, include parti del Centro -con tutto ciò che ne consegue- in modo altamente problematico, a più livelli. E poi sussiste la patata bollente degli espropri, un concetto sempre inclusivo di tenaci resistenze all’orizzonte. Ancor più ingarbugliato l’aspetto squisitamente tecnico, reso più difficile dal suo alto indice di sostenibilità ambientale.
   Morale di questa storia, che fa e vola al tempo stesso: occorrono 8 anni solo per gettare le fondamenta dell’idea su un piano veramente operativo. Nel 1998 si verificano solo i prodromi, in un tripudio di input e in una preoccupante penuria di output, e quelli che all’inizio del decennio, non alfieri di un arrembante pensiero positivo, hanno paventato lungaggini e ideali traversate del deserto, imputati del vizio di mettere il carro davanti ai buoi, si tolgono sassolini dalle scarpe, “donca avevamo ragione, altro che pessimisti!”.
   Ancora deve scorrere molta acqua sotto i ponti affinché si ponga in essere al cento per cento un concreto piano d’azione. Da un lato, grazie ai consigli di un qualificato think tank di esperti e amanti della città, la road map subisce, in questa tesa vigilia del debutto, numerosi emendamenti, aggiustamenti ad hoc, pragmatiche commisurazioni della teoria alla pratica realtà del territorio. Dall’altro bisogna superare anche lo scoglio del beneplacito dei piani alti e nazionali del Palazzo. L’incasinata ridda di spinosi avalli e burocratici nullaosta causa lo slittamento del vero incipit nei primi anni del nuovo secolo. Nel 2003, addirittura un lustro dopo la nascita della Minimetrò S.p.A., v’è, per dirla con un’espressione cara alla sfera simbolica e materiale d’ogni costruzione, edile e non, la fatidica posa della prima pietra. C’è voluto un altro quinquennio per arrivare al glorioso ‘The End’.
   Tanta fatica, sotto la direzione artistica del dottor Jean Nouvel, un cappato architetto che forse ha più premi nel suo palmarès che vestiti nel guardaroba. Mi preme mettere un enfatico accento sul fatto che questo estroso professionista è stato, nella sua arte raffinata, una sorta di deus ex machina, indispensabile per dirimere i problemi -di cui sopra- afferenti la necessità d’intervenire sul tessuto territoriale in magnifica ottemperanza a tutti i canoni di armonia culturale fra l’opera e la città. Egli non si è limitato a iniettare in ogni sfumatura bellezza e originalità di design, ma ha avuto pure il grande merito di adeguare, con precisione chirurgica, ogni particolare della piccola Metro alla qualità dei segmenti cittadini coinvolti -sette le stazioni: dopo Pincetto, e prima di Pian di Massiano, Cupa, Case Bruciate, Fontivegge, Madonna Alta e Cortonese-. Il creativo non poteva mancare alla straordinaria kermesse dell’inaugurazione, il giorno di San Costanzo, uno dei tre santi patroni della città, cioè il 29 gennaio (del 2008).
   Gli artefici di queste mirabilia hanno dovuto mettere al tappeto anche pseudoobiezioni, critiche mosse da qualche avversario, prevenuto bastian contrario, che gli ha rimproverato la megalomania di voler innestare una simile opera su un Comune che non è una metropoli. Un’autentica calunnia, una fanfaluca destituita di fondamento, perché, al contrario, basta gettare uno sguardo a volo d’uccello su Minimetrò per cogliere immediatamente tutta la sua grazia estetica, la sua consonanza con il frame della città, la giustezza -ad angolo giro- della sua guisa formale, che è quanto mai appropriata al contesto ambientale. Le vetture filano con ‘souplesse’, attirano l’attenzione per la postmoderna estetica della loro immagine glamour. Sono protagoniste e discrete al tempo stesso, mai invadenti, delicate nella loro sistematica grinta.
   Meritano di ispirare qualche opera futurista, e, nella peculiarità di non rientrare in una tecnologia ‘antropocentrica’, possono anche simboleggiare una specie di avveniristica libertà. La macchina che guadagna epicamente una sembianza di libero arbitrio. Si emancipa dall’apicale figura di un boss conducente, per scorrazzare allegramente nel perimetro urbano, turista e autoctona al tempo stesso. Attraversa l’aria come l’avvento di un’autonomia emblematica. Incontra vento, ma anche ne crea appendici, deliziando, in ogni abitacolo a misura di uomo, chi voglia gustare il panorama, bello e un po’ ‘cinematografico’, della città senza sentirsi imbottigliato in una calca. La capienza massima? Solo venti persone.
   L’azienda costruttrice, la Leitner Ropeways, ha lavorato bene, in una produzione con tutti i crismi della razionalità. La creatura, ovviamente, avvezza al gusto dell’autonomia, dopo averla lodata per la rimunerata gentilezza della genesi, s’è affrancata pure dai costruttori, nel non so che di universale che ne caratterizza l”hardware’.
   Forse Minimetrò, tipetto genietto, sogna che qualcuno pensi ‘Questo treno è un pezzo di elegante Autonomia, senza piloti, e si è fatto da sé, senza dover dire grazie a nessuno’.

Walter Galasso